Infografica: i talent al Festival di Sanremo

Alla 65esima edizione del Festival di Sanremo parteciperanno nove ex concorrenti di talent show (sei nei Big e tre nelle Nuove proposte). È il numero più alto di sempre, quindi vediamo come ci siamo arrivati. Sembra un grafico “Democratici contro Repubblicani” e invece è la storia sanremese dei talenti di Amici e X Factor (con qualche intruso).
*Accanto ai nomi ci sono i piazzamenti in classifica;
F/NF = Finalista/Non finalista; NP = Nuove proposte

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Le prime furono le Lollipop da Popstars nel 2002, seguite da Maria Pia Pizzolla & Superzoo (la cantante aveva partecipato ad Amici, ma per accedere ai Giovani dovette comunque passare le selezioni di un altro talent ideato da Baudo: Destinazione Sanremo). Prima della vittoria di Marco Carta nel 2009, altri due ex concorrenti di Amici andarono all’Ariston nel 2007: Piero Napolano e Pietro Romitelli, insieme come Pquadro.
Per quel che riguarda gli altri talent: Linda veniva da PopstarsAlessandro Casillo da Io canto, Irene Ghiotto e Chanty da Star Academy, Veronica De Simone da The Voice, Il Volo da Ti lascio una canzone. Emma ha anche partecipato alla seconda edizione di Popstars (vincendola), Moreno a MTV Spit e Giovanni Caccamo (quest’anno nelle Nuove proposte) provò a entrare a X Factor 4 col nome di Joe, ma venne eliminato al televoto perdendo l’accesso alla squadra della Maionchi.

 

Il problema degli inediti di X Factor 8

inediti-victoriaGiovedì scorso, Cattelan ha aperto la semifinale di X Factor 8 annunciando che quest’anno gli inediti sono stati scritti dai concorrenti. Ha anche aggiunto che non era quindi più possibile criticare questo aspetto del talent show – come a intendere che finora avevamo solo visto dei cantanti, mentre da adesso in poi, signore e signori, degli artisti veri.

Abbiamo sentito questi sei inediti. Due, a dire il vero, erano già noti perché Lorenzo e Mario li avevano proposti ai provini. I pezzi sono stati ovviamente riarrangiati in modo professionale e resi più radiofonici, ma resta da capire una cosa: se uno tra Lorenzo e Mario dovesse vincere l’edizione, a cosa sarà servito il suo percorso? Non si potrà nemmeno chiamare tale perché il percorso, in teoria, è una serie di tentativi del giudice per trovare la maionchiana collocazione discografica del concorrente (nonché una scusa di Tommassini per divertirsi a cambiare vestiti e acconciature). Se qui era già tutto pronto dall’inizio, se erano cantautori con un prodotto più o meno finito, qual è stata l’utilità di dieci settimane di cover?

E poi c’erano altri quattro inediti di concorrenti che si sono improvvisamente rivelati positivi al virus della cantautoralità. Quindi gli autori (televisivi) hanno dovuto spiegarci questa novità come meglio potevano, costruendoci attorno un po’ di mitologia nel tempo di un RVM. C’è Madh che è “a man in a struggle”, c’è Emma con una storia personale difficile e poi c’è Ilaria, che aveva questa canzone nel cassetto da quando aveva 15 anni. Victoria s’è addirittura premurata di mostrarci il foglio originale col testo. Guardate! L’ha scritta lei! In inglese!

Possiamo crederci o fare i complottisti, ma il punto è un altro: gli inediti potevano essere migliori. Se li hanno scritti i concorrenti, si sente l’inesperienza; se no, avrebbero meritato ghostwriter migliori.

