Ho ascoltato le 60 canzoni di Sanremo Giovani 2014 senza Google e ho scoperto quanto segue

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Anche quest’anno sono apparse sul sito della Rai le canzoni dei 60 finalisti di Sanremo Giovani 2014. La commissione sceglierà sei artisti e si andranno ad aggiungere ai due vincitori di Area Sanremo per formare la categoria. E anche quest’anno mi sono cimentato nell’ascolto di queste clip da un minuto e mezzo, ma senza usare i motori di ricerca. Questo per sentirmi un giudice di The Voice per non farmi influenzare da curricula/foto/recensioni altrui e cercare di non mettere in croce gente che ha come unica colpa il desiderio di partecipare a un concorso canoro.

È anche un buon esercizio per individuare alcune tendenze: rispetto all’anno scorso, c’è più folk-rock e ovviamente più rap, mentre dance ed elettronica sono del tutto assenti. Non è uno scenario confortante: sei artisti che meritino in pieno un semaforo verde non si trovano, e si finisce per privilegiare nomi più affermati. Se volete anche voi tastare il polso della nuova musica italiana, preparatevi a non restare sorpresi.

AGGIORNAMENTO 13/12: I sei nomi selezionati sono Diodato, Filippo Graziani, Rocco Hunt, The Niro, Veronica De Simone, Zibba. Bravi.

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Copiare e incollare l’articolo giusto appena esce la nuova FIMI

Alla fine ce l’ha fatta. Ligabue è l’artista che ha venduto più copie in Italia nel corso dell’ultima settimana secondo la classifica FIMI/Gfk.Alla fine ce l’hanno fatta. Gli One Direction sono il gruppo che ha venduto più copie in Italia nel corso dell’ultima settimana secondo la classifica FIMI/Gfk.
Mondovisione è il decimo album in studio del rocker di Correggio e segna il suo ritorno alle scene dopo il fortunato Arrivederci, mostro! del 2010. Midnight Memories è il terzo album in studio del quintetto inglese e segna il loro ritorno alle scene dopo il fortunato Take Me Home del 2012.
Presentato a una ristrettissima selezione di giornalisti e con una breve apparizione a Che tempo che fa, il nuovo lavoro di Ligabue è il ventiduesimo album italiano a raggiungere la prima posizione nel 2013, dopo quelli di Jovanotti, Gianna Nannini, Mario Biondi, Fabri Fibra, Modà, Fedez, Renato Zero, Marco Mengoni, Salmo, Emma, Elio e le storie tese, Moreno, Max Pezzali, Samuele Bersani, Negrita, Alessandra Amoroso, Elisa, Emis Killa, Giorgia e Laura Pausini.Presentato con una diretta streaming di sette ore su YouTube, il nuovo lavoro degli One Direction è il terzo album straniero a raggiungere la prima posizione nel 2013, dopo quelli di Depeche Mode e Daft Punk.
Ma il successo del “Liga” va oltre i confini nazionali: Mondovisione è ora 35esimo sulla piattaforma iTunes in Svizzera.Ma il successo degli “1D” non è solo italiano: Midnight Memories è già primo in Australia, Irlanda, Svezia, Regno Unito e Stati Uniti.
Non sono mancati i commenti dei fan sui social network per complimentarsi col loro mito. Piera, 38 anni di Vigevano, commenta su Facebook: “finalmente la VERA musica viene premiata anche in italia!!!! capolavoro&poeta”, mentre @bambolinabarracuda73 esprime così il suo affetto su Twitter: “ciao ti ho visto da fazio eri Bellissimo.miticoliga”.Non sono mancati i commenti dei fan sui social network per complimentarsi coi loro beniamini. Piera, 15 anni di Vigevano, commenta su Facebook: “chi e’ ligabue lol”, mentre @directionella93 esprime così il suo affetto su Twitter: “FOLLOW ME LIAM”.
Gli One Direction, invece, una volta avvisati della loro “sconfitta” sul territorio italiano, hanno commentato: “Dove?”Ligabue, invece, una volta avvisato della sua “sconfitta” in patria, si è celato dietro un rispettoso e sicuramente sportivo “no comment”.
Sebbene i più maligni avessero notato qualche somiglianza tra il primo singolo “Il sale della terra” e un brano dei Linkin Park, il successo di Ligabue sembra inarrestabile.Sebbene i più maligni avessero notato qualche somiglianza tra il primo singolo “Best Song Ever” e un brano degli Who, il successo degli One Direction sembra inarrestabile.
È attesissimo anche il suo tour negli stadi, che toccherà l’Olimpico di Roma e San Siro.È attesissimo anche il loro tour negli stadi, che toccherà l’Olimpico di Torino e San Siro.

YouTube Music Awards: morte e rinascita della cerimonia di premiazione moderna

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Non si capiva bene cosa sarebbero stati gli YouTube Music Awards. Nonostante i Google ads che campeggiavano ovunque negli ultimi giorni e gli ostinati pre-roll della piattaforma, il formato di questa cerimonia di premiazione, le sue regole di voto e perfino i suoi orari erano tutt’altro che chiari.

La diretta è iniziata domenica pomeriggio da Seoul, poi Mosca, Rio, Londra e infine New York. Nelle prime tre città, si esibivano gruppi locali, mentre il countdown show è stato trasmesso dagli studi di Abbey Road, dove un bravissimo Adam Buxton ha proposto qualcosa di molto simile agli spettacoli della sua serie BUG. Il programma – chiamiamolo così – univa sketch dal gusto molto britannico ed esibizioni di grossi nomi (Dizzee Rascal, Tinie Tempah) a comparsate di YouTube star mai sentite prima. La qualità era televisiva, volendo usare l’aggettivo come un complimento e considerando (erroneamente) la TV come modello e punto di arrivo.

