Primavera Sound 2018: giorno 3

La terza e ultima giornata del mio percorso “Lilith Fair” dentro il Primavera Sound inizia col concerto-per-darsi-un-tono di questa edizione. Jane Birkin porta al main stage la sua raccolta di classici di Gainsbourg riarrangiati per orchestra sinfonica – una trovata che conferma il Primavera come una splendida eccezione nel panorama dei festival internazionali. Delle non-doti vocali di Birkin è superfluo parlare visto che ha superato i cinquant’anni di carriera, ed è vero quello che diceva lei stessa ieri in conferenza stampa: la bellezza degli arrangiamenti orchestrali di Nobuyuki Nakajima non ha quasi bisogno di una cantante. Il momento, al tramonto e davanti a un pubblico (quasi) silenzioso, è suggestivo e lei lo sottolinea: “Vedere tutta questa gente, sul mare, a Barcellona, con questi musicisti eccezionali, avrebbe commosso [Serge]”.

Se dopo la sua megahit danzereccia aveva pubblicato con un disco tetro e doloroso, col nuovo lavoro (in uscita venerdì) Lykke Li prende ancora una volta una direzione inattesa. Il male di vivere resta, ma l’influenza del chill pop delle classifiche (con addirittura una spruzzata di trap) snatura un po’ lo spirito che la rendeva così speciale. Tant’è vero che i momenti migliori del concerto di oggi restano le tracce di I Never Learn. La cantante svedese si muove inquieta e senza mai sorridere tra drappi con gigantografie dei suoi occhi malinconici che osservano il pubblico. Con titoli come “so sad so sexy” la sua dichiarazione d’intenti è chiara, ma anche “I Follow Rivers” nella versione live perde quel goccio di spensieratezza che la rese un successo. È un concerto che andrebbe visto in un luogo più silenzioso, contenuto e buio.

Lorde quest’anno ha guadagnato una nomination ai Grammy per il premio più prestigioso (Album of the Year), ma è stata l’unica in quella categoria a non avere ricevuto un invito a esibirsi alla cerimonia. Ha reagito twittando: “se non siete sicuri che sono capace di mangiarmi un palco, venite a vedermi di persona”. Il tour in questione è già alla sua terza versione: nella prima, si raccontava la storia di una festa con una teca gigante sul palco piena di ballerini; nella seconda, per i club, Lorde sperimentava con visual e installazioni luminose; nella terza, in corso, lo spettacolo è diventato essenziale. Ci sono ancora coreografie e qualche elemento video, ma le distrazioni sono poche e non servono. La cantautrice è diventata una mega-popstar che ancora non può permettersi gli stadi, ma mangia davvero ogni palco che incontra. I ballerini la fanno volare da un lato all’altro, interagisce col pubblico piazzandosi sotto l’occhio di bue per raccontare della solitudine che ha ispirato “Liability” (l’unica vera ballata in scaletta), abbraccia la folla che non la vuole più mollare. Mostra un po’ d’ingenuità solo quando dice che è contenta di suonare vicino “all’oceano” – e, a proposito di oceano, accenna “Lost” di Frank Ocean alla fine di “The Louvre”. Il gran finale con “Green Light”, in cui chiede a tutti di usare le ultime energie rimaste, è uno dei momenti più euforici ed emozionanti di un live di recente memoria, e quando ci si ricorda che la ragazza a 21 anni è già un’headliner con questo talento, viene da chiedersi di cosa sarà capace in futuro. Gli organizzatori della cerimonia dei Grammy non sanno davvero cosa si perdono.

Si va verso il Pitchfork stage per un’occhiata ad ABRA, giovane artista R&B da Atlanta che si esibisce completamente da sola sulle sue basi registrate (in tutti gli articoli su di lei troverete queste due parole: “bedroom producer“). Nei primi brani, stilosi ma poco incisivi, il contesto sembra fuori misura per una performer forse più abituata ai club. Ma ABRA supera la prova adattandosi in fretta, e il pubblico con lei, partecipando con trasporto. Io, che pensavo di avere usato le ultime energie di cui sopra per Lorde, ne trovo un po’ quando fa partire un campionamento della preistorica (2003) “Never Leave You (Uh Oooh, Uh Oooh)”. Non avrei mai pensato che questo percorso “Lilith Fair” dentro al Primavera sarebbe terminato con Lumidee e non m’impegnerò a trovarci un significato. Di certo posso dire che perdere qualche navigata band maschile non è stata una grande rinuncia, visto che il compenso è stato scoprire qualche nuova artista femminile. E che leggendo le notizie che arrivavano dall’Italia in questi giorni, c’è bisogno come non mai delle energie di spettacoli queer come quello di Fever Ray, rigeneranti come quello di Lorde e utopici come quello di Björk.

Foto Lykke Li, Lorde: Sergio Albert

Primavera Sound 2018: giorno 2

Il primo appuntamento della giornata è una conferenza stampa unica: Jane Birkin e Charlotte Gainsbourg a confronto. Per la prima volta si esibiscono nello stesso festival: domani la madre esegue dal vivo la sua raccolta di classici riarrangiati con orchestra sinfonica; oggi la figlia presenta il suo terzo album di inediti Rest. Ma la prima domanda le spiazza. Un giornalista chiede loro di parlare del movimento #metoo e quale sia il punto di vista sulla questione da due generazioni diverse. Stupisce il loro stupore, perché dopo tanti mesi due professioniste dell’industria cinematografica e musicale, qualunque sia la loro opinione, dovrebbero avere una risposta pronta. Quella che tirano fuori, dopo molto esitare, è cauta. Gainsbourg pensa che sia una buona cosa nonché una rivoluzione, ma come ogni rivoluzione porti con sé dei danni collaterali: dal punto di vista di una francese, l’America ha reagito in modo esagerato e violento, anche se forse è stato necessario, e i processi non andrebbero fatti via social media. Birkin nota che alcune persone, tra cui un loro conoscente, possono perdere la carriera anche nel caso in cui le accuse di molestie siano infondate. Aggiunge che è una cosa che non le è mai capitata: stava con Serge, quindi nessuno ci provava. L’impressione è che la risposta potrebbe finire in territorio Deneuve se solo qualcuno infierisse e chiedesse alla Gainsbourg qualcosa su Lars Von Trier. Il discorso si sposta invece sul concerto della Birkin, che la figlia ha visto più volte, commuovendosi. Secondo Birkin, la musica del compagno, specialmente se eseguita da un’orchestra, quasi non ha bisogno di parole – una sera in cui non aveva voce è andata avanti con lo spettacolo parlando anziché cantando ed è stato altrettanto suggestivo. Lei sognava di fare i musical, pur non avendo le doti canore adatte, e il compagno la dissuase scrivendole un album.

In serata, il palco Pitchfork ospita l’artista olandese-iraniana Sevdaliza e il suo trip hop ruvido e scuro. Nella sua voce convivono Beth Gibbons e radici persiane; nel suo corpo, fasciato da un body/armatura di pelle nero, convivono la danza e il basket (da ragazza giocava nella nazionale olandese). In un altro periodo storico, le major farebbero a gara per accaparrarsela: nelle ballate dimostra già di sapere interpretare il ruolo di diva R&B contemporanea pronta per i palazzetti, ma è nei momenti in cui interagisce con un ballerino sui brani dai beat più potenti che diventa davvero ipnotica. Ringrazia il pubblico perché può ancora andare avanti da artista indipendente: “È il 2018, e se Trump può essere presidente, io posso essere questo”. Questo è la migliore scoperta musicale dell’edizione.