All’X Factor britannico, l’inedito non esiste. C’è la cosiddetta winner’s song, che è una cover abbastanza prevedibile di una grande ballata. È l’unica canzone che va in commercio dopo la finale perché Simon Cowell preferisce un numero uno a cinque o sei singoli sparpagliati nella top 40. La winner’s song non ha nulla a che vedere con la direzione artistica che prenderà il cantante: è un’eccezione studiata per sbancare sul mercato natalizio degli ascoltatori occasionali. Dopo X Factor, il vincitore e i più fortunati finiscono in development e tornano, con calma, sei mesi dopo, trasformati in un prodotto discografico vero. Non è una scienza esatta, ma ha più possibilità di funzionare rispetto a questo strano metodo di X Factor Italia, che non nega un inedito a nessuno e costringe a scrivere e incidere un pezzo in una settimana (e girare un videoclip di fretta e furia quella successiva).

Non si capisce perché X Factor quest’anno abbia deciso di difendersi da critiche inesistenti, sottolineando l’importanza della firma di una canzone. Altri concorrenti, in passato, hanno scritto i loro inediti senza tanta pubblicità (è una cosa che fanno perfino ad Amici da chissà quante edizioni) e non hanno avuto più o meno successo degli interpreti-e-basta. X Factor è un concorso per interpreti: non è una scuola, non è un posto dove si scelgono i cantanti al buio facendo girare una poltrona, non è Must Be the Music, il talent di Sky UK che cercava solo artisti “veri” (e ha chiuso dopo una sola edizione). Se Elisa, Ferro, Pezzali o Ramazzotti non avevano nessun demo da passare, trasformare tutti i concorrenti in cantautori non ha arginato il problema: ci ha solo dato canzoni meno belle. E chi se ne frega di chi le ha scritte.

 

La classifica: top 7 edizioni di X Factor

xfSono passati sei anni da quando la musica ha iniziato a battere sul due al ritmo di Simon Cowell e, sembra incredibile, ma c’è stato un tempo in cui i giudici non erano #cosidipinti e non litigavano con Gasparri. Quindi, alla vigilia di una nuova edizione, riviviamo il PERCORSO della X del nostro cuore con una classifica. I sette X Factor, dal peggiore al migliore.

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The Big Reunion: stiamo meglio adesso

Dato che il business della nostalgia non conosce crisi, il canale britannico ITV ha prodotto una serie chiamata The Big Reunion in cui sei dimenticabili indimenticati gruppi di fine anni ’90 hanno una nuova chance per ravvivare le loro carriere. In Italia, alcune delle band in questione non sono state pervenute (911, Honeyz, Liberty X), altre hanno avuto un piccolo successo (B*Witched, Atomic Kitten) e una ha fatto urlare le tue compagne di classe e qualche migliaio di ragazzine (5ive). Questi ultimi furono assemblati nel settembre ’97 da un giovane Simon Cowell grazie a un annuncio su un giornale. Nel novembre dello stesso anno avevano un singolo nella top ten britannica e un contratto milionario per sei album. Storia simile per le Atomic Kitten che furono spedite in Giappone ancora prima del debutto ufficiale in madrepatria per creare quello che oggi chiamiamo buzz.

Le persone che avevano in mano decisioni del genere in un’industria più che florida non erano necessariamente pazze: è che si potevano puntare milioni su una faccia fresca senza corde vocali costruendo anche il successo a tavolino. Il pubblico aveva meno scelta, meno canali e più attenzione: con le mosse giuste, prima o poi cedeva. Ma nella smania di trovare i nuovi Take That o le nuove Spice Girls, molti sembravano dimenticare i due elementi che avevano fatto la fortuna di questi due gruppi: la novità e le canzoni grossissime.

Quello su cui fa luce questo ottimo docu-reality non è tanto la dubbia efficacia di un modello di business obsoleto, ma gli effetti che può avere assemblare con lo scotch piccoli gruppi di ventenni impreparati e spedirli in cima alle classifiche da un giorno all’altro. È pur sempre una produzione ITV e il montaggio certo aiuta la drammaticità delle storie, ma non c’è un membro dei sei gruppi seguiti dal programma che non abbia avuto un tracollo nervoso o una dipendenza. Addirittura alcune immagini di repertorio rivelano che i cantanti, ospiti degli equivalenti inglesi di Bim bum bam o Unomattina, spesso non stavano facendo gli scemi per divertire i bambini: erano sbronzi. E poi le solite camere di albergo bruciate, risse intestine e storie da rockstar rese più patetiche perché applicate a popstar dalle facce angeliche (che non avevano manco il sacrosanto diritto di usare come scusa lo spleen dell’artista tormentato!) Il pop, in quegli anni, veniva ridotto ai minimi termini perché tanto, il giorno dopo, dai microfoni sarebbe uscita la voce registrata.