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La cerimonia vera e propria da New York ha invece demolito in fretta l’award show come lo conosciamo. Spike Jonze, malgrado non avesse eventi dal vivo nel suo curriculum, non era solo l’unico regista che potesse dirigerla: era l’indispensabile filo conduttore per unire mondi diversi senza snaturarli. Professionale e amatoriale, patinato e DIY, pop e indie: proprio come accade su YouTube, l’unica cosa che avevano in comune ospiti, esibizioni e premiati era la piattaforma.

I due conduttori, Jason Schwartzman e Reggie Watts, avevano una scaletta approssimativa della serata, ma dovevano superare piccole prove continue per fare il loro mestiere. Insomma, l’idea che Jonze aveva avuto per il video di “Drunk Girls” di LCD Soundsystem applicata a una cerimonia di premiazione. Quindi, se di solito questi eventi mirano alla perfezione impossibile e alla prima gaffe sembra andare tutto a rotoli, gli YTMA partivano da una situazione in cui volutamente va tutto a rotoli. Ed è incredibile quanto ci si abitui in fretta a guardare persone che non sanno bene cosa stiano combinando, ma non dovendo preoccuparsi di battute già scritte e tempi morti, pensano solo a divertirsi – e il pubblico con loro.

Le esibizioni degli artisti sono state soprannominate live music videos e in alcuni casi hanno davvero meritato questa nuova definizione: per gli Arcade Fire, Greta Gerwig ha ballato “Afterlife” tra incredibili cambi scena (c’è molto di twee, sì); per M.I.A., Fafi ha creato un circo fluo con tunnel di luci al neon e hula hoop; per Avicii, Lena Dunham ha messo in scena con Vanessa Hudgens una vendetta passionale in pista da ballo (insomma, un mini-episodio di Girls o la storia che Robyn racconta in “Dancing on My Own” con finale sanguinolento). Ma anche gli artisti che non hanno sfruttato appieno questa libertà creativa, si sono espressi al meglio: Lady Gaga si è seduta al piano mentre una telecamera a mano documentava le sue lacrime per la prima esibizione di “DOPE”; Eminem non aveva bisogno di nulla, nemmeno del colore, perché l’ipnotico debutto dal vivo di “Rap God” entrasse nella storia.

Le nomination e i premi, ovviamente, non erano che una scusa per proporre un nuovo contenitore e mostrare le possibilità di un evento spontaneo e orgogliosamente anarchico che dia un buon motivo agli artisti per partecipare e ai fan per stare a guardare. E anche se oggi il contatore delle visualizzazioni non ha mai superato 200.000, la televisione ha già un problema in più.

 

Top 10 Prestigiosi artisti internazionali che sono prestigiosi solo in Italia

Guida definitiva agli artisti che periodicamente ci vengono presentati sugli schermi italiani come grandi nomi internazionali mentre con una rapida ricerca si scopre che se li fila solo l’Italia.

SarahJaneM

Il numero di Sarah Jane Morris è da sempre nella rubrica degli organizzatori di Sanremo quando “…e adesso chi chiamiamo per i duetti internazionali?” (o meglio: “Chi è che non ci darà buca?”). Ce l’hanno in speed dial da una decina d’anni: è apparsa all’Ariston nel ’90 con Riccardo Fogli, nel ’91 con Riccardo Cocciante, nel 2006 con Simona Bencini e nel 2012 con Noemi. Nel 2011 si è anche fatta un Natale in Vaticano.
Ma starsene a casa sua? In realtà Sarah J si divide equamente tra jazz club inglesi e italiani: l’ho scoperto sul suo sito ufficiale, che vi consiglio di visitare se avete nostalgia di Geocities. Certo, una prima serata televisiva in patria se la può sognare.
Il punto più basso? Dopo certi Sanremo, è tutta in discesa salita.

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GaryGo

Agli MTV Days del 2012 feci tre foto in sequenza a Gary Go che arrivava, salutava i giornalisti e se andava. Le postai su Twitter coi titoli “Gary Come”, “Gary Stay”, “Gary Go”. DAI, FACEVA RIDERE UN SACCO. Insomma, il cantante inglese in patria non ha mai superato la top 20, mentre in Italia la sua “Wonderful” (meglio conosciuta come “Seaaeeeeh”) raggiunse la sesta posizione. Sempre grazie a un italiano, ha vinto 1/3 di Grammy (cantava in “Cinema” di Benny Benassi, remixata da Skrillex). Negli ultimi tempi ha fatto un corto.
Ma starsene a casa sua? Per ora non ci ha dato così fastidio, dai.
Il punto più basso? Morandi: “Sembrate molto affiatati voi due, vi conoscete da tempo?”, Emma: “No, da oggi, abbiamo pranzato insieme”.

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DoloresIl primo disco solista di Dolores O’Riordan è andato meglio in Italia (2°) che in Irlanda (15°), mentre il secondo ha schivato la top 20 ovunque tranne che in Italia (6°). È il volere di Dio, perché Dolores ha partecipato a quattro concerti in Vaticano e ci tornerà anche quest’anno.
Ma starsene a casa sua? L’ultimo disco dei Cranberries in realtà è andato abbastanza bene in Europa e Canada. E Dolores viene in Italia solo per incontrare i papi o i sangiorgi.
Il punto più basso? “Zombie” a Sanremo 2012: il suono degli anni novanta che muoiono.

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GipsyI Gipsy Kings non hanno davvero bisogno di presentazioni: sono un brand così solido da avere due formazioni per massimizzare le esibizioni in giro per il mondo. Sanremo, Miss Italia, Natale in Vaticano: immaginate quanti soldi dei contribuenti sono andati a finanziare i medley di questo gruppo nel corso della storia della televisione italiana. Tuttavia, nel 2010 hanno inciso la canzone portante di Toy Story 3 in spagnolo.
Il punto più basso? Una collaborazione con Gigi nel 2008. Evito di linkarvela.

