Primavera Sound 2014: giorno 1

PrimaveraLogoCome diceva ieri Stromae, il Primavera Sound è un “discovery festival” e in ogni edizione che si rispetti ci deve essere almeno un artista che si guarda in mancanza di alternative e poi si rivela una bellissima sorpresa. Al PS14, per me, quell’artista è Glasser. È troppo björkiana perché io non possa avere un debole per lei e ha un’attitudine pop che la sua madrina ha dimenticato più o meno dopo il video di “Big Time Sensuality”. Sarebbe oltretutto ingiusto definirla derivativa (l’altro nome a cui viene inevitabilmente associata è Kate Bush) perché il suo pop elettronico, tribale ma sofisticato, è originalissimo. Cameron Mesirow è inoltre una cantante potente che sa tenere il palco in un modo tutto suo, gioioso e ammiccante, e col solo “aiuto” di un socio muto e immobile al laptop. Una bellissima scoperta.

glasser

Sono decisamente meno fotogenici i Majical Cloudz, che arrivano al Pitchfork stage armati di un minimalismo totale. Non ci sono visual, non ci sono giochi di luce: non si può che fissare l’espressione un po’ inquieta di Devon Welsh (la combinazione maglietta bianca + testa rasata + occhio di bue fa sì che lui stesso nelle foto si trasformi in una majical cloud) o le unghie smaltate di nero di Matthew Otto che si muovono sul synth. Dopo 40 minuti di un set intensissimo, viene voglia di abbracciare chiunque parlando di #vibez.

majical cloudz

Alle 22 è il turno di St. Vincent, che nel pomeriggio era stata una delle poche a concedere una conferenza stampa. (Domanda: perché su un centinaio di artisti in cartellone solo quattro fanno la conferenza stampa? Risposta: perché, su 1.400 giornalisti accreditati, a sentire St. Vincent ce n’erano sì e no 15.) (Domanda: Ma alla fine la conferenza stampa di St. Vincent ha fornito incredibili rivelazioni sull’artista o perlomeno sul suo parrucchiere? Risposta: no.) (Domanda: il sottoscritto ha poi avuto il coraggio di alzare la mano e chiedere: “Allora, St. Vincent, come va il casinò?” Risposta: no, egli è un pavido.)
Annie Clark, dicevamo, arriva sul palco Sony e spara subito molte delle cartucce più potenti: “Rattlesnake”, “Digital Witness”, “Cruel”, “Birth in Reverse”. La sua scenografia geometrica è semplicissima, con un piccolo podio che ricorda la copertina dell’ultimo album, ma di grande effetto – soprattutto se vista sui megaschermi dello sponsor. Lei è glaciale, ma riesce a trovare il modo di rendere la sua freddezza una virtù, muovendosi solo a scatti robotici o a piccoli passi da geisha. Non parla col pubblico se non per salutare i suoi freaks, come una Mother Monster poco accogliente e molto severa (su “Digital Witness”, il suo pezzo anti-social media, ci si sente in colpa a smanettare su Instagram per trovare il filtro giusto). Un concerto di un perfezionismo assoluto danneggiato solo da una scaletta che concentra gran parte dei pezzi più forti all’inizio.

st vincent

Dopo avere visto i CHVRCHES in svariati festival, ma solo in streaming, avevo molti DVBBI sulle loro capacità dal vivo. Restano DVBBI legittimi per chi non ha ancora avuto la FORTVNA di sentirli di persona, ma io me li sono tolti TVTTI. L’album si conferma una miniera di singoli, l’esile voce di Lauren regge senza sbavature e perfino il piccolo momento di gloria di Martin, che prende il microfono col suo marcatissimo accento scozzese in “Under the Tide”, è assai trascinante. Lauren ci dice che siamo tutti pazzi ad avere scelto loro mentre poco più in là stanno suonando i Queens of the Stone Age. Sei molto VMILE, Lauren, la prossima volta va’ pure a guardare Josh Homme, se vuoi: io resto sotto il vostro palco anche se mettete il CD in loop.

