Alla fine non ha piovuto, ma c’era un vento a trenta gradi sotto zero che a tratti come raffiche di mitra disintegrava i cumuli di barbe. I veterani del Primavera dicono di non aver mai subito un tempo simile e, al terzo giorno, il freddo iniziava un po’ a influire sui piani e di conseguenza sull’umore. Ma non ha piovuto, quindi il dito medio verso i festival inglesi possiamo ancora tenerlo alzato.
Per questione di gusti musicali, il terzo giorno si presenta per me meno ricco dei precedenti, ma mi tolgo comunque delle belle soddisfazioni. La prima è vedere Apparat in teatro.
Su Twitter, qualche tempo fa, l’artista tedesco si lamentava delle lamentele ricevute perché a volte chi va a vederlo dal vivo si aspetta un DJ set e si ritrova i violini. Il suo svantaggio è essere un nome che molti ancora collegano solo all’elettronica che si balla; il suo vantaggio è la versatilità, il saper passare da Modeselektor a Gianna Nannini senza perdere un briciolo di dignità. Al Primavera Sound propone Krieg und Frieden, musica commissionata da un festival tedesco per una rappresentazione di, appunto, Guerra e pace. Addio lulz, stasera ci tocca un po’ di cultura.
Il concerto si tiene nell’Auditori Rockdelux e assistervi significa estraniarsi per un’ora dall’atmosfera festivaliera, sedersi al chiuso e fare le personcine a modo. Lo spettacolo si compone di due parti (40 minuti ininterrotti e poi ancora una quindicina) in cui l’artista, accompagnato da un violino e un violoncello, suona, smanetta e addirittura canta. La sua voce (intonata e sempre adeguata, ma non da cantante professionista) è l’unica, piccola critica che si può muovere a questa pièce. È di grande effetto anche l’aspetto visivo: un gruppo di artisti chiamato Transforma siede in un angolo del palco giocando con diversi materiali (terra, carta, corda…) e il tutto viene ingrandito e ri-proiettato in diretta sullo sfondo.
Accanto a me sedeva un tizio con la maglietta degli Iron Maiden e credo che a un certo punto abbia versato qualche lacrima. Va’ tranquillo, tizio con la maglietta degli Iron Maiden, il tuo segreto è al sicuro con me.
Toh, i Crystal Castles, un gruppo che non vedevo dal loro esordio e che riesce perfino a farmi venire nostalgia di MySpace. Non che siano cambiati molto dal 2008, eh, ma è incredibile come un gruppo nato dalle ceneri dell’electroclash riesca ancora oggi ad avere un pubblico così trasversale da garantire loro l’accesso a festival in cui, musicalmente, non c’entrano molto. Il trucco è sempre lo stesso: Alice lancia urla disperate o sussurra con filtri robotici, e il concerto è una sequenza uniforme di canzoni molto simili tra loro in cui spiccano solo i due singoli storici (“Alice Practice”, “Crimewave”) e “Not in Love” (che senza Robert Smith quasi non ha senso). Eppure, la formula è così collaudata che funziona, soprattutto per chi ha voglia di ballare un’ora sotto il bellissimo palco Ray-Ban – magari pensando a quanto eravamo ingenui ai tempi di MySpace.
L’ultimo concerto (escludendo qualche DJ set per gli insonni più ostinati) spetta ai Hot Chip. Non potrebbe esserci conclusione più azzeccata: il gruppo è forse il nome più pop del cartellone e, in una serata di cupi headliner (Nick Cave, My Bloody Valentine), la loro spensieratezza è molto gradita. Io che li vedo per la prima volta, mi accorgo improvvisamente della quantità di singoloni pazzeschi che hanno tirato fuori negli anni e di come nessuno resti indifferente ai loro ritornelli ossessivi e un po’ cretini (“Do it do it do it do it do it now”, “Over and over and over and over”, “Night and day night and day…”). Non è un concerto indimenticabile e la voce e la presenza scenica di Alexis Taylor non sono sempre all’altezza del numero di persone che devono intrattenere, ma ci si diverte moltissimo e si usano tutte le poche energie rimaste per gli ultimi minuti dell’edizione 2013.