Decido di trasferirmi al Primavera Bits, la parte sulla spiaggia dove si tengono soprattutto DJ set e in cui le persone sobrie sono un miraggio. Quest’anno la trovo ancora più grande e ancora più psicotropa, e c’è anche un palco per concerti dove si esibisce Jorja Smith. Pensavo di trovarla in uno showcase intimo per influencer e invece ci sono un migliaio di persone per un set vero e proprio di un’ora. È chiaro che dietro l’esordiente ventenne inglese ci sia un bell’investimento se può permettersi tutto ciò prima ancora di avere pubblicato un album (esce la settimana prossima). Il modello sembra essere Amy Winehouse, ma lo stile vocale fa pensare a Sia. Tutti i tasselli sono al loro posto, dalle collaborazioni giuste (Drake, Kendrick Lamar, Stormzy) a una presenza live convincente, ma dopo mezz’ora di Jorja si inizia a sentire la mancanza di una hit che le assicuri il futuro che tanti sperano per lei.

Perso nei trasferimenti da un lato all’altro del Parc e altri problemi logistici (non sono nemmeno l’unico: i Migos hanno perso l’aereo e saltato il festival), devo rinunciare a rivedere Charlotte Gainsbourg. Ho provato a essere un vero millennial e cercare i video del concerto per farmi un’idea, ma non sono ancora stati caricati. Anche senza averla vista, posso scommettere che il suo set è stato meno energico di quello delle Haim. Le tre sorelle che han fatto un patto (rassegnatevi, è il mio modo preferito per presentarle) sono al loro terzo Primavera e anche loro ci tengono a sottolinearlo. Da uno slot pomeridiano nel 2014 a un concerto a sorpresa a notte fonda nel 2017 a un posto da quasi-headliner su uno dei palchi principali quest’anno, la loro è una storia di successo lineare. Se già nel 2014 erano grandi entertainer, ora tengono il palco con ancora più naturalezza e finalmente aiutate da un impianto scenico all’altezza. Da polistrumentiste, aprono e chiudono alle percussioni tutte e tre insieme, e nel mezzo ci sono assoli di chitarra senza vergogna, trovate di interazione col pubblico (durante “The Wire” chiedono a tutti di salire sulle spalle di qualcuno e il colpo d’occhio è notevole) e una scia di singoli dai ritornelli martellanti che si possono cantare anche senza conoscere. Ma possono ancora migliorarsi: dovrebbero includere nella scaletta la loro cover di Shania Twain.

Foto Haim: Sergio Albert
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Primavera Sound 2018: giorno 1

Dal ’97 al ’99, la cantautrice canadese Sarah McLachlan ha organizzato il Lilith Fair, un festival itinerante in cui si esibivano solo donne. Era un momento in cui la musica mainstream aveva trovato nuove energie grazie a voci come Alanis Morissette e Lauryn Hill; c’era una domanda nel mercato che McLachlan aveva giustamente deciso di sfruttare non solo come artista ma anche come imprenditrice; c’era la necessità e l’occasione di creare un festival in cui si respirasse un’aria diversa, per un pubblico di ragazze e persone queer (e uomini così evoluti da volere ascoltare musica fatta da donne).
Sono passati vent’anni, quel festival non esiste più (salvo un tentativo di remake nel 2010) e ogni estate ci si chiede come mai le artiste femminili sui cartelloni dei grandi festival siano così poche. Che sia questione di domanda o offerta poco importa: vedere il cartellone di Reading & Leeds (per citare l’esempio più estremo) con solo i nomi femminili evidenziati fa impressione e dimostra che da qualche parte nella catena c’è qualcosa da aggiustare. Ci sta provando la PRS Foundation con Keychange, un’iniziativa volta a raggiungere il 50:50 nelle lineup musicali entro il 2022.
Il Primavera Sound non ha ancora aderito, ma guardando le lineup degli ultimi anni, si capisce che gli organizzatori hanno già cominciato a ragionare in questi termini. Andando spesso oltre lo stereotipo delle band-indie-bianche-da-Pitchfork, hanno proposto nomi come Tori Amos, PJ Harvey, Grace Jones e Solange scrivendoli in caratteri molto più grossi di quelli che di solito spettano loro sul cartellone di un festival britannico o statunitense.
Quindi, nell’anno in cui il Primavera ospita Björk e Fever Ray, ha senso provare un a fare un percorso “Lilith Fair” dentro il Primavera stesso (e lasciare i Migos lì dove stanno). Non bisogna per forza aspettare il 2022.


Il primo concerto dell’edizione è italiano: gli Any Other di Adele Nigro suonano nell’area Pro riservata ai professionisti dell’industria e che presto si riempie di altri spettatori attirati dalla voce della cantautrice. La nuova entrata di 42 Records scrive in un inglese così naturale e schietto da darle credibilità internazionale. Non suona come nessuna artista mainstream in questo momento (volendo, la combinazione di indie rock Anni ’90 e testi molto intimi la riconducono a Courtney Barnett), ma nel suo caso potrebbe essere un vantaggio. E oggi l’abbiamo vista guadagnarsi l’attenzione del pubblico casuale nel mezzo di un grande festival: non è poco.


Lo spettacolo di Björk inizia con una serie di cartelli: è una situazione di emergenza, ci avverte, e per garantire la sopravvivenza della specie ai disastri ecologici dobbiamo unire natura e tecnologia e ricompattarci in una società matriarcale. Lei è già nel futuro che ha immaginato, ci guida al suono dei suoi flauti e ci invita a ripartire da zero. L’utopia di Björk, nata da da un moto di speranza dopo la dolorosa separazione raccontata in Vulnicura, è un’isola rigogliosa, dove i fiori e gli uccelli terrestri convivono con creature ibride, tra la bellezza accidentale delle mutazioni di Annihilation e l’immaginazione infantile di Adventure Time. Il palco è una giungla, le sette flautiste mascherate i suoi fauni, e Björk la matriarca su un trono vulviforme. Tra laser verdi, avatar animati, fiori gonfiabili e bassi profondissimi, è lo spettacolo più massimalista ed esagerato dell’artista dai tempi del Greatest Hits Tour, e raggiunge un nuovo livello di stranezza perfino per i suoi standard. Come sempre nei suoi live, l’aspetto più interessante è scoprire come verranno reinterpretate le hit storiche attraverso i suoni dell’era in corso: la jungle di “Isobel” incontra finalmente la giungla ma resta quasi invariata, e la rispolverata più significativa in “Human Behaviour” e “The Pleasure Is All Mine” è l’uso dei flauti per sostituire, rispettivamente, i synth e i cori. È forse più interessante notare come queste scelte dal vecchio catalogo seguono un fil rouge tematico più che sonoro, e in secondo luogo l’ostinazione con cui l’artista si rifiuta di fare una scaletta “da festival” e propone quasi solo materiale nuovo. È materiale che per giunta resta troppo astratto per le ambizioni di uno show pirotecnico: le strutture irregolari e spinose di Arca non sono del tutto compatibili con certe esigenze teatrali (nei suoi arrangiamenti come individuare un crescendo, un climax o un’esplosione su cui sincronizzare visual e coreografie?). Ma ancora una volta, chi ha la pazienza e la curiosità di seguire Björk ne uscirà ispirato ed emozionato, e ci dispiace per gli altri.


Il concerto successivo inizia solo cinque minuti dopo, ma dal lato opposto del parco. Arrivo quindi in ritardo per sapere se Fever Ray ha chiesto, come fa di solito, che le donne e le persone più basse si sistemino più vicine al palco. Björk non è l’unica ad avere lavorato alla sua utopia: il palco dell’artista svedese è interamente occupato da donne, così come gran parte del suo staff tecnico. Lei, dopo anni di maschere, si presenta con capelli corti ossigenati e trucco scuro e sbavato attorno a occhi e labbra. Il suo show è l’evoluzione, o meglio, la correzione dell’ultimo, contestatissimo, tour dei suoi The Knife: resta il gusto per il sensuale e il morboso, ma cadono tutti gli aspetti meta che lo rendevano una parodia poco comprensibile. Sul palco e nel pubblico ci si diverte allo stesso modo: sul palco ogni componente della band ha il costume di una supereroina inventata (la bodybuilder, la scienzata anarchica, la guerriera ecologista…) e nel pubblico i goth ballano i ritmi tropicali di canzoni iper-politche. Uno degli show più centrati, pensati e divertenti degli ultimi anni.