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PonceLa carriera di Lola Ponce è cominciata con un musical di Cocciante ed è continuata con Giò Di Tonno. Curiosità: è l’unica straniera ad avere vinto un Festival. Seguono: altri musical, colonne sonore di film italiani, Mai Dire, un video in italiano girato da Morbioli che su YouTube viene caricato dalla sua casa discografica col titolo con titolo malizioso.
Ma starsene a casa sua? Nel 2010 ha partecipato alla versione argentina di Ballando ed è arrivata sedicesima.
Il punto più basso? Se il punto più alto è quella vittoria al festival…

 

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SkyeLungi da me disdegnare Skye, ma la signora dovrebbe sapere dire no alle proposte che le arrivano dall’Italia. Era partita bene, inaugurando la carriera solista con un bel duetto con Alice nel ’98, e ha fatto belle cose anche fuori dai Morcheeba. Poi le è toccato fare di tutto: la promozione dell’ottimo Back to Now nel 2012 l’ha portata a cantare per il Papa, per Nina Zilli e per Davide Merlini a X Factor 6.
Ma starsene a casa sua? Tra gli artisti di questa lista, Skye è il miglior acquisto. Ma non umiliamo il suo talento.
Il punto più basso? “Rome Wasn’t Built in a Day” con Davide. Il suo imbarazzo era evidente.

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NoaNoa è più conosciuta per i suoi impegni umanitari che musicali. E non c’è nulla di male, anzi, ma sapreste nominare una sua canzone oltre a quella de La vita è bella? Ecco, no(a). Si è fatta due Sanremo (da concorrente nel 2006 con Carlo Fava, da ospite nel 2012 con Finardi) e quattro Natali in Vaticano; ha cantato con Bocelli, Ranieri, Zucchero e Napolitano. Quest’ultimo l’ha fatta Cavaliere della Repubblica nel 2006.
Ma starsene a casa sua? Deve viaggiare come ambasciatrice di pace.
Il punto più basso? L’album di canzoni napoletane nel 2011.

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PattiL’accoglienza che riserviamo a Patti Smith è sempre oltremodo calorosa: fa concerti in giro per la penisola tutte le sante estati. La televisione segue a ruota: probabilmente una sua ospitata costa meno dell’ultima delle popstar e il rendimento è massimo. Ma guardando i numeri, sorge il sospetto che il suo status di icona sia più percepito che reale: l’ultimo album è piaciuto alla critica, ma negli Stati Uniti si è fermato alla 57°, mentre in Italia è arrivato 9°. Non vede la top 20 di Billboard dal ’79.
Ma starsene a casa sua? Teniamocela stretta ché le sue vacanze fanno girare l’economia di tutto il paese.
Il punto più basso? “Because the Night” con Carrà, Cocciante, Noemi e Pelù a The Voice. Peraltro era la meno intonata dei cinque.

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AmiiAmii Stewart (vero nome: Amy) è la capostipite del gruppo, è la vera fondatrice di questo club di popstar internazionali finanziate esclusivamente dall’Italia. Dopo una numero uno americana nel ’79 (l’eterna cover disco di “Knock on Wood”), Amii ha trovato l’America a Monghidoro. “Grazie perché” con Gianni Morandi fu una hit nell’83 (da notare anche il video con un centinaio di cambi scena e cambi d’abito) e da quell’anno Amii non si è fatta mancare niente: Natale in Vaticano ’93 e ’94, il reboot di Fantastico nel ’97, un duetto con Piero Mazzocchetti a Sanremo 2007, per poi tornare sul luogo del delitto con una recente partecipazione a Morandi Live in Arena.
Ma starsene a casa sua? Vive in Italia dai primi anni ottanta.
Il punto più basso? “Sunshine Girl” feat. Gabry Ponte (2013). 

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SkinPuò sembrare che gli Skunk Anansie si siano sciolti all’apice del loro successo, ma Post Orgasmic Chill andò maluccio nel Regno Unito (posizione più alta, manco a dirlo, in Italia: 2°). La band iniziò a imborghesirsi partecipando a Pavarotti & Friends nel 2000 e Skin, non contenta, nello stesso anno cantò “Stagioni d’amore” per il Rent di Nicoletta Mantovani. E indovinate quale paese accolse meglio la sua carriera solista? Entrambi gli album hanno raggiunto solo la top 10 italiana. A questi si aggiungono le (belle) collaborazioni con Marlene Kuntz e Boosta, una colonna sonora per Silvio Muccino e qualche diplomatica comparsata da giudice a X Factor. Con la reunion degli Skunk Anansie nel 2009, la situazione è invariata: l’Italia è l’unico territorio in cui accedono non solo alla top 10, ma perfino alla top 3.
Ma starsene a casa sua? Ora che gli Skunk Anansie sono passati alla Carosello con questi risultati, sono destinati a restare.
Il punto più basso? Il duetto con Emis Killa.

Intervista ad Alison Goldfrapp – Tales of Us

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Il mio contatto alla Mute mi informa che l’intervista con Alison Goldfrapp è slittata di dieci minuti perché l’artista è ancora occupata con la telefonata precedente. “Si vede che oggi è chatty,” dice, “meglio così!” “Chiacchierona” è un aggettivo che non avrei mai pensato di associare alla voce dei Goldfrapp, ma è vero: ha voglia di spiegare nei dettagli un nuovo album a cui è già molto legata. Ci tiene al punto che, quando le chiedo di parlarmi della sua traccia preferita o di quella che ritiene più interessante, si rifiuta di scegliere. “Sono tutte le mie preferite e sono tutte interessanti!” Allora scelgo io: “Annabel”. Il secondo brano di Tales of Us è ispirato a un libro di Kathleen Winter sulla famiglia di un bambino intersessuale in un villaggio canadese. “È una storia affascinante che mi ha commosso ed è raccontata in modo sincero e profondo.”