chvrches

Gli Arcade Fire sono un’anomalia tra i miei ascolti e sento che dovrebbero piacermi di meno, ma ogni volta che li vedo dal vivo (e questa è la mia terza volta in tre anni), sento che dovrebbero piacermi di più. Sento una voce femminile imperfetta, ma ne subisco il fascino; sento pezzi di sei minuti, ma vorrei ne durassero tre; vedo visual orrendi, ma riesco ad apprezzare le loro scelte estetiche e concettuali. Restiamo sui fatti: sono la band più in linea col marchio del Primavera e lo dimostra la folla sconfinata che ha scelto di vederli (ma c’era anche una gran folla sul palco: almeno 15 musicisti). Ieri sera hanno eseguito, ancora una volta, un concerto ricchissimo e barocco che giustifica e consolida il loro status. Il resto sono problemi miei.

Se i Disclosure al Primavera 2013 erano stati una scommessa (vinta) del Pitchfork stage, quest’anno la loro presenza su uno dei palchi principali era quasi scontata. Negli ultimi 12 mesi, è cambiato tutto per i Lawrence, ma il loro live è sovrapponibile a quello della scorsa edizione. L’assenza di guest star, che l’anno scorso mi convinse delle loro capacità, è diventata ora un grosso problema: mentre a Glastonbury e altri grandi festival erano riusciti ad avere sul palco i vocalist dell’album, qui sono costretti a usare le registrazioni. Non possono certo permettersi di portare in tour Mary J. Blige o Sam Smith (che domenica probabilmente supererà i Coldplay alla vetta della top 10 britannica), ma non possono nemmeno proporre un compromesso così poco soddisfacente tra live e DJ set ora che hanno raggiunto questo livello di importanza. La scenografia, che potrebbe compensare altre mancanze, è più complessa e costosa rispetto all’anno scorso (in alcuni punti, per esempio, i due fratelli vengono ripresi in diretta e le loro immagini sono remixate con effetti un po’ kitsch e didascalici come le fiamme in “When a Fire Starts to Burn”), ma i loro iconici profili stilizzati al neon erano molto più efficaci. Non si farebbe caso a questi dettagli se si avessero ancora le energie per ballare, ma nel frattempo sono le tre di mattina e la stanchezza prevale su tutto (anche sulla curiosità di sentire i Moderat e sulla voglia di aspettare i Metronomy). Ah, alla fine non ha piovuto.