Viene naturale fare un confronto coi giorni nostri. Simon Cowell nel 2000 si complimentava con due 5ive per essere finiti una notte in carcere dopo una rissa e aver guadagnato tutte le copertine del paese gratis, potenziando quell’immagine di cattivi ragazzi a cui tanto ambiva. Oggi, quel talent scout è una delle persone più influenti dell’industria discografica, ma non sembra avere altrettanta solidarietà o interesse per i ribelli, gli strafottenti e i maleducati nei suoi programmi. Figuriamoci gli stonati. Non si fa scrupoli a sfruttare casi umani e accetta volentieri di ricoprire il ruolo del cattivo, ma mette subito al suo posto chi osa prendersi troppe libertà con la voce o gli atteggiamenti. I risultati di questa nuova tendenza hanno nomi come Leona Lewis, Olly Murs, One Direction, Kelly Clarkson, Carrie Underwood. Il tratto più comune tra gli artisti di successo usciti da X Factor o American Idol è la scarsa predisposizione allo scandalo. Ci sono eccezioni (in America si giudica Adam Lambert solo perché porta un po’ di eyeliner), ma nel complesso troviamo solo bravi ragazzi/e dall’apparenza seria o quantomeno rispettabile.

Anche in Italia la situazione è simile: Chiara Galiazzo, Marco Mengoni, Nathalie, Francesca Michielin… E qualunque genitore darebbe la mano della figlia a un Bastard Son of Dyoniso. I cantanti di Amici risultano solo più maleducati perché vengono insultati da maleducati per decine di puntate, ma neanche loro sono carne da tabloid – basti guardare la destrezza con cui Emma ha gestito la sua situazione sentimentale o l’abilità con cui tutti gli altri la tengono privata. Le popstar di questa generazione a volte non brillano per personalità, ma sono competenti, professionali e addestrate per la notorietà. Sono spesso vittime di scelte artistiche discutibili, ma perlomeno non dobbiamo leggere di rehab, crisi isteriche e hotel messi a ferro e fuoco.

The Voice, appena arrivato in Italia, porta questo meccanismo all’estremo – sbagliando, perché la voce da sola non serve a niente, e lo sanno anche i produttori, i giudici, i concorrenti e gli spettatori – ma è comunque meglio dei provini a porte chiuse che creavano mostri nei ’90. E se è improbabile che il nuovo Robbie Williams o la nuova Amy Winehouse nasceranno dai talent, sappiamo con certezza che non ci ritroveremo davanti i nuovi 5ive o le nuove Atomic Kitten.

Almeno fino al ritorno delle Lollipop.

X Factor 5: la finale

Sono stato alla finale di X Factor, proprio lì, in studio, a mangiare il buffet di Sky e schivare le telecamere 3D. Poi, la notte stessa, ho fatto una chiacchierata con Emiliano Colasanti (che era a casa sua in modalità rosicamento) e ne è uscito un articolo per GQ.

Due gentiluomini su Gentlemen’s Quarterly che discutono dell’assenza di Tommostrini, della necessità di una svolta dubstep per i Moderni e dell’evoluzione di Morganasia. E quando vi ricapita? Si legge qui.

Ora non ne parlo più, promesso.

Casi umani a X Factor: per me è no

Siamo alla seconda puntata delle selezioni di X Factor 5 e quest’anno i provini si tengono davanti al pubblico in palazzetti dello sport e non in uno studio chiuso. Questa sembra essere la prima di tante piccole correzioni che renderebbero il programma italiano più simile all’originale britannico. E non è necessariamente un bene.