L’ultimo concerto della serata è quello dei Chvrches, e subito Lauren Mayberry confessa che non si aspettavano di fare il pienone all’una e mezza. Sono passati quattro anni dal loro primo Primavera sul palco Pitchfork, ma l’upgrade al palco principale è stato del tutto meritato. La sicurezza con cui si presentano oggi sembrava impensabile ai loro esordi e dal vivo anche i brani dell’ultimo album (uscito venerdì scorso e accolto senza molto entusiasmo) guadagnano potenza. Si può sottolineare come la loro discografia continui a risultare piuttosto omogenea e nei concerti lo sarà sempre di più (con un catalogo in espansione e molti singoli da suonare, le tracce più oscure e sperimentali non trovano spazio in scaletta), ma per un’ora di synthpop con echi di Depeche Mode e ritornelli da urlare, i Chvrches live sono già una garanzia.


Foto Björk: Ferran Sendra; Fever Ray: Levan TK; Chvrches: Sergio Albert
Rockol

Primavera Sound 2017: giorno 3

L’ultimo giorno di Primavera è un giorno di sorprese. La prima sono gli Swet Shop Boys, che si esibiscono nel luogo dove è più solito fare scoperte musicali: il palco Pitchfork. Il gruppo hip hop è formato da un americano di origini indiane (Heems) e un inglese di origini pachistane (Riz MC, ovvero l’attore Riz Ahmed, ovvero il padre del figlio di Hannah Horvath). Ad accomunarli, c’è la voglia di parlare della rappresentazione dell’Asia meridionale nei media, scherzando sugli stereotipi o distruggendoli. Uno dei momenti più significativi è la parentesi solista di Riz Ahmed in “Sour Times”, brano del 2011 sulla demonizzazione dell’Islam. Si ritrova un po’ di leggerezza quando Heems se la prende con Katy Perry, che avrebbe rubato un suo verso di anni fa (“Swish swish, bish”).

Do un’occhiata a Angel Olsen per constatare se la trovo ancora noiosina (sì) e ai Metronomy per constatare se li trovo ancora convincenti malgrado il frontman (sì) ed è finalmente il turno di Grace Jones. La cantante, più che una sorpresa, è un miracolo della natura. Arriva praticamente nuda, coperta solo da bodypaint e un teschio dorato sul volto. Sul finale di ogni canzone, va dietro le quinte a microfono aperto, continuando a dialogare con pubblico e assistenti, e regalando momenti di vera comicità. Ne esce fuori ogni volta con un accessorio diverso (una bombetta argentata per la sua cover di “Love Is The Drug”; un’ampia gonna nera per “Williams’ Blood”, uno strap-on per “My Jamaican Guy”). Va in processione nel pubblico, fa la lap-dance, esegue l’intera “Slave to the Rhythm” con un hula-hoop che non smette di girare nemmeno quando sale e scende dai piedistalli: è inarrestabile. La ferma solo un gran vento, ed è costretta a tagliare qualche minuto di show. La folla, mai così variegata per genere ed età, urla: “La vie en rose! La vie en rose!” sperando in un bis. Grace Jones ha 69 anni.

Senza nulla togliere agli Arcade Fire, Régine non potrà mai competere con la regina che ho appena visto, e inizio a prepararmi per l’ultima sorpresa del festival: le Haim. Ieri, dopo i live taggati come #UnexpectedPrimavera di Arcade Fire e Mogwai, fantasticavo su una comparsata proprio delle tre sorelle californiane, visto che non avevano concerti in agenda e stanno per pubblicare il loro secondo album. Il desiderio viene esaudito alle 2:55 al palco Ray-Ban, dopo ore di indizi e ipotesi. Aprono e chiudono con due nuovi brani (“Want You Back” e “Right Now”) e ne suonano uno ancora inedito (“A Little of Your Love”). Nel mezzo, c’è un repertorio già ricchissimo per una band con solo un LP alle spalle. E sarà l’atmosfera di un festival che amano molto o il sollievo per avere fatto il pieno di fan anche senza essere apparse in cartellone, ma sembrano tornate ancora più affiatate e forti di prima. E se Danielle ed Este ricoprono i soliti ruoli (la leader saggia; l’eccentrica), Alana, ora 25enne, ha tutta un’altra sicurezza sul palco. Le Haim sono la degna conclusione per un’altra annata di successo (200.000 spettatori e il consueto spinoff di Porto pronto a partire la settimana prossima) in cui gli organizzatori hanno scommesso su headliner usciti dagli Anni Zero e sorprese vere.

Frank Ocean, alla fine non ci sei mancato così tanto.

Primavera Sound 2017: giorno 2

ll mio secondo giorno di Primavera inizia nel pomeriggio con Mitski, e inizia male. Fin dalle prime note del set c’è un problema di volumi al palco Pitchfork e la voce non si sente. E quando si sente, va pure peggio. Dopo qualche tentativo di risolvere il problema, anche la cantante sembra arrendersi, e io con lei. Me vado spazientito senza nemmeno sentire uno dei miei brani preferiti dell’anno scorso, “Your Best American Girl”. Spero che lo sentirò in un’altra occasione, con Mitski più in forma e suoni più curati.

Tutt’altro discorso per Sampha, che ha la fortuna di esibirsi al sempre splendido palco Ray-Ban al tramonto. Inizio a guardarlo seduto dalle gradinate, aspettandomi un concerto rilassato, intimo e attorno a un piano. Sbaglio: Sampha e la sua band fanno subito capire che ci si muoverà parecchio: tutti i brani di Process vengono rinforzati nella parte ritmica e anche “Plastic 100°” si trasforma in un banger molto ballabile. Il pubblico impazzisce (statistiche di setlist.fm alla mano, scopro che non aveva mai suonato in Spagna, e questo forse aggiunge altro entusiasmo all’occasione). Scendo nella folla per i due momenti più significativi: una coinvolgente “Blood on Me” e un’incantevole “(No One Knows Me) Like the Piano”, rovinata purtroppo dal chiacchiericcio. Tutti i grandi artisti (Drake, Kanye, Solange) che hanno fatto a gara ad averlo nei loro album prima ancora che uscisse il suo LP di debutto ci avevano visto giusto. L’hype era giustificato e strameritato.

Nel frattempo si scopre che i Mogwai, che non erano in lineup, stanno facendo un concerto per presentare un nuovo album per intero. Dopo il live a sorpresa degli Arcade Fire ieri pomeriggio (anche quello con materiale inedito), sembra che quest’anno il Primavera punti molto sulle esclusive di questo tipo. Non basta il centinaio di artisti in cartellone: ci vogliono occasioni irripetibili, segrete, pressoché inaccessibili se non si è già nei dintorni, con un cellulare per ricevere le soffiate e un programma flessibile. Quindi, da un lato oggi mi piacerebbe vivere una di queste sorprese (in cima alla mia lista dei desideri: Haim e Phoenix), e dall’altro non saprei dove trovare il tempo senza fare rinunce.

A proposito di rinunce: Frank Ocean. Il cantante ha cancellato all’ultimo minuto la sua apparizione al festival (ci tengo a dire che l’avevo previsto a novembre) citando “ritardi di produzione”. Ieri però si scopre tramite un suo post su Tumblr che gli è morto il cane (RIP Everest), quindi forse ha avuto una ragione vera per non presentarsi. A ogni modo, tra le cose più fotografabili di ieri: la gente nel Parc con magliette a tema (“Frank Ocean is not coming”, faccina triste).