ps14-3

Primavera Sound 2013: giorno 2

primaveraInnanzitutto, sappiate che giovedì al Primavera Sound 2013 si è sfiorata la tragedia. Un membro degli One Direction è stato infatti avvistato nel pubblico del festival, dando credito ai tanti tweet di gente che pensava di avere avuto allucinazioni a forma di Harry Styles. Le fan forse erano a già a dormire o forse per una volta il loro servizio di intelligence ha fallito, ma è un vero miracolo se non siamo stati calpestati da una mandria di directioner urlanti (volendo, avrebbero potuto attaccare il festival pure dal mare!) in cerca del loro idolo. Ieri sera, invece, non è stata avvistata nessuna boyband, nonostante i bookmakers dessero praticamente per certo Nick Carter nel pubblico dei Neurosis.
E ora, i concerti della giornata.
Solange1
SOLANGEÈ da pigri iniziare col solito paragone, ma proprio mentre Beyoncé gira il mondo con l’ennesimo, pirotecnico tour, Solange sale sul Pitchfork stage di Barcellona. Il suo è un altro tipo di regalità: quella che mette al centro le canzoni. Ma è un impero altrettanto rigido: se Solange ti chiede di spegnere fotocamere e cellulari, tu lo fai; se Solange ti chiede di cantare con lei “PAH-PAH-OOH”, tu lo fai; se Solange ti chiede di ballare, tu lo fai – vergognandoti un po’ perché dal palco il suo stilosissimo complesso ti vede.
La sorella di Mazinga si presenta con una giacca verde fosforescente e propone i brani del nuovo repertorio scritto e prodotto con Dev Hynes. Ognuno di questi ha un balletto coordinato e suona più ballabile della versione album, ma la voce è leggera e misurata quanto i beat. L’unica pecca è un repertorio ancora troppo limitato (solo un paio di pezzi del suo passato, riarrangiati, compaiono in scaletta), ma c’è ragione di pensare che quando arriveranno un album e un tour vero e proprio, Solange diventerà la popstar globale che merita di essere. Per ora, la sua esibizione è la più quando-ti-ricapita del cartellone, ma fate in modo che vi capiti presto.
Solange2
Due sono le critiche che si sentono più spesso su James Blake: è noioso ed è freddo. Sulla prima, non ci si può fare molto: è questione di orecchie; sulla freddezza, si può invece discutere, soprattutto dopo aver visto centinaia di persone ondeggiare (o addirittura scatenarsi) sui suoi profondissimi bassi. Dal vivo, James dà molto peso alle sue radici (post)dubstep e gli spazi sono meno rarefatti. In alcuni casi, ha un approccio quasi aggressivo nel rivisitare i suoi stessi pezzi per adattarli al contesto live; JAMESBLAKEin altri, trova il modo di lasciarli quasi intatti, ma valorizzando gli elementi ritmici e lasciando più in ombra le tastiere. Io me lo sono goduto tantissimo senza mai annoiarmi – come potrebbe suggerire questa luna piena con piano.
JBlake
HOWTOÈ appena passata l’1 e mi trasferisco verso il palco di Vice. La vicinanza fisica al logo della testata mi dà l’immediato potere di aggiornarvi sui DOs and DON’Ts della serata. DO: scegliere il palco più vicino al mare; DON’T: scegliere il palco che attrae più folla; DO: ascoltare How To Dress Well; DON’T dare corda a un gruppo che tanto non si scioglie. Tom Krell arriva conscio dell’orario assassino che gli è stato assegnato e scherza: “We’re not called Blur”. Ci sono al massimo duecento persone a vedere il suo semplicissimo set: un violino, due laptop, due microfoni (uno normale e uno con un riverbero infinito, che alterna con particolare effetto nella dialogica “Talking To You”). Emozionato, ma consapevole del miracolo che è la sua voce e di ciò che può fare, Tom decide di testare (per la prima volta, dice) alcune novità sul finale: un inedito scritto a Ibiza che interpreta a suo modo la dance (!) e una cover di “Again” di Janet Jackson. Molto più tender di qualsiasi cosa si sia ascoltato dall’altra parte del Forum (perdonatemela).
Howto
Chi sceglie i The Knife al Primavera ha un lusso: sa già a cosa va incontro e non ha pagato un biglietto per vedere solo loro (io, dopo tre concerti stupendi in sei ore posso già dirmi soddisfatto della giornata). Si parte prevenuti dopo le recensioni del tour lette negli ultimi mesi e sappiamo che non c’è da aspettarsi un concerto rock suonato, uno spettacolo pop patinato o un DJ set. Assistiamo invece a qualcosa di unico che è al contempo un rave, un rituale massonico, una TV sintonizzata sugli anni ’80 e un saggio di danza delle elementari. Da lontano, lo spettacolo è davvero divertente e alla fine di ogni pezzo viene da chiedersi quale idea stupida o geniale (a seconda dei punti di vista) sfrutteranno per il successivo. knife-disclosureMa la vera differenza la fanno i megaschermi perché un’ottima regia riprende quei dettagli che gli spettatori del tour non hanno forse avuto modo di notare. Ancora una volta, dare un giudizio definitivo sui The Knife è impossibile ma, come ho già detto nella recensione dell’album, con loro bisogna stare al gioco.
Sono le 4.30 e mi avvicino con stanchezza e curiosità (ma più stanchezza) al Pitchfork stage per i Disclosure. Mi aspettavo un ordinario DJ set perché (sbagliando) li consideravo solo produttori. Invece, i due fratelli inglesi alternano computer e strumenti. E cantano. Una bella sorpresa che li rende in qualche modo più appetibili: forse la presenza di vocalist nei singoli era più dettata dal marketing che dall’effettivo bisogno di aiuto. “F For You”, per esempio, dimostra come ce la facciano anche senza ospitare le belle voci di Eliza Doolittle o Aluna. Resterei volentieri per sentire in anteprima i pezzi del loro primo album (in uscita a giugno) ma sono le 5 e là fuori c’è pieno di tassisti con cui devo litigare.