X Factor UK, col passare degli anni, ha perfezionato la formula in maniera infallibile. Il format funziona e non si cambia, ma si può sempre ritoccare il contenuto. Accantonata l’idea di trovare le popstar del futuro (dopo il successo iniziale, quasi tutti i concorrenti vengono in genere licenziati dalle etichette coi flop del secondo album), a X Factor interessano gli ascolti televisivi e le attenzioni della stampa. La musica non si vende più, l’intrattenimento leggero e la storia strappalacrime sì. Ed ecco quindi che i fenomeni da baraccone e i casi umani non solo vengono ammessi alle selezioni, ma hanno anche accesso alla gara. Del resto, di ragazzine che sanno imitare Aretha Franklin ce ne sono a centinaia, mentre di donne di mezza età in minigonna che mettono le cosce in faccia a Gary Barlow in primetime un po’ meno; le prime non fanno audience, le seconde sì.

Non c’è da stupirsi se qualcuno paragona la visione del programma alle gite al manicomio nel XVIII secolo. A voler cercare concorrenti sempre più fuori di testa, infatti, X Factor UK (e Britain’s Got Talent e American Idol) hanno più volte pestato il merdone. L’anno scorso, Shirlena Johnson ha lasciato lo show perché mentalmente instabile; quest’anno, Ceri Rees si è presentata per la quarta volta alle selezioni e le sono stati dedicati sette lunghissimi minuti di screentime fino all’inascoltabile esibizione che l’ha rimandata a casa. Il caso della Rees è stato oggetto di un acceso dibattito perché non solo era la sua quarta partecipazione davanti alle telecamere, ma questa volta era stata perfino invitata dalla redazione al grido di “è la tua grande occasione”. Fortunatamente, davanti all’interminabile umiliazione della gattara 54enne, il pubblico ha detto basta.

È comprensibile che il programma voglia strappare qualche risata, ma nessuno è più così ingenuo da non individuare immediatamente i concorrenti destinati al LOL. Non stiamo parlando di gente come le Yavanna o Nevruz, che possono far sorridere per la loro eccentricità, ma sanno cantare. Se sei strambo e stonatuccio e arrivi davanti ai giudici dopo numerose fasi di selezione, hai abboccato (e abbiamo abboccato anche noi che ti facciamo diventare trending topic, Fiocco di Neve). Se sei stonato a quei livelli e pensi veramente di avere un futuro nella musica, la circonvenzione di incapace è dietro l’angolo.
(E allora la Corrida? Ci vuoi dire che Corrado sfruttava le persone fragili? Un attimo, il sottotitolo della Corrida era “dilettanti allo sbaraglio”: di talento se ne vedeva poco. Era una sagra paesana coi vecchietti che cantavano le canzoni in dialetto e le signore che battevano le pentole e i campanacci nel pubblico. Tra un “Vitti ‘na crozza” suonato con le ascelle dal pensionato e Un Contratto Con La Casa Discografica Più Importante Al Mondo c’è un po’ di differenza.)

Ma se X Factor 5 non sembra ancora aver giocato quella carta, ha già imparato la lezione del format originale sui casi umani. (Facciamo partire Adele come sottofondo.) Le Lallai  “sono sorelle e non si parlano da anni, ma si sono incontrate sul palco di X Factor. Be’, innanzitutto, CHE BELLA COINCIDENZA. E poi, che brutto, non si fa, la famiglia prima di tutto! Ventura e Morgan individuano subito il caso umano e forzano la riconciliazione via duetto: come soliste no, ma in coppia in sì. E nessuno che dica loro: “ma fatevi un po’ i cazzi vostri”. Manca solo il bus di Stranamore guidato da Rossella Brescia vestita da postina per completare il crossover. Venerdì sera, le Lallai si sono quindi presentate come duo e, be’, “l’esibizione è segno di un legame molto forte che dovreste rivedere” (Arisa), “quello che non vi dite da anni, ve lo siete detto con la musica, vi state sfidando con la vocalità!” (Morgan), “anch’io ho una sorella: tutto è risolvibile” (Ventura), “siete troppo brave, fate la pace! ” (delle signore fuori dal palazzetto), “No” (Elio).