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Ma è leggendo un altro libro, Carol di Patricia Highsmith, che Alison ha trovato il concept per l’album: la centralità della protagonista nel romanzo l’ha spinta a seguire lo stesso metodo per la scrittura delle canzoni. “Ho iniziato a costruire storie attorno a dei personaggi di fantasia: mi piaceva l’idea di una collezione di testi guidati da un elemento narrativo.” Come “Annabel”, otto delle dieci tracce dell’album narrano di personaggi presi in prestito da altri autori, ma a fare la differenza è la prospettiva di Alison perché “quando racconti la storia di qualcun altro, racconti anche qualcosa di te”.

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Le chiedo quindi se si sia ispirata anche al cinema, dato che il video del primo singolo, “Drew”, ricorda vagamente The Dreamers di Bertolucci. Non conosce il film (“Sei la seconda persona che me lo fa notare oggi!”), ma il cinema d’autore europeo è un’ispirazione costante: ogni canzone è come un corto e l’aspetto visivo del progetto, in bianco e nero, “esalta la narrativa con una forza e una semplicità che non si può ottenere col colore”. È di certo un’estetica molto lontana da quella di altri capitoli della discografia del duo, ma ci siamo abituati: dagli esordi morriconiani di Felt Mountain (2000) all’electropop avanguardistico di Black Cherry (2003) e Supernature (2005), dall’intimità acustica di Seventh Tree (2008) alle incursioni anni ’80 di Head First (2010), i Goldfrapp hanno addestrato i fan a cambiamenti radicali di immagine e suono. Un giorno, Alison canta di una serata in discoteca; quello dopo, di un ricovero al pronto soccorso per attacchi di panico (“E sono esperienze molto legate tra loro!” scherza).

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Avanzo l’ipotesi che ogni sua metamorfosi sia paragonabile all’adozione di alter ego o stage persona diversi, ma la cantante risponde con molta naturalezza di volere solo provare qualcosa di nuovo. “Ci sono due mondi: quello aggressivo ed elettronico di Supernature e Head First, e quello pastorale, bucolico e orchestrale di Seventh Tree e Tales of Us. Sento che quest’ultimo mi appartenga sempre di più, che sia quello più vicino a me.”

Le faccio notare che, in effetti, nella campagna promozionale di Head First non sembrasse particolarmente a suo agio. E, con un po’ di timore, le confesso come questa nuova veste corrisponda molto di più alla mia idea di Goldfrapp. Non vuole parlare di Head First, ma aggiunge di non avere mai fatto nulla per seguire una moda o assecondare pressioni esterne sin dal primo disco. “Tutti erano molto confusi quando abbiamo pubblicato Felt Mountain, e li abbiamo confusi ancora di più con Black Cherry perché quel genere di elettronica non era affatto in voga, allora. Ma i nostri fan, quelli veri, sono sempre aperti alle novità. In fondo, se guardi la collezione di dischi o le playlist delle persone che conosci, non troverai nessuno che ascolta solo un tipo di musica. E noi non possiamo accontentare tutti.” Suggerisco che, però, considerando la loro carriera nel complesso, il voler fare sempre di testa loro ha dato ottimi frutti. “E questa è la cosa più importante.”

Tales of Us esce il 9 settembre

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Macchianera Italian Awards 2013

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macchianera-awardsE insomma, mi avete nominato nella categoria Miglior sito di musica ai Macchianera Italian Awards 2013. L’avete fatto anche l’anno scorso e poi sono arrivato ultimo, ma non è questa la cosa importante: finire nuovamente in nomination contro solo un altro blog e otto siti di dimensioni nemmeno paragonabili è davvero un piacere. Certo, i premi non contano niente e, certo, non è che ci sia tutta ‘sta scelta nell’internet italiano, ma i MIA restano uno dei pochi parametri per capire se ha ancora un senso scrivere su un blog nel 2013.

Prendi questa, Lady Gaga.

Per me, banalmente, Pop Topoi resta il luogo dove buttare tutti quei contenuti che superano i 140 caratteri e/o che nessuno mi pagherebbe per pubblicare altrove. Il risultato è (da sempre) schizofrenico e incostante, ma posso garantirvi almeno due cose: non farò errori nei titoli delle canzoni inglesi e controllerò sempre prima di pubblicare le correzioni automatiche dell’iPhone. (Scusate, non ho resistito.)

Se volete almeno provare a farmi perdere con dignità, votate qui. Se siete arrivati dal sito di Macchianera disorientati e confusi, nella colonna a sinistra trovate una selezione di link per farvi un’idea.

Mutya Keisha Siobhan: la reunion e il primo concerto

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Poco prima che Mutya, Keisha e Siobhan salgano sul palco, qualcuno mormora: “it’s going to be the gig of the year”. Viene da sorridere e ricordargli che siamo pur sempre in una mezza bettola per lo showcase di un gruppo che non si presenta in questa formazione da 12 anni. C’è il rischio che possano essere un po’ fuori forma o che, peggio, propongano nuovi brani mediocri sgonfiando l’hype per un ritorno che non si è ancora del tutto concretizzato. Questo concerto è una mossa cauta, una prova della prova, e avviene quasi a porte chiuse, considerando che il locale può contenere al massimo mille persone. Eppure quei pochi biglietti sono andati esauriti in 14 minuti e là fuori c’è chi li rivende al quintuplo del prezzo originale.