Per il 2014 è stato annunciato (su un megaschermo nell’attesa del concerto di Nick Cave) il primo gruppo headliner: Neutral Milk Hotel. L’indifferenza generale attorno a me al momento della rivelazione lascia forse intendere che gli organizzatori non dovrebbero puntare troppo su un’altra reunion come attrattiva principale. Ma è anche vero che un cartellone come il Primavera, nell’Europa continentale, non ce l’ha nessuno e si può benissimo vivere un bel festival evitando tanti grossi nomi. Non credo ci sia un’altra persona ad aver visto il mio stesso Primavera e la mia stessa combinazione di artisti, e il fatto che i palchi non siano divisi per genere permette di avere accanto un pubblico sempre diverso e tendenzialmente onnivoro. Ci si vede l’anno prossimo. Non vedo l’ora di intasarvi nuovamente il feed con foto della ruota panoramica.
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Primavera Sound 2013: giorno 2
Innanzitutto, sappiate che giovedì al Primavera Sound 2013 si è sfiorata la tragedia. Un membro degli One Direction è stato infatti avvistato nel pubblico del festival, dando credito ai tanti tweet di gente che pensava di avere avuto allucinazioni a forma di Harry Styles. Le fan forse erano a già a dormire o forse per una volta il loro servizio di intelligence ha fallito, ma è un vero miracolo se non siamo stati calpestati da una mandria di directioner urlanti (volendo, avrebbero potuto attaccare il festival pure dal mare!) in cerca del loro idolo. Ieri sera, invece, non è stata avvistata nessuna boyband, nonostante i bookmakers dessero praticamente per certo Nick Carter nel pubblico dei Neurosis.
E ora, i concerti della giornata.
È da pigri iniziare col solito paragone, ma proprio mentre Beyoncé gira il mondo con l’ennesimo, pirotecnico tour, Solange sale sul Pitchfork stage di Barcellona. Il suo è un altro tipo di regalità: quella che mette al centro le canzoni. Ma è un impero altrettanto rigido: se Solange ti chiede di spegnere fotocamere e cellulari, tu lo fai; se Solange ti chiede di cantare con lei “PAH-PAH-OOH”, tu lo fai; se Solange ti chiede di ballare, tu lo fai – vergognandoti un po’ perché dal palco il suo stilosissimo complesso ti vede.
La sorella di Mazinga si presenta con una giacca verde fosforescente e propone i brani del nuovo repertorio scritto e prodotto con Dev Hynes. Ognuno di questi ha un balletto coordinato e suona più ballabile della versione album, ma la voce è leggera e misurata quanto i beat. L’unica pecca è un repertorio ancora troppo limitato (solo un paio di pezzi del suo passato, riarrangiati, compaiono in scaletta), ma c’è ragione di pensare che quando arriveranno un album e un tour vero e proprio, Solange diventerà la popstar globale che merita di essere. Per ora, la sua esibizione è la più quando-ti-ricapita del cartellone, ma fate in modo che vi capiti presto.
Due sono le critiche che si sentono più spesso su James Blake: è noioso ed è freddo. Sulla prima, non ci si può fare molto: è questione di orecchie; sulla freddezza, si può invece discutere, soprattutto dopo aver visto centinaia di persone ondeggiare (o addirittura scatenarsi) sui suoi profondissimi bassi. Dal vivo, James dà molto peso alle sue radici (post)dubstep e gli spazi sono meno rarefatti. In alcuni casi, ha un approccio quasi aggressivo nel rivisitare i suoi stessi pezzi per adattarli al contesto live; in altri, trova il modo di lasciarli quasi intatti, ma valorizzando gli elementi ritmici e lasciando più in ombra le tastiere. Io me lo sono goduto tantissimo senza mai annoiarmi – come potrebbe suggerire questa luna piena con piano.
È appena passata l’1 e mi trasferisco verso il palco di Vice. La vicinanza fisica al logo della testata mi dà l’immediato potere di aggiornarvi sui DOs and DON’Ts della serata. DO: scegliere il palco più vicino al mare; DON’T: scegliere il palco che attrae più folla; DO: ascoltare How To Dress Well; DON’T dare corda a un gruppo che tanto non si scioglie. Tom Krell arriva conscio dell’orario assassino che gli è stato assegnato e scherza: “We’re not called Blur”. Ci sono al massimo duecento persone a vedere il suo semplicissimo set: un violino, due laptop, due microfoni (uno normale e uno con un riverbero infinito, che alterna con particolare effetto nella dialogica “Talking To You”). Emozionato, ma consapevole del miracolo che è la sua voce e di ciò che può fare, Tom decide di testare (per la prima volta, dice) alcune novità sul finale: un inedito scritto a Ibiza che interpreta a suo modo la dance (!) e una cover di “Again” di Janet Jackson. Molto più tender di qualsiasi cosa si sia ascoltato dall’altra parte del Forum (perdonatemela).