The xx. Sono lontani i tempi in cui il trio inglese sembrava vivere male ogni apparizione pubblica. Ieri sera erano esattamente dove dovevano essere, emozionati ma sicuri e aperti, come le tracce del loro ultimo album. Lo stage design riflette questa nuova era: non più nero su nero, ma specchi roteanti, trasparenze, riflessi e addirittura arcobaleni quando parte “Loud Places”, dal disco di Jamie xx. Oliver indossa una camicia oro e, prima di “Dangerous”, dice di volerla dedicare non alle coppie, che hanno già abbastanza fortuna e sostegno reciproco, ma ai single come lui. La sicurezza, o la maturità, ha anche portato sia a lui che Romy maggiore precisione nel canto: “Say Something Loving” e “On Hold”, all’inizio e alla fine del set, arrivano dritte, col pubblico che le urla a memoria. Ci vorrà un po’ perché si tolgano di dosso l’immagine cupa che loro stessi hanno coltivato fin dall’esordio, ma i fan già sanno quanta luce c’è nei nuovi The xx e ieri sera si sono fatti abbagliare da un concerto perfetto.

Primavera Sound 2017: giorno 1

L’anno scorso, alla chiusura del festival, scrivevo: “dopo i Radiohead non si torna più indietro”. A parlare era un po’ la delusione per non essere riuscito a godermi il loro set a causa di un pubblico distratto, rumoroso e maleducato – il pubblico generico di un grande festival mainstream, insomma. Che non si torni più indietro è tuttora vero (e l’iper-brandizzizazione di ogni angolo del Parc e i dieci minuti di pubblicità sui megaschermi prima dei concerti sono lì a ricordarcelo), ma ieri sera si respirava l’atmosfera di qualche anno fa, almeno sotto il palco dei tre artisti che ho seguito con maggiore attenzione. Davanti a Miguel e Solange si percepiva l’eccitazione di vedere artisti che raramente si esibiscono nell’Europa continentale; davanti a Bon Iver c’era un pubblico emozionato e non una folla di curiosi.

Miguel, a sorpresa, sarà forse il concerto più rock che vedrò in questa edizione. Coi suoi backdrop psichedelici, gli assoli di chitarra e una band ridotta a tre elementi (e tutti in camicie hawaiane), il livello di testosterone è a livelli di guardia. Lui è consapevole della sua carica erotica e flirta spudoratamente cantando di sesso e droghe e sesso attraverso le droghe. Il paragone ovvio è The Weeknd, ma per Miguel si tratta solo di divertirsi: l’alienazione e lo squallore di Tesfaye (che lui spesso confonde con trasgressione) sono lontani. Ed è lontano anche il Miguel pop/R&B delle collaborazioni con Mariah Carey, Janelle Monáe e Dua Lipa: questo è un concerto rock, e ben riuscito.

Si passa al palco Mango, dove un telo bianco con un cerchio sospeso lasciano intendere che il set di Solange avrà un alto potenziale concettuale. E sì, si rivelerà uno spettacolo interamente coreografato e calcolatissimo, ma per fortuna è anche leggero e godibile. Innanzitutto i colori: le nove persone sul palco sono tutte vestite di rosso, così come le luci proiettate sullo sfondo. Questo rende il tutto non fotografabile e forse non è un caso. Nel 2013, quando cantò sul palco Pitchfork davanti a pochi lungimiranti eletti (ciao!), ricordo che Solange chiese, durante “Losing You”, di mettere via i telefoni e godersi il momento: che ora abbia trovato una soluzione più elegante per concentrare la nostra attenzione su di lei anziché sui nostri touchscreen? Di cose ne sono cambiate da quello slot pomeridiano al Primavera di quattro anni fa: ha litigato col musicista che l’aiutò a trovare nuovi suoni (Dev Hynes), buttando forse ore di musica che non sentiremo mai; è diventata suo malgrado famosa per avere picchiato il marito di sua sorella in un ascensore; ha avuto un album al primo posto della Billboard. Sembra avere fatto pace con gli insuccessi della sua prima carriera, tant’è che ne ripropone qualcuno dal vivo e si dilunga in ringraziamenti per i collaboratori che la seguono fin dall’inizio. Lei viene presentata come “creator” dello spettacolo e si assiste davvero alla creazione di un’artista al suo picco creativo, che vuole trasmettere serenità (e riesce a farlo dispensando pillole di saggezza senza banalità, come in “Cranes in the Sky”) e calore (si butta nel pubblico durante l’inno di empowerment “F.U.B.U”, accolta con più sorrisi complici che reazioni scomposte). Resterei fino alla fine, proprio per risentire quella “Losing You” che mi conquistò quattro anni fa, ma è tempo di spostarsi per l’headliner della serata.

A Seat at the Table battè 22, A Million l’ottobre scorso, ma è un album altrettanto importante. Bon Iver lo suona per intero, circondato dai misteriosi simboli della sua copertina. Non era facile tradurre dal vivo un’opera così intima, col suo collage di campionamenti e distorsioni, ma la resa è notevole. Vernon rende l’auto-tune umano nel brano a cappella “715 – CR∑∑KS” e il frammento di Mahalia Jackson in “22 (OVER S∞∞N)” ha tutta l’intensità della versione studio. Si sposta poi in quelle che chiama “country jam”, continuando a commuovere, fino al finale solitario di “Skinny Love”. La regia dei megaschermi non esita a proiettare immagini di maschi bianchi etero che piangono nel pubblico, e che vengono salutati da applausi spontanei. È un concerto purissimo, accolto col trasporto e il rispetto che merita, e che va a completare un trio perfetto di artisti statunitensi visti oggi. Miguel, di origini messicane e africane, che parla di amore universale tra una canzone e l’altra; Solange, che scrive un nuovo capitolo nella musica nera con un album e uno spettacolo serenamente politici; Bon Iver, che invita i presenti a informarsi sulla sua campagna (2 A Billion) per porre fine alla disuguaglianza di genere. Se non fosse così tardi, direi di avere assistito a tre espressioni della resistenza anti-Trump.

Primavera Sound 2016 – giorno 3

 

L’ultimo giorno di Primavera inizia con la conferenza stampa conclusiva e gli organizzatori confermano la sensazione generale: il festival è ancora un successo ed è in crescita costante. 200.000 accessi durante la settimana (eventi paralleli in città inclusi), e il tutto esaurito anche per la sezione PrimaveraPro per i professionisti dell’industria musicale. Quest’anno, grazie ai (o per colpa dei) Radiohead, non si torna più indietro: il Primavera Sound è un festival a tutti gli effetti mainstream che viaggia verso la perfezione (la scelta di artisti è ampia ma non impossibile da gestire; non c’è il fango e non è in un deserto; quest’anno si mangiava pure bene). E a proposito di Radiohead, un giornalista chiede la ragione dei volumi così bassi durante il loro concerto e gli organizzatori rispondono che i tecnici della band hanno agito in totale libertà.

Il primo live del giorno è il più quando-ti-ricapita ma anche il più WTF del festival. La norvegese JENNY HVAL sembra la somma dei The Knife, Maddie Ziegler nei video di Sia e i Monologhi della vagina. Più che un concerto, è una pièce di performance art femminista in cui Jenny fa riflessioni politiche e sociali intervallate da canzoni elettroniche astratte, ma eseguite con un grande talento vocale. Proprio come i The Knife, non si sa bene dove sia il confine tra ironia e serietà, e nel dubbio l’abbandono per recarmi dalla regina indiscussa di questa edizione.