Tutto riparte dal principio, con tre sgabelli sul palco – sinonimo inequivocabile, per chi ha seguito l’epopea della band, di “Overload”. Il singolo di esordio delle Sugababes suona ardito ancora oggi: era l’incontro, sfacciatamente minimale, tra R&B americano e uno stile britannico ancora influenzato dalla garage. Non è un caso se, a farlo incidere a quelle tre adolescenti che bazzicavano in uno studio di registrazione, fu lo stesso manager delle All Saints. Proprio come le All Saints furono la risposta credibile e adulta a quel carro di Carnevale chiamato Spice Girls, le Sugababes mostravano un aspetto più serio e contenuto delle rivali (le Atomic Kitten prima, le Girls Aloud dopo). Ballavano poco, sorridevano ancora meno.                        MKS1Non inizieranno certo a ballare stasera, ma sorridono molto, perché trovarsi davanti un pubblico così affezionato e partecipe – a Londra, per giunta, dove a malapena si applaude – va oltre ogni più rosea aspettativa. Il boato più forte arriva quando Siobhan, che lasciò il gruppo dopo il primo album e si avviò verso un’eccellente ma sfortunata carriera solista, intona il bridge di “Stronger”. Quella parte era di Heidi Range, la sua sostituta (tanto talentuosa quanto priva di carisma), e adesso spetta a lei. Nei video su YouTube che catturano quel momento, la voce di Siobhan si perde tra le urla del pubblico: c’è, oltre all’apprezzamento per la cantante, l’eccitazione di vedere per la prima volta cosa sarebbe successo se le decisioni di qualche manager e le lotte intestine non avessero compromesso la sua presenza nella band. Per ragioni simili, se ne andò anche Mutya nel 2005, all’apice del successo del gruppo, per un progetto soul mai decollato. Finì poi nella versione VIP del Grande fratello e in qualsiasi programma che volesse un parere sulla sua amica Amy Winehouse.

Se un tempo le differenze le portarono a tensioni e litigi, ora fanno di loro un gruppo versatile e consapevole della sua unicità. I sette inediti presentati stasera mettono in luce una varietà che forse in passato, per mancanza di esperienza ed età, non avrebbero saputo ottenere. “No Regrets”, prodotta da Naughty Boy, è un’intensa power ballad che sancisce l’armistizio tra le tre ragazze; “Love Me Hard”, che porta il leggendario marchio Biffco, è un’altra ballata molto classica su un beat sintetico e valorizza al massimo l’unione delle loro voci; “Boys”, alla quale ha lavorato anche MNEK, è la più veloce e leggera (diciamo pure che il testo è un po’ cretino), ma avendo un arrangiamento marcatamente elettronico, ci guadagnerà in versione studio. “Boys” doveva anche essere il primo singolo, finché Dev Hynes non arrivò con una canzone nettamente superiore che, come tutte le recenti produzioni del musicista inglese, trova un’incredibile armonia tra retro e modernità: suona familiare, ma non c’è nulla di simile in giro. Nel bis, il crescendo finale di “Flatline” viene arricchito dai versi di “Push the Button” e per qualche strana ragione funziona alla grande. È l’ultima sorpresa di un concerto che qualcuno, ancora prima che iniziasse, aveva già definito the gig of the year. La cosa incredibile è che ci aveva visto giusto.

Infografica: i primi sei mesi del 2013 nella top ten italiana

Siamo a luglio ed è il momento adatto per estrapolare un po’ di dati su questo piccolo, buffo mercato italiano. Alcune tendenze sono già piuttosto marcate, ma per un confronto con quello che è successo nel 2012, aspettiamo la fine dell’anno. Come al solito, i dati sono stati compilati a mano, quindi se trovate errori, vi prego di segnalarli.

statistiche

Nei primi sei mesi del 2013, 59 album sono entrati nella top ten italiana.
 44 artisti sono italiani, 15 stranieri: 5 per il Regno Unito, 5 Stati Uniti, 2 Canada (Justin Bieber, Michael Bublé), 1 Francia (Daft Punk), 1 Israele (Asaf Avidan), 1 Barbados (Rihanna) (Sì, quest’ultima forse andrebbe contata come statunitense, ma pare abbia ancora la cittadinanza barbadiana).
 15 sono arrivati alla numero uno e sono tutti italiani fuorché Daft Punk e Depeche Mode. Entrambi sono rimasti in vetta solo per una settimana.
 L’Italia ha condiviso solo un numero uno con Stati Uniti e Regno Unito: Random Access Memories dei Daft Punk.
• Ci sono state 3 settimane (la quarta, la nona, la decima) in cui la classifica era occupata interamente da dischi italiani. Nel caso della decima settimana, per trovare un album straniero bisognava aspettare la 18° posizione.
 Tutti i numeri uno del 2013 hanno conquistato il titolo già nella prima settimana di pubblicazione. Moreno vi ha trascorso un totale di 5 settimane (a pari merito con Jovanotti, contando le sue 3 settimane in vetta nel 2012).
 Il genere predominante di 12 album su 59 è il rap e sono tutti italiani. 5 di questi sono arrivati primi.
10 artisti hanno partecipato a talent show: 5 ad Amici (Annalisa, Emma, Greta, Moreno, Verdiana), 2 a MTV Spit (Moreno, Clementino), 2 a X Factor Italia (Chiara, Marco Mengoni), 2 a X Factor UK (Little Mix, One Direction).
 8 album sono debutti discografici, ma l’unico di questi ad aver raggiunto la vetta è Moreno.
 7 artisti hanno partecipato al Festival di Sanremo 2013. I primi tre classificati, avendo pubblicato i rispettivi album in momenti diversi, hanno anche esordito alla vetta.
Justin Bieber (19 anni) è il più giovane a essere entrato in top ten, Moreno e Fedez (23) sono i più giovani alla numero uno.
 6 ultrasessantenni sono entrati in top ten. Il più vecchio è Adriano Celentano (75).