Chi sceglie i The Knife al Primavera ha un lusso: sa già a cosa va incontro e non ha pagato un biglietto per vedere solo loro (io, dopo tre concerti stupendi in sei ore posso già dirmi soddisfatto della giornata). Si parte prevenuti dopo le recensioni del tour lette negli ultimi mesi e sappiamo che non c’è da aspettarsi un concerto rock suonato, uno spettacolo pop patinato o un DJ set. Assistiamo invece a qualcosa di unico che è al contempo un rave, un rituale massonico, una TV sintonizzata sugli anni ’80 e un saggio di danza delle elementari. Da lontano, lo spettacolo è davvero divertente e alla fine di ogni pezzo viene da chiedersi quale idea stupida o geniale (a seconda dei punti di vista) sfrutteranno per il successivo. Ma la vera differenza la fanno i megaschermi perché un’ottima regia riprende quei dettagli che gli spettatori del tour non hanno forse avuto modo di notare. Ancora una volta, dare un giudizio definitivo sui The Knife è impossibile ma, come ho già detto nella recensione dell’album, con loro bisogna stare al gioco.
Sono le 4.30 e mi avvicino con stanchezza e curiosità (ma più stanchezza) al Pitchfork stage per i Disclosure. Mi aspettavo un ordinario DJ set perché (sbagliando) li consideravo solo produttori. Invece, i due fratelli inglesi alternano computer e strumenti. E cantano. Una bella sorpresa che li rende in qualche modo più appetibili: forse la presenza di vocalist nei singoli era più dettata dal marketing che dall’effettivo bisogno di aiuto. “F For You”, per esempio, dimostra come ce la facciano anche senza ospitare le belle voci di Eliza Doolittle o Aluna. Resterei volentieri per sentire in anteprima i pezzi del loro primo album (in uscita a giugno) ma sono le 5 e là fuori c’è pieno di tassisti con cui devo litigare.
Primavera Sound 2013: giorno 1
Sono solo le 12 del primo giorno quando è chiaro che il Primavera Sound 2013 ha già un vincitore, almeno nella categoria indie-ironia al festival: il batterista degli argentini Go Neko! suona con una maglietta di American Idol. Il gruppo è il primo di una lunga serie a esibirsi nella terrazza dell’hotel Diagonal Zero per il pubblico del PrimaveraPro, evento parallelo per addetti ai lavori con conferenze sul settore. Da bravo secchione, faccio in tempo a vederne un paio. La migliore s’intitola “Welcome to the music industry: you’re fucked” ed è tenuta da Martin Atkins, musicista (PiL, NIN) diventato accademico non tanto grazie all’originalità dei suoi insegnamenti quanto per la sua bravura nel proporli in formato stand-up comedian. Tant’è vero che dimentico di stare ascoltando banalità sull’importanza dei social e i dischi paga-quanto-vuoi.
Poco dopo, si va a dare un’occhiata alla delegazione italiana: Foxhound, Blue Willa, honeybird & the birdies. Questi ultimi, già visti al Primo maggio, sono quelli che ne escono meglio e con cui ci si diverte di più (non solo a causa dei costumi e la tropicalizzazione improvvisata del palco). Bel colpo, per il Primavera Sound, aver puntato sulle Savages in tempi non sospetti. Fresche di un album nella top 20 britannica, le quattro ragazze arrivano alle 19.30 sul palco di Pitchfork (e dove, se no, dopo quell’8.7?) con grande sicurezza per poi piegarsi a metà set a causa di un problema tecnico che mette fuori uso la chitarra. Il pubblico, fino a quel momento non troppo partecipe, si scongela per incoraggiare le tre rimaste, che si arrangiano come possono sullo stesso giro di basso per più di dieci minuti. Un vero peccato, perché meritano davvero molto dal vivo.