PJ HARVEY sale sul palco suonando il sassofono (Carly Rae Jepsen’s impact) e accompagnata da una band, o meglio, una banda di otto elementi, tra cui l’italiano Enrico Gabrielli. La prima parte della scaletta è interamente dedicata a brani tratti dagli ultimi due album – quelli, per così dire, documentaristici. The Hope Six Demolition Project qualche mese fa aveva sollevato perplessità sui suoi metodi di ricerca e l’accusa di poverty tourism sembrava fondata. Eppure, per quanto possa sembrare sciocco, vedere quei brani interpretati dal vivo mi fa davvero credere che le intenzioni siano sincere e il backlash esagerato. Nei brani in questione, PJ è trasparente, appassionata e diretta, e la resa live è di gran lunga superiore a quella in studio. Sono pressoché marce militari che fanno battere mani e piedi a tempo, e la direttrice d’orchestra trova subito una sintonia col pubblico rara. Mi trovo addirittura a non rimpiangere affatto i vecchi lavori e a rivalutare la discografia recente (un’enorme “The Ministry of Defence” è l’esempio più eclatante, ma anche l’asettica “When Under Ether” trova una nuova veste di grande impatto). Decido che è il mio concerto preferito del Primavera 2016 ancora prima che esegua pezzi degli anni ’90 – e quando questi arrivano, com’era prevedibile, non ce n’è più per nessuno. Ne bastano tre: “50 ft Queenie”, “Down By the Water”, “To Bring You My Love”. Qualcuno urla “YASS QUEEN”. Ci sta.

Gli altri headliner, subito dopo, sono i SIGUR RÓS, che hanno alle spalle quasi vent’anni di carriera di cui dieci senza un’idea nuova o rilevante, ma dal vivo restano una macchina da guerra. Si ripete l’esperienza dei Radiohead: troppi passanti e troppi ascoltatori casuali in vena di chiacchiere e goliardia rovinano l’ascolto (che non deve essere un rituale religioso, per carità, ma cosa avranno mai da raccontarsi tutte ‘ste persone durante quel pugnale di “Vaka”?) Più forti di me nello zittire i chiacchieroni, solo quelli che si sono fatti una canna apposta per ascoltare Jónsi e non se la stanno godendo. La scaletta accontenta anche i nostalgici, ma in due ore non ci si può aspettare di sentire tutti i brani preferiti visto che hanno una durata media di 8 minuti (abbiamo avuto “Glósóli” e “Starálfur”, ma non abbiamo fatto “tjuuuú” su “Svefn-g-englar” né saltato nelle pozzanghere con “Hoppipolla”).

Si ritorna all’Heineken stage per i MODERAT, che per me si rivelano una grande sorpresa dal vivo. La loro caratteristica migliore è la varietà: passano da momenti ambient all’house più ballabile, al quasi-pop di brani come “Bad Kingdom” che il pubblico canta a memoria. Il trio tedesco è nella posizione invidiabile di chi continua a rinnovarsi guadagnando nuovi ascoltatori a ogni passo ma senza mai perdere credibilità, e Apparat, chi l’avrebbe mai detto, sembra proprio a suo agio nel ruolo di frontman e cantante. A completare un set senza difetti, luci e visual tra i migliori visti di recente. Da un lato, è la chiusura perfetta di un festival che si è aperto a nuovi generi mantenendo la propria identità (i Moderat come metafora del Primavera Sound: l’ho fatto); dall’altro, si vorrebbero avere più energie residue per goderne appieno.
Sto infatti per abbandonare quando saluto altri primaveristi ballanti al Pitchfork stage con ROOSEVELT e poi, perché tanto sono solo le quattro, li seguo al palco accanto per ISLAM CHIPSY & EEK. Avrei dovuto chiudere il report coi Moderat come metafora del Primavera Sound perché, per la musica egiziana contaminata dall’elettronica che ho sentito dopo, mi mancano le figure retoriche.

Foto PJ Harvey: Eric Pamies; foto Sigur Rós: Marc Heimendinger

Primavera Sound 2016 – giorno 2

 

Il secondo giorno inizia con NAO, una delle nuove cantanti britanniche più promettenti, e ho la fortuna di vederla dalla prima fila pur arrivando con pochi minuti di anticipo al Pitchfork stage. Elenco di artisti che negli anni ho visto sul Pitchfork stage dalle prime file: Solange, Jessie Ware, FKA twigs, NAO; conclusione: il pubblico del Primavera non sa riconoscere una star. Eppure, nel caso di NAO, è davvero evidente già dalla sua entrata in scena. È sicura, fresca ed energica quanto il suo neo-soul; è una boccata d’aria. Il suo primo album esce il 29 luglio e vorrei restare ad ascoltarne gli inediti, ma l’abbandono perché i prossimi sono i RADIOHEAD e scatta la paranoia di non trovare una postazione decente da cui vederli. E infatti, pur arrivando un’ora e mezza prima, non la trovo. Tutt’a un tratto mi ricordo perché spesso evito i concerti grossi con un pubblico grosso, e mi ricordo anche che l’attaccamento a una band non mi rende per forza simile a chi la guarda vicino a me. Quindi mi trovo circondato da tutti gli stereotipi da evitare ai concerti ma in genere assenti dal Primavera: dagli ubriachi ai chiacchieroni, dagli indossatori di alti cappelli spiritosi agli sbandieratori (ma qui abbiamo una simpatica alternativa ai soliti quattro mori sardi: la bandiera di Aphex Twin). I volumi sono bassi e la delicata “Daydreaming” (seconda in scaletta dopo “Burn the Witch”) non sopravvive al chiacchiericcio; i maxischermi, che in genere seguono i concerti del Primavera con un’ottima regia, sono invece usati per effetti grafici (bruttini) o al massimo per confusi mosaici di riprese dal vivo. Sento e vedo male, ma la scaletta regala molte soddisfazioni. Da settimane, si seguiva il preziosissimo servizio pubblico di @radioheadlive su Twitter in cerca di indizi, ma c’erano poche costanti: dopo un blocco di cinque pezzi dall’ultimo album, è lotteria, visto che in soli nove concerti hanno suonato almeno una volta ben 50 canzoni. Thom Yorke, pur evitando quasi del tutto il contatto col pubblico, stasera è molto generoso di singoli storici: “No Surprises”, “Pyramid Song”, “Karma Police”, “Street Spirit (Fade Out)”, “Paranoid Android”. È una vera scaletta da festival, da greatest hits, da farewell tour (come suggeriscono alcuni), che dà spazio tanto ai Radiohead delle chitarre (“Talk Show Host”) quanto a quelli dell’elettronica di Kid A. Il momento migliore arriva proprio con una “Everything in Its Right Place” che, arrangiata per dare più risalto al beat, sembra accelerare e fondersi alla “Idioteque” che segue. E poi, a sorpresa, dopo un bis che suggerisce come ormai anche “There There” sia un classico (sono passati 13 anni), arriva il regalo che centomila persone possono rivendersi a vita come aneddoto: “Creep”. È il concerto che volevo vedere, peccato non averlo visto davvero.

Si passa quindi all’artista elettronica che ha proprio aperto gli ultimi concerti dei Radiohead: HOLLY HERNDON. È passato un anno da quando la vidi per la prima volta e non è più sola dietro ai suoi laptop, ma è aiutata da un’altra musicista (anche alla voce) e da un artista che si occupa solo della parte visiva. Quest’ultima è essenziale al racconto della Herndon, perché ci fa muovere in una realtà virtuale di oggetti di tutti i giorni fluttuanti, insegne al neon, cavi, avatar, frammenti di social network. E lei comunica attraverso il pubblico con la tastiera, a metà tra chat e presentazione PowerPoint, scrivendo “scusate, siamo dal vivo e potremmo scazzare tutto” o dedicando il set a Chelsea Manning, l’attivista tuttora in carcere per avere leakato documenti confidenziali dell’esercito statunitense. Ma anche senza il cappello concettuale o le trovate di scena, il set è solido e perfino ballabile.