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 Jovanotti non è mai uscito dalla top ten dalla pubblicazione della raccolta Backup – Lorenzo 1987-2012. Ha passato quindi 30 settimane consecutive in classifica, di cui 25 nel 2013. Fedez e Modà vi hanno trascorso 16 settimane (non consecutive per i Modà).
 Marco Mengoni e Daft Punk sono gli unici artisti a essere stati primi in classifica sia negli album che nei singoli. 

Label

 Sony e Universal sono le major più rappresentate, ma Sony ha avuto più numeri uno (7 contro 5).
 3 indie hanno avuto un numero uno (Tattica/Indipendentemente con Renato Zero, Ultrasuoni coi Modà, Tanta Roba con Salmo).

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 120.000 persone posseggono un disco dei Modà.

Primavera Sound 2013: giorno 3

primaveraAlla fine non ha piovuto, ma c’era un vento a trenta gradi sotto zero che a tratti come raffiche di mitra disintegrava i cumuli di barbe. I veterani del Primavera dicono di non aver mai subito un tempo simile e, al terzo giorno, il freddo iniziava un po’ a influire sui piani e di conseguenza sull’umore. Ma non ha piovuto, quindi il dito medio verso i festival inglesi possiamo ancora tenerlo alzato.
Per questione di gusti musicali, il terzo giorno si presenta per me meno ricco dei precedenti, ma mi tolgo comunque delle belle soddisfazioni. La prima è vedere Apparat in teatro.
Su Twitter, qualche tempo fa, l’artista tedesco si lamentava delle lamentele ricevute perché a volte chi va a vederlo dal vivo si aspetta un DJ set e si ritrova i violini. Il suo svantaggio è essere un nome che molti ancora collegano solo all’elettronica che si balla; il suo vantaggio è la versatilità, il saper passare da Modeselektor a Gianna Nannini senza perdere un briciolo di dignità. Al Primavera Sound propone Krieg und Frieden, musica commissionata da un festival tedesco per una rappresentazione di, appunto, Guerra e pace. Addio lulz, stasera ci tocca un po’ di cultura.
APPARATIl concerto si tiene nell’Auditori Rockdelux e assistervi significa estraniarsi per un’ora dall’atmosfera festivaliera, sedersi al chiuso e fare le personcine a modo. Lo spettacolo si compone di due parti (40 minuti ininterrotti e poi ancora una quindicina) in cui l’artista, accompagnato da un violino e un violoncello, suona, smanetta e addirittura canta. La sua voce (intonata e sempre adeguata, ma non da cantante professionista) è l’unica, piccola critica che si può muovere a questa pièce. È di grande effetto anche l’aspetto visivo: un gruppo di artisti chiamato Transforma siede in un angolo del palco giocando con diversi materiali (terra, carta, corda…) e il tutto viene ingrandito e ri-proiettato in diretta sullo sfondo.
Accanto a me sedeva un tizio con la maglietta degli Iron Maiden e credo che a un certo punto abbia versato qualche lacrima. Va’ tranquillo, tizio con la maglietta degli Iron Maiden, il tuo segreto è al sicuro con me.
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Toh, i Crystal Castles, un gruppo che non vedevo dal loro esordio e che riesce perfino a farmi venire nostalgia di MySpace. Non che siano cambiati molto dal 2008, eh, ma è incredibile come un gruppo nato dalle ceneri dell’electroclash riesca ancora oggi ad avere un pubblico così trasversale da garantire loro l’accesso a festival in cui, musicalmente, non c’entrano molto. Il trucco è sempre lo stesso: Alice lancia urla disperate o sussurra con filtri robotici, e il concerto è una sequenza uniforme di canzoni molto simili tra loro in cui spiccano solo i due singoli storici (“Alice Practice”, “Crimewave”) e “Not in Love” (che senza Robert Smith quasi non ha senso). CRYSTAL-HOTCHIPEppure, la formula è così collaudata che funziona, soprattutto per chi ha voglia di ballare un’ora sotto il bellissimo palco Ray-Ban – magari pensando a quanto eravamo ingenui ai tempi di MySpace.
L’ultimo concerto (escludendo qualche DJ set per gli insonni più ostinati) spetta ai Hot Chip. Non potrebbe esserci conclusione più azzeccata: il gruppo è forse il nome più pop del cartellone e, in una serata di cupi headliner (Nick Cave, My Bloody Valentine), la loro spensieratezza è molto gradita. Io che li vedo per la prima volta, mi accorgo improvvisamente della quantità di singoloni pazzeschi che hanno tirato fuori negli anni e di come nessuno resti indifferente ai loro ritornelli ossessivi e un po’ cretini (“Do it do it do it do it do it now”, “Over and over and over and over”, “Night and day night and day…”). Non è un concerto indimenticabile e la voce e la presenza scenica di Alexis Taylor non sono sempre all’altezza del numero di persone che devono intrattenere, ma ci si diverte moltissimo e si usano tutte le poche energie rimaste per gli ultimi minuti dell’edizione 2013.
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Per il 2014 è stato annunciato (su un megaschermo nell’attesa del concerto di Nick Cave) il primo gruppo headliner: Neutral Milk Hotel. L’indifferenza generale attorno a me al momento della rivelazione lascia forse intendere che gli organizzatori non dovrebbero puntare troppo su un’altra reunion come attrattiva principale. Ma è anche vero che un cartellone come il Primavera, nell’Europa continentale, non ce l’ha nessuno e si può benissimo vivere un bel festival evitando tanti grossi nomi. Non credo ci sia un’altra persona ad aver visto il mio stesso Primavera e la mia stessa combinazione di artisti, e il fatto che i palchi non siano divisi per genere permette di avere accanto un pubblico sempre diverso e tendenzialmente onnivoro. Ci si vede l’anno prossimo. Non vedo l’ora di intasarvi nuovamente il feed con foto della ruota panoramica.