Ecco, grazie Elio: NO. Se questa è la piega che gli autori hanno deciso di prendere per questa edizione, si spera siano in tempo per ripensarci. X Factor è uno degli ultimi baluardi di musica in televisione ed è una bella gara da seguire. Il pubblico che attira è diverso da quello di Amici e, se la timeline di Twitter può insegnarci qualcosa, la deriva defilippica non è piaciuta a nessuno. Alla quinta stagione e con una grossa opportunità per cambiare, il programma può scegliere se diventare l’ottimo talent show che a tratti abbiamo già conosciuto o l’ennesima collezione di RVM lacrimogeni. Sapete cosa dovete fare.

Star Academy: per me è no

Ci sono diverse ragioni dietro al successo di X Factor e una di queste è la struttura. È un programma con un format solido, chiaro, che sa mettere in risalto concorrenti e giudici e sa creare la tensione nei momenti giusti.

Ci sono diverse ragioni dietro al fallimento di Operazione Trionfo e una di queste è la struttura. Il suo nuovo reboot Star Academy, per differenziarsi da X Factor, ha accentuato i problemi di un format datato e ormai superato in molti paesi.

Innanzitutto, 16 concorrenti sono troppi. Ce li hanno presentati con brevi profili degni di The Club in cui, giustamente, non sapevano cosa dire. Non è neanche colpa loro: chiunque sembrerebbe ridicolo in una stanza dai colori acidi a spiegare cosa significa per te la musica. Ne escono delle perle incredibili come: “Le canzoni per me sono come le ciliegie, la musica è una ciliegia” (quello che vogliono far passare per eccentrico otaku con l’eye-liner); “Mi piace masterizzare” (quello che vogliono far passare per geek); “Mi piace il mondo gotico” (quella che vogliono far passare per emo). Poi una ha confessato che Biagio Antonacci è il suo cantante preferito ed è scattata la tolleranza zero.
Ad aumentare la confusione, il fatto che – a parte due minorenni sull’orlo del Jessicabrandogate – si tratta solo di ventenni di bell’aspetto. Niente Giops, Yavanna o Farias, che non erano certo le proposte discografiche più allettanti, ma aggiungevano una nota di colore e varietà.

Il secondo problema – grossissimo e probabilmente irreparabile – è la formula dei medley. Ci sono 16 sconosciuti che cantano pochi secondi a testa di troppe canzoni senza averle preparate. Finisce la serata e non si è capito chi è chi, chi ha potenziale, chi ci potrebbe piacere. In compenso, abbiamo sentito una decina di attacchi sbagliati e tanto tanto controcanto. Inoltre, alle esibizioni mancano il kitsch, l’ironia e la locura che – diciamocelo – hanno fatto la fortuna di X Factor. Insomma, MANCA TOMMASSINI.

E infine, chi giudica non ha motivi per salvare questo o quel cantante – una formula perfetta se fossimo in tribunale, ma quando si tratta di spettacolo, funziona meglio aggiungere alla ricetta gli interessi personali dei giudici. Non c’è tensione, non c’è attesa, non c’è dibattito. Un piccolo screzio tra Mietta e Vanoni non sazierà certo la sete di polemiche dello spettatore.

Oltre a questi problemi strutturali, l’esecuzione è stata ancora più disastrosa. Facchinetti dopo cinque anni ha imparato a condurre un talent, ma qui non ha nulla da condurre: una voce fuoricampo potrebbe tranquillamente prendere il suo posto. Il resto del cast non aiuta: Savino non ha spazio per aggiungere qualche commento vagamente divertente, Roy Paci è Roy Paci, la Cuccarini ride in maniera isterica senza motivo cercando una co-conduzione che non può avere. L’unica speranza è Ornella Vanoni, che ha un indiscusso potenziale Maionchi ancora