Sono le due ma non ho intenzione di perdermi SHURA, che come la connazionale NAO è sulla lista dell’hype nell’attesa del debutto discografico (esce l’8 luglio). Alexandra viene da Manchester e fa un delizioso pop pieno di riferimenti agli Anni ’80, soprattutto alla Madonna dei primi tempi. La sua risata sguaiata tra un pezzo e l’altro è in netto contrato con la voce esile e timida con cui canta – e la timidezza è il tratto più presente nella sua musica, da “2Shy” all’ultimo singolo “What’s It Gonna Be”. Nel video in questione, tuttavia, trova il coraggio di diventare una popstar, ed è facilissimo farsi conquistare. Lascio le ultime energie rimaste sulla sua “White Light” e sento per pochi minuti gli AVALANCHES remixare, campionare e pasticciare con un’euforia del tutto assente dal loro deludente ritorno. Sono le tre, m’incammino sentendoli suonare “Heard It Through the Grapevine” e leggo che PJ Harvey (in cartellone domani) ha chiuso un concerto altrove con “A Perfect Day Elise”.

Foto Radiohead: Eric Pamies

Primavera Sound 2016 – giorno 1

 

Il mio Primavera inizia mercoledì sera, in città, con una delle tante serate parallele al festival vero e proprio. Al Barts suonano EMPRESS OF e JESSY LANZA, due artiste che hanno in comune l’apprezzamento della critica, una visione interessante di ciò che è il cantautorato femminile contemporaneo e il fatto che io non abbia prestato la dovuta attenzione all’uscita dei loro ultimi album.
Nel caso di Empress Of, mi accorgo di avere fatto un grande errore perché Lorely Rodriguez è pazzesca. Ha canzoni che esplodono oltre le strutture convenzionali, oltre l’R&B o il pop elettronico sfuggendo alle definizioni di genere, per dare spazio a tutti i suoi pensieri sull’essere millennial privilegiati a Brooklyn (ma senza le pretese di Lena Dunham). Dal punto di vista vocale, si lancia in björkismi arditi e disperati, ma spesso non riesce a trattenere il sorriso nel notare che il pubblico conosce – e bene – ogni nota di un album fatto con regole tutte sue.
Nel caso di Jessy Lanza, mi accorgo invece di nutrire per lei molto meno entusiasmo rispetto agli organizzatori del Primavera (che questa settimana l’hanno messa in cartellone con due concerti + un mini-concerto acustico + un dj set: praticamente è il Jessy Lanza Sound Festival). Dove Empress Of eccelle, Jessy Lanza fallisce: il suo pop è altrettanto ibrido, ma risulta indeciso quanto la voce dell’artista e per nulla trascinante.

Il festival vero e proprio inizia giovedì pomeriggio, nella nuova area sulla spiaggia. Faccio mezz’ora di fila sotto il sole cocente per comprare l’acqua per poi scoprire che l’unica cosa liquida che possono vendermi è l’alcol dello sponsor. Segue un’altra mezz’ora in un’altra fila e nel frattempo falliscono tutti i miei piani: vedere TODD TERJE (perché la tenda in cui si tiene il dj set è diventata inaccessibile) e andare a prendere il sole sulla spiaggia vera e propria (che è radioattiva, quindi forse è andata meglio così). Mi dirigo in area stampa per la conferenza dei DAUGHTER, a cui hanno assistito 12 giornalisti (o meglio, 11 più me) (che su 1000 accreditati è un po’ imbarazzante). Un americano chiede di descrivere la band agli alieni ed Elena Tonra risponde: “la musica degli esseri umani che stanno in un angolo alle feste”. Che in effetti è un’ottima definizione per spiegare a un extraterrestre il perché di versi come “despite everything I’m still human” e perché vengano cantati senza levare gli occhi dal suolo. E malgrado le loro atmosfere e i loro testi li rendano l’opposto di una band da festival, i Daughter al tramonto ipnotizzano e commuovono qualche migliaio di esseri umani.

Un’altra band che sulla carta sembrerebbe inadeguata a un festival sono gli AIR. E infatti sono inadeguati. Dal duo francese non ci si aspetta certo animazione da villaggio turistico o doti da animali da palcoscenico, ma il modo meccanico e distaccato con cui eseguono canzoni epocali mi lascia davvero deluso e annoiato. Il pubblico, nel migliore dei casi, ondeggia distratto davanti a un greatest hits privo di idee anche dal punto di vista scenico, e così “Kelly Watch the Stars” non è stellare, “Sexy Boy” non è sexy e “How Does It Make You Feel?” non ci fa sentire niente.
Mi farei dare una svegliata da PEACHES, ma ci vogliono dei biglietti speciali perché suona all’hidden stage, un palco così hidden che – storia vera – non lo trovava manco lei. Ripiego sui TAME IMPALA, che già vidi al Primavera 2013, ma tre anni (e due nomination ai Grammy) dopo, mi trovo ad apprezzare molto di più il loro set, che nei brani di Currents diventa intenso e sensuale come avrei voluto fosse quello degli Air. I visual da salvaschermo di Windows ’95, però, non sono cambiati.

E infine gli LCD SOUNDSYSTEM. C’è un episodio (il migliore, e il più doloroso) della serie americana You’re the Worst, intitolato proprio “LCD Soundsystem”, in cui la protagonista Gretchen conosce il vicino di casa quarantenne-sposato-bianco-etero-con-cane. Le mostra la sua collezione di vinili e le chiede se le piace la band. Lei risponde, con un accenno di stanchezza, “not really”, forse ammettendolo a qualcuno e a se stessa per la prima volta. In quel piccolo scambio, all’apparenza insignificante (ma non lo è, o l’episodio non si chiamerebbe così), c’è forse tutta la differenza tra due generazioni molto vicine e ciò che ha rappresentato per molti James Murphy negli Anni Zero. (Lo spiega bene Emiliano Colasanti nel suo report oggi.) Come Gretchen, non sono mai riuscito a trovare un appiglio in quei brani infiniti, spesso costruiti attorno a un verso ripetuto fino a diventare mantra, o a sentirmi rappresentato dal musicista. E anche dal vivo, pur divertendomi, canticchiando, fotografando la discoball gigante che pende sul palco e apprezzando l’equilibrio della band tra cazzeggio e rigore, non sento quel tipo di trasporto. È bello trovarsi in mezzo a migliaia di persone che lo sentono che e farsi contagiare per un po’. Ma se mi chiedono se mi piacciono gli LCD Soundsystem: “not really”.

Foto: Dani Canto, Eric Pamies

Primavera Sound 2014: giorno 3

PrimaveraLogo
È l’ultimo giorno di festival ed è anche quello col programma più impegnativo perché pieno di sovrapposizioni. Si comincia presto, alle 19, con Teho Teardo e Blixa Bargeld all’Auditori Rockdeluxe: un posto al chiuso, con le sedie, asciutto, civilizzato e senza odore di churros. Il compositore italiano (unico connazionale in cartellone escludendo quelli promossi da Sfera Cubica) e il cantante/attore tedesco portano qui la loro strana collaborazione, aiutati dapprima solo da un violoncello e poi, nella seconda metà, da un giovane ottetto d’archi locale. Ma a rubare la scena (e ad animare un concerto bello ma potenzialmente noioso) è la piccolissima figlia di Bargeld, che invade il palco, abbraccia la gamba del padre, si siede ai suoi piedi e non vuole più andarsene – il tutto con un tempismo così perfetto da far sospettare fosse una scena studiata (non lo era: la madre al lato del palco non sapeva più come trascinarla giù). Teardo e Bargeld eseguono gran parte di Still Smiling e gli highlight sono l’incredibile “Mi scusi” (quella in cui “le gambe mi fanno giacomo giacomo giacomo”) e “Come Up and See Me” (quella in cui elencano tutti i canali della tv italiana da Raiuno a TGcom). Sul finale, trovano il tempo per una cover di Caetano Veloso, una maledizione che mi perseguiterà anche fuori dall’Auditori dove vado a raggiungere altri primaveristi. L’artista brasiliano, dopo anni di corteggiamenti da parte dell’organizzazione, si esibisce finalmente al festival in un’apoteosi di fabiofazismo spinto. È troppo: mi sposto al palco Pitchfork per vedere l’effetto che fa Earl Sweatshirt.