Dopo aver fatto finta che me ne fregasse davvero qualcosa dei Tame Impala oltre a quel carro armato di “Elephant”, mi rimetto a correre lasciandomi dietro il gruppo e i loro visual: “psichedelia anni 70” diranno loro, “salvaschermo Windows 95” dirò io. In realtà, sono molto in anticipo e riesco a posizionarmi in prima fila per Jessie Ware. Il grosso del pubblico arriverà a concerto iniziato e non se ne pentirà. Come avevo già avuto modo di scoprire l’anno scorso guardando qualche festival (in streaming), la Jessie Ware sul palco non ha molto in comune con la Jessie Ware su disco. In Devotion (e nei video di Kate Moross che lo promuovono), la cantautrice è una diva altezzosa, irraggiungibile, che canta in modo controllato e delicato; dal vivo, è calorosa, coinvolgente e dà gran sfoggio della sua potenza vocale. La raffinatezza del disco è stravolta e l’assetto della band che l’accompagna (un tradizionale basso-chitarra-batteria) contribuisce ad adattare i brani al contesto del festival. E la diva al tempo della crisi, forse non potendosi permettere coriste, usa cori registrati che attiva lei stessa dal sequencer. Si diverte, scherza (prima di “110%/If You’re Never Gonna Move” e “Imagine It Was Us”, avverte: “ballate ora perché sono i due unici pezzi movimentati del mio repertorio”) e il pubblico, che la vede arrivare per la prima volta in Spagna, la accoglie cantando i testi a memoria con le dita puntate al cielo. Valeva la pena volare fino a Barcellona anche solo per lei.
Di nuovo Heineken stage per i Postal Service. Se Gibbard e Tamborello non si fossero fermati a un album nel 2003, sarebbero tra gli headliner a un festival nel 2013? Si potrebbe fare un paragone con Arrested Development, serie TV iniziata negli stessi anni che lunedì tornerà con nuovi episodi dopo aver raggiunto lo status di cult anche a causa della sua cancellazione. Ma a differenza di Arrested Development, Give Up non è invecchiato granché bene: come accoglieremmo oggi un album con testi tanto naïf sul surriscaldamento globale e il perfetto allineamento delle lentiggini di due amanti mentre si baciano? Eppure, anche incolpando la dilagante nostalgia, i Postal Service con Jenny Lewis dal vivo ti stampano un sorriso idiota in faccia. Anche il nuovo materiale (la mediocre “Tattered Line of String”) e i brani meno memorabili come “Recycled Air” sono eseguiti e accolti con emozione e trasporto. Per “Such Great Heights”, invece, consultare la voce “incontenibile gioia del trentenne occidentale medio”.
I Phoenix sono un gruppo di cui non ho avevo mai capito l’appeal. E a chi mi diceva “devi vederli dal vivo!”, rispondevo che li avevo già visti: suonarono a un festival italiano dopo (o forse addirittura prima) dei Baustelle dello yé-yé. Però, sono passati quasi dieci anni e ora i Phoenix hanno canzoni che possono buttare giù le arene (la migliore del nuovo disco, “The Real Thing”, sembra avere proprio questo scopo) e le eseguono con una precisione impressionante. Non c’è una sbavatura, è un concerto pop grosso di un gruppo all’apice della fama che può fregarsene del minimalismo e dell’umiltà (però, seriamente, il visual con la cartolina di Versailles potevano evitarselo). Ora, se non avessi a cuore il mestiere degli addetti alla sicurezza, mi sarei messo a urlare “ZOMG LOOK DAFT PUNK ARE HERE”. Ma non voglio causare stampede. I robot non si presentano (e perché mai dovrebbero, poi) e dopo dieci minuti di Four Tet dal lato opposto del parco, mi arrendo. Sono le 3 del mattino.
Primavera Sound 2013
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Tra meno di una settimana inizia la tredicesima edizione del Primavera Sound di Barcellona, un festival che non ha più bisogno di presentazioni: è diventato talmente mainstream che quest’anno ci vado persino io. La ragione principale, non lo nego, era quella di intercettare l’unica data europea di Fiona Apple, che però ci ha ripensato. Poco male: la line-up è tra le più ricche e interessanti dell’estate (il buon Inkiostro consiglia di creare la propria tabella di marcia con Clashfinder) e vagherò tra un palco e l’altro cercando wi-fi come un rabdomante digitale per raccontare il festival.