Primavera Sound 2013: giorno 2

primaveraInnanzitutto, sappiate che giovedì al Primavera Sound 2013 si è sfiorata la tragedia. Un membro degli One Direction è stato infatti avvistato nel pubblico del festival, dando credito ai tanti tweet di gente che pensava di avere avuto allucinazioni a forma di Harry Styles. Le fan forse erano a già a dormire o forse per una volta il loro servizio di intelligence ha fallito, ma è un vero miracolo se non siamo stati calpestati da una mandria di directioner urlanti (volendo, avrebbero potuto attaccare il festival pure dal mare!) in cerca del loro idolo. Ieri sera, invece, non è stata avvistata nessuna boyband, nonostante i bookmakers dessero praticamente per certo Nick Carter nel pubblico dei Neurosis.
E ora, i concerti della giornata.
Solange1
SOLANGEÈ da pigri iniziare col solito paragone, ma proprio mentre Beyoncé gira il mondo con l’ennesimo, pirotecnico tour, Solange sale sul Pitchfork stage di Barcellona. Il suo è un altro tipo di regalità: quella che mette al centro le canzoni. Ma è un impero altrettanto rigido: se Solange ti chiede di spegnere fotocamere e cellulari, tu lo fai; se Solange ti chiede di cantare con lei “PAH-PAH-OOH”, tu lo fai; se Solange ti chiede di ballare, tu lo fai – vergognandoti un po’ perché dal palco il suo stilosissimo complesso ti vede.
La sorella di Mazinga si presenta con una giacca verde fosforescente e propone i brani del nuovo repertorio scritto e prodotto con Dev Hynes. Ognuno di questi ha un balletto coordinato e suona più ballabile della versione album, ma la voce è leggera e misurata quanto i beat. L’unica pecca è un repertorio ancora troppo limitato (solo un paio di pezzi del suo passato, riarrangiati, compaiono in scaletta), ma c’è ragione di pensare che quando arriveranno un album e un tour vero e proprio, Solange diventerà la popstar globale che merita di essere. Per ora, la sua esibizione è la più quando-ti-ricapita del cartellone, ma fate in modo che vi capiti presto.
Solange2
Due sono le critiche che si sentono più spesso su James Blake: è noioso ed è freddo. Sulla prima, non ci si può fare molto: è questione di orecchie; sulla freddezza, si può invece discutere, soprattutto dopo aver visto centinaia di persone ondeggiare (o addirittura scatenarsi) sui suoi profondissimi bassi. Dal vivo, James dà molto peso alle sue radici (post)dubstep e gli spazi sono meno rarefatti. In alcuni casi, ha un approccio quasi aggressivo nel rivisitare i suoi stessi pezzi per adattarli al contesto live; JAMESBLAKEin altri, trova il modo di lasciarli quasi intatti, ma valorizzando gli elementi ritmici e lasciando più in ombra le tastiere. Io me lo sono goduto tantissimo senza mai annoiarmi – come potrebbe suggerire questa luna piena con piano.
JBlake
HOWTOÈ appena passata l’1 e mi trasferisco verso il palco di Vice. La vicinanza fisica al logo della testata mi dà l’immediato potere di aggiornarvi sui DOs and DON’Ts della serata. DO: scegliere il palco più vicino al mare; DON’T: scegliere il palco che attrae più folla; DO: ascoltare How To Dress Well; DON’T dare corda a un gruppo che tanto non si scioglie. Tom Krell arriva conscio dell’orario assassino che gli è stato assegnato e scherza: “We’re not called Blur”. Ci sono al massimo duecento persone a vedere il suo semplicissimo set: un violino, due laptop, due microfoni (uno normale e uno con un riverbero infinito, che alterna con particolare effetto nella dialogica “Talking To You”). Emozionato, ma consapevole del miracolo che è la sua voce e di ciò che può fare, Tom decide di testare (per la prima volta, dice) alcune novità sul finale: un inedito scritto a Ibiza che interpreta a suo modo la dance (!) e una cover di “Again” di Janet Jackson. Molto più tender di qualsiasi cosa si sia ascoltato dall’altra parte del Forum (perdonatemela).
Howto
Chi sceglie i The Knife al Primavera ha un lusso: sa già a cosa va incontro e non ha pagato un biglietto per vedere solo loro (io, dopo tre concerti stupendi in sei ore posso già dirmi soddisfatto della giornata). Si parte prevenuti dopo le recensioni del tour lette negli ultimi mesi e sappiamo che non c’è da aspettarsi un concerto rock suonato, uno spettacolo pop patinato o un DJ set. Assistiamo invece a qualcosa di unico che è al contempo un rave, un rituale massonico, una TV sintonizzata sugli anni ’80 e un saggio di danza delle elementari. Da lontano, lo spettacolo è davvero divertente e alla fine di ogni pezzo viene da chiedersi quale idea stupida o geniale (a seconda dei punti di vista) sfrutteranno per il successivo. knife-disclosureMa la vera differenza la fanno i megaschermi perché un’ottima regia riprende quei dettagli che gli spettatori del tour non hanno forse avuto modo di notare. Ancora una volta, dare un giudizio definitivo sui The Knife è impossibile ma, come ho già detto nella recensione dell’album, con loro bisogna stare al gioco.
Sono le 4.30 e mi avvicino con stanchezza e curiosità (ma più stanchezza) al Pitchfork stage per i Disclosure. Mi aspettavo un ordinario DJ set perché (sbagliando) li consideravo solo produttori. Invece, i due fratelli inglesi alternano computer e strumenti. E cantano. Una bella sorpresa che li rende in qualche modo più appetibili: forse la presenza di vocalist nei singoli era più dettata dal marketing che dall’effettivo bisogno di aiuto. “F For You”, per esempio, dimostra come ce la facciano anche senza ospitare le belle voci di Eliza Doolittle o Aluna. Resterei volentieri per sentire in anteprima i pezzi del loro primo album (in uscita a giugno) ma sono le 5 e là fuori c’è pieno di tassisti con cui devo litigare.