Earl Sweatshirt

…e non mi fa un grande effetto. È un personaggio affascinante e con una storia incredibile, ma se non si ha la pazienza di entrare nella sua narrazione, si trova solo un rapper virtuoso con basi pesanti e rime misogine.

Kendrick

Kendrick Lamar rappresenta l’apertura maggiore al mainstream americano del festival (e forse non era così mainstream quando gli è stato chiesto di parteciparvi) (di certo non aveva ancora collaborato con gli Imagine Dragons ai Grammy, ecco). Il suo successo è però meritatissimo e ce ne accorgiamo dopo pochi secondi e soprattutto nella parte centrale di “Swimming Pools”, quando cambia registro e si trasforma nella voce della sua coscienza. L’artista mi fa inoltre un grandissimo favore: comprimere all’inizio del set la già citata “Swimming Pools”, “Bitch Don’t Kill My Vibe” e “Backseat Freestyle” così posso poi trasferirmi sereno verso altri palchi.

Al palco Pitchfork ritrovo tutti gli amici dispersi a causa di un’assenza di rete che mette tutti in difficoltà, e ci ritrovo anche Dev Hynes. L’artista torna sul luogo delitto: è proprio qui che suonò con Solange nel 2013. Nell’ultimo anno gli è successo di tutto: gli è andata a fuoco la casa, gli è morto il cane e ha litigato con la Knowles minore (compromettendo un album insieme che forse non vedrà mai la luce). La mancanza di Solange si sente tutta e viene compensata con una sosia e la fidanzata Samantha Urbani, più cotonata che intonata. Il concerto alterna canzoni indistinguibili l’una dall’altra e cose ballabilissime a patto che non si voglia competere con chi le sta ballando sul palco. Ma non mi diverto come vorrei perché ho troppa ansia di correre verso l’altra parte del Parc per capire se i Nine Inch Nails, nell’anno del Signore 2014, hanno un senso.

Sono passati 14 (quattordici) anni dall’ultima volta che ho visto i NIN. Era mezza vita fa, era il mio primo festival ed era durante il tour di The Fragile, il loro capolavoro indiscusso nonché un picco che ha reso inutili le loro fatiche successive. Ma, negli anni, Reznor ha anche aggiunto al curriculum altri progetti paralleli (How to destroy angels_ e ovviamente le colonne sonore di Fincher), ravvivando non solo il suo status (più percepito che reale) di pioniere, ma anche quello della band. Se sono al Primavera, vuol dire che i NIN sono ancora vivi – e vantano la fanbase più nutrita del festival, a giudicare dalle magliette del pubblico. La scaletta esce qualche ora prima ed è un sollievo perché ci si può regolare e farsi vivi verso la metà, su “Closer”. Ma “Closer” non arriva nel punto previsto perché la scaletta è sbagliata. PIÙ CLOSER E MENO FILLER, per cortesia. Trent fa infatti un concerto per fan accaniti, recuperando album tracks, singoli che non hanno venduto e pezzi che suonano simili ma inferiori a quelli storici. Sapevo non sarebbe stato un concerto di 100% grandi successi perché si chiamano NIN e non RDS, ma questo è troppo. Lo spettacolo è tecnicamente impeccabile e il palco Sony si conferma l’eccellenza, ma un concerto in cui “Hand That Feeds” è un highlight, non è un concerto da ricordare.

Se non avessi lasciato le ultime energie che avevo su “Head Like a Hole”, il concerto dei Chromeo entrerebbe nella mia top 5. I due sono una macchina da guerra: sono catchy, sono kitsch, sono il modo migliore per chiudere (volendo fare finta che i Cut Copy non esistano perché esistono alle 4 di mattina). Ma l’evento finisce davvero solo quando si appoggia il culo sui sedili della metro (sì, ancora aperta e funzionante a quell’ora) e si finisce a fare il totoPrimavera 2015. Questo è l’effetto che ci fa il festival e che ti fa venire voglia di dare ragione a Bradford Cox.

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Primavera Sound 2014: giorno 2

PrimaveraLogoPartiamo dal bollettino meteo perché è ciò che ai festival decide il nostro destino. Dopo l’acquazzone di mercoledì, il Primavera Sound non è più L’Unico Grande Festival d’Europa Senza Fango, ma oggi dopo la pioggia è arrivato un DOUBLE RAINBOW ALL THE WAY. Vorrei far notare che ce fu uno anche fuori dall’arena di Copenhagen durante lo Eurovision Song Contest. E quali sono le uniche due cose in comune tra Eurovision e Primavera? 1. io; 2. John Grant (suona a Barcellona e aveva collaborato al testo dei pazzi islandesi Pollapönk). John, uniamo le forze e mettiamo su un business: double rainbow all the way su ordinazione.

John Grant

Spesso il male di vivere ho incontrato: era al palco Heineken sotto la pioggia verso le 18.30 con John Grant. Le prime gocce arrivano mentre l’artista americano canta “It Doesn’t Matter to Him” e continuano a scendere fino al diluvio sulla colossale “Glacier”. È la colonna sonora perfetta per la situazione meteorologica e il cantautore stesso si rivolge a un pubblico ridotto ma irriducibile dicendo: “Es mi culpa” (sì, John Grant parla perfettamente spagnolo oltre a un altro centinaio di lingue). Nei pochi pezzi più movimentati (“Pale Green Ghosts”, “Black Belt”), si balla con gli ombrelli in modo ridicolo e impacciato, e malgrado il déjà-vu di mercoledì, nessuno vuole mollare. Perché è John Grant, the greatest motherfucker.

Haim

Le Haim son tre sorelle che han fatto un patto: spaccare tutto. Erano un altro gruppo che avevo conosciuto solo in live streaming (#2014) e con risultati mediocri. E ora sono un altro gruppo che bisognava vedere per credere. Il loro set è spassosissimo, anche grazie alle facce di Este Haim, la vera attrazione sul palco. Come direbbero i giornalisti ad Amici, “sono cresciute molto” e Days Are Gone si conferma un debutto eccezionale soprattutto grazie ai (pochi) pezzi che non sono stati (ancora) estratti come singoli: “My Song 5”, sto parlando di te. Sono quindi imperdonabili i lunghissimi minuti di jam session: perché perdere tempo prezioso quando si ha un album pieno di canzoni così forti? Forse le improvvisazioni sono un espediente per renderle più credibili; forse si divertono così e non gliene frega niente dei giudizi altrui. Del resto sono così rilassate da avere vissuto il festival anche da spettatrici e da avere fatto la fila con me al baracchino vegano.

*Mi fanno notare su Twitter che la jam session è in realtà una cover dei Fleetwood Mac (“Oh Well”). Scusate, mi ero lasciato ingannare da questo e dall’introduzione di Este.

FKA Twigs

FKA Twigs è un altro ottimo investimento del palco curato da Pitchfork. La cantante inglese fa un trip hop scurissimo e contemporaneo (quindi cosciente del passaggio di The Weeknd). Il palco è altrettanto scuro, sempre avvolto dal fumo, e lei non viene mai illuminata in volto. È forse un metodo per nascondersi: quando parla tra un pezzo e l’altro, si rivela una ragazza timida ed emozionata, ma quando riparte la musica si trasforma in una danzatrice del ventre ipnotica quanto i suoi brani. Il primo album (dopo un consigliatissimo EP chiamato EP2) uscirà entro la fine dell’anno.

Dopo una coppia di headliner che non ho gli strumenti per commentare (Pixies, The National), arriva l’ora della musica che si balla. I Darkside, ovvero Nicolas Jaar e il chitarrista Dave Harrington, sono una bomba elettronica, dark e stilossima. Dopo i primi minuti di introduzione, in cui si fa strada dentro me l’idea di un cuscino e un letto, iniziano a fare sul serio, ed è il momento di ballare come se nessuno stesse guardando (il buio sotto il suggestivo palco Ray-Ban funziona benissimo per lo scopo). Ci si sposta poi verso il palco ATP per SBTRKT, già arredato con un gigantesco animale gonfiabile (un incrocio non ben identificato tra un felino e un mustelide, di cui non ho prove fotografiche a causa del buio). Il concerto tarda a iniziare e il pensiero va a mercoledì sera: ormai, quando si vede un artista in difficoltà con problemi tecnici, si parla de la maledición de Sky Ferreira. Ma, una volta partito il set, i problemi di SBTRKT si rivelano più artistici che tecnici: nemmeno lui si è portato i vocalist, e la resa di pezzi come “Wildfire” o “Right Thing to Do” è al di sotto delle aspettative. È il secondo concerto del Primavera in cui la voce di Jessie Ware esce solo da un CD, e questo non va affatto bene. Poco dopo ci sarebbe stato Laurent Garnier, che saluto, ma per me il Primavera Sound giorno 2 finisce qui, alle 4, cercando un taxi che raccolga i miei resti.

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Primavera Sound 2014: giorno 1

PrimaveraLogoCome diceva ieri Stromae, il Primavera Sound è un “discovery festival” e in ogni edizione che si rispetti ci deve essere almeno un artista che si guarda in mancanza di alternative e poi si rivela una bellissima sorpresa. Al PS14, per me, quell’artista è Glasser. È troppo björkiana perché io non possa avere un debole per lei e ha un’attitudine pop che la sua madrina ha dimenticato più o meno dopo il video di “Big Time Sensuality”. Sarebbe oltretutto ingiusto definirla derivativa (l’altro nome a cui viene inevitabilmente associata è Kate Bush) perché il suo pop elettronico, tribale ma sofisticato, è originalissimo. Cameron Mesirow è inoltre una cantante potente che sa tenere il palco in un modo tutto suo, gioioso e ammiccante, e col solo “aiuto” di un socio muto e immobile al laptop. Una bellissima scoperta.

glasser

Sono decisamente meno fotogenici i Majical Cloudz, che arrivano al Pitchfork stage armati di un minimalismo totale. Non ci sono visual, non ci sono giochi di luce: non si può che fissare l’espressione un po’ inquieta di Devon Welsh (la combinazione maglietta bianca + testa rasata + occhio di bue fa sì che lui stesso nelle foto si trasformi in una majical cloud) o le unghie smaltate di nero di Matthew Otto che si muovono sul synth. Dopo 40 minuti di un set intensissimo, viene voglia di abbracciare chiunque parlando di #vibez.

majical cloudz

Alle 22 è il turno di St. Vincent, che nel pomeriggio era stata una delle poche a concedere una conferenza stampa. (Domanda: perché su un centinaio di artisti in cartellone solo quattro fanno la conferenza stampa? Risposta: perché, su 1.400 giornalisti accreditati, a sentire St. Vincent ce n’erano sì e no 15.) (Domanda: Ma alla fine la conferenza stampa di St. Vincent ha fornito incredibili rivelazioni sull’artista o perlomeno sul suo parrucchiere? Risposta: no.) (Domanda: il sottoscritto ha poi avuto il coraggio di alzare la mano e chiedere: “Allora, St. Vincent, come va il casinò?” Risposta: no, egli è un pavido.)
Annie Clark, dicevamo, arriva sul palco Sony e spara subito molte delle cartucce più potenti: “Rattlesnake”, “Digital Witness”, “Cruel”, “Birth in Reverse”. La sua scenografia geometrica è semplicissima, con un piccolo podio che ricorda la copertina dell’ultimo album, ma di grande effetto – soprattutto se vista sui megaschermi dello sponsor. Lei è glaciale, ma riesce a trovare il modo di rendere la sua freddezza una virtù, muovendosi solo a scatti robotici o a piccoli passi da geisha. Non parla col pubblico se non per salutare i suoi freaks, come una Mother Monster poco accogliente e molto severa (su “Digital Witness”, il suo pezzo anti-social media, ci si sente in colpa a smanettare su Instagram per trovare il filtro giusto). Un concerto di un perfezionismo assoluto danneggiato solo da una scaletta che concentra gran parte dei pezzi più forti all’inizio.

st vincent

Dopo avere visto i CHVRCHES in svariati festival, ma solo in streaming, avevo molti DVBBI sulle loro capacità dal vivo. Restano DVBBI legittimi per chi non ha ancora avuto la FORTVNA di sentirli di persona, ma io me li sono tolti TVTTI. L’album si conferma una miniera di singoli, l’esile voce di Lauren regge senza sbavature e perfino il piccolo momento di gloria di Martin, che prende il microfono col suo marcatissimo accento scozzese in “Under the Tide”, è assai trascinante. Lauren ci dice che siamo tutti pazzi ad avere scelto loro mentre poco più in là stanno suonando i Queens of the Stone Age. Sei molto VMILE, Lauren, la prossima volta va’ pure a guardare Josh Homme, se vuoi: io resto sotto il vostro palco anche se mettete il CD in loop.

chvrches

Gli Arcade Fire sono un’anomalia tra i miei ascolti e sento che dovrebbero piacermi di meno, ma ogni volta che li vedo dal vivo (e questa è la mia terza volta in tre anni), sento che dovrebbero piacermi di più. Sento una voce femminile imperfetta, ma ne subisco il fascino; sento pezzi di sei minuti, ma vorrei ne durassero tre; vedo visual orrendi, ma riesco ad apprezzare le loro scelte estetiche e concettuali. Restiamo sui fatti: sono la band più in linea col marchio del Primavera e lo dimostra la folla sconfinata che ha scelto di vederli (ma c’era anche una gran folla sul palco: almeno 15 musicisti). Ieri sera hanno eseguito, ancora una volta, un concerto ricchissimo e barocco che giustifica e consolida il loro status. Il resto sono problemi miei.

Se i Disclosure al Primavera 2013 erano stati una scommessa (vinta) del Pitchfork stage, quest’anno la loro presenza su uno dei palchi principali era quasi scontata. Negli ultimi 12 mesi, è cambiato tutto per i Lawrence, ma il loro live è sovrapponibile a quello della scorsa edizione. L’assenza di guest star, che l’anno scorso mi convinse delle loro capacità, è diventata ora un grosso problema: mentre a Glastonbury e altri grandi festival erano riusciti ad avere sul palco i vocalist dell’album, qui sono costretti a usare le registrazioni. Non possono certo permettersi di portare in tour Mary J. Blige o Sam Smith (che domenica probabilmente supererà i Coldplay alla vetta della top 10 britannica), ma non possono nemmeno proporre un compromesso così poco soddisfacente tra live e DJ set ora che hanno raggiunto questo livello di importanza. La scenografia, che potrebbe compensare altre mancanze, è più complessa e costosa rispetto all’anno scorso (in alcuni punti, per esempio, i due fratelli vengono ripresi in diretta e le loro immagini sono remixate con effetti un po’ kitsch e didascalici come le fiamme in “When a Fire Starts to Burn”), ma i loro iconici profili stilizzati al neon erano molto più efficaci. Non si farebbe caso a questi dettagli se si avessero ancora le energie per ballare, ma nel frattempo sono le tre di mattina e la stanchezza prevale su tutto (anche sulla curiosità di sentire i Moderat e sulla voglia di aspettare i Metronomy). Ah, alla fine non ha piovuto.

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