Primavera Sound 2013: giorno 1

primaveraSono solo le 12 del primo giorno quando è chiaro che il Primavera Sound 2013 ha già un vincitore, almeno nella categoria indie-ironia al festival: il batterista degli argentini Go Neko! suona con una maglietta di American Idol. Il gruppo è il primo di una lunga serie a esibirsi nella terrazza dell’hotel Diagonal Zero per il pubblico del PrimaveraPro, evento parallelo per addetti ai lavori con conferenze sul settore. Da bravo secchione, faccio in tempo a vederne un paio. La migliore s’intitola “Welcome to the music industry: you’re fucked” ed è tenuta da Martin Atkins, musicista (PiL, NIN) diventato accademico non tanto grazie all’originalità dei suoi insegnamenti quanto per la sua bravura nel proporli in formato stand-up comedian. Tant’è vero che dimentico di stare ascoltando banalità sull’importanza dei social e i dischi paga-quanto-vuoi.
Poco dopo, si va a dare un’occhiata alla delegazione italiana: Foxhound, Blue Willa, honeybird & the birdies. Questi ultimi, già visti al Primo maggio, sono quelli che ne escono meglio e con cui ci si diverte di più (non solo a causa dei costumi e la tropicalizzazione improvvisata del palco). SavagesSAVAGES1Bel colpo, per il Primavera Sound, aver puntato sulle Savages in tempi non sospetti. Fresche di un album nella top 20 britannica, le quattro ragazze arrivano alle 19.30 sul palco di Pitchfork (e dove, se no, dopo quell’8.7?) con grande sicurezza per poi piegarsi a metà set a causa di un problema tecnico che mette fuori uso la chitarra. Il pubblico, fino a quel momento non troppo partecipe, si scongela per incoraggiare le tre rimaste, che si arrangiano come possono sullo stesso giro di basso per più di dieci minuti. Un vero peccato, perché meritano davvero molto dal vivo.
Dopo aver fatto finta che me ne fregasse davvero qualcosa dei Tame Impala oltre a quel carro armato di “Elephant”, mi rimetto a correre lasciandomi dietro il gruppo e i loro visual: “psichedelia anni 70” diranno loro, “salvaschermo Windows 95” dirò io. In realtà, sono molto in anticipo e riesco a posizionarmi in prima fila per Jessie Ware. Il grosso del pubblico arriverà a concerto iniziato e non se ne pentirà. Come avevo già avuto modo di scoprire l’anno scorso guardando qualche festival (in streaming), la Jessie Ware sul palco non ha molto in comune con la Jessie Ware su disco. In Devotion (e nei video di Kate Moross che lo promuovono), la cantautrice è una diva altezzosa, irraggiungibile, che canta in modo controllato e delicato; dal vivo, è calorosa, coinvolgente e dà gran sfoggio della sua potenza vocale. La raffinatezza del disco è stravolta e l’assetto della band che l’accompagna (un tradizionale basso-chitarra-batteria) contribuisce ad adattare i brani al contesto del festival. E la diva al tempo della crisi, forse non potendosi permettere coriste, usa cori registrati che attiva lei stessa dal sequencer. Si diverte, scherza (prima di “110%/If You’re Never Gonna Move” e “Imagine It Was Us”, JESSIEWARE1avverte: “ballate ora perché sono i due unici pezzi movimentati del mio repertorio”) e il pubblico, che la vede arrivare per la prima volta in Spagna, la accoglie cantando i testi a memoria con le dita puntate al cielo. Valeva la pena volare fino a Barcellona anche solo per lei.
JessieWare
Di nuovo Heineken stage per i Postal Service. Se Gibbard e Tamborello non si fossero fermati a un album nel 2003, sarebbero tra gli headliner a un festival nel 2013? Si potrebbe fare un paragone con Arrested Development, serie TV iniziata negli stessi anni che lunedì tornerà con nuovi episodi dopo aver raggiunto lo status di cult anche a causa della sua cancellazione. Ma a differenza di Arrested Development, Give Up non è invecchiato granché bene: come accoglieremmo oggi un album con testi tanto naïf sul surriscaldamento globale e il perfetto allineamento delle lentiggini di due amanti mentre si baciano? Eppure, anche incolpando la dilagante nostalgia, i Postal Service con Jenny Lewis postalservicedal vivo ti stampano un sorriso idiota in faccia. Anche il nuovo materiale (la mediocre “Tattered Line of String”) e i brani meno memorabili come “Recycled Air” sono eseguiti e accolti con emozione e trasporto. Per “Such Great Heights”, invece, consultare la voce “incontenibile gioia del trentenne occidentale medio”.Phoenix
phoenixI Phoenix sono un gruppo di cui non ho avevo mai capito l’appeal. E a chi mi diceva “devi vederli dal vivo!”, rispondevo che li avevo già visti: suonarono a un festival italiano dopo (o forse addirittura prima) dei Baustelle dello yé-yé. Però, sono passati quasi dieci anni e ora i Phoenix hanno canzoni che possono buttare giù le arene (la migliore del nuovo disco, “The Real Thing”, sembra avere proprio questo scopo) e le eseguono con una precisione impressionante. Non c’è una sbavatura, è un concerto pop grosso di un gruppo all’apice della fama che può fregarsene del minimalismo e dell’umiltà (però, seriamente, il visual con la cartolina di Versailles potevano evitarselo). Ora, se non avessi a cuore il mestiere degli addetti alla sicurezza, mi sarei messo a urlare “ZOMG LOOK DAFT PUNK ARE HERE”. Ma non voglio causare stampede. I robot non si presentano (e perché mai dovrebbero, poi) e dopo dieci minuti di Four Tet dal lato opposto del parco, mi arrendo. Sono le 3 del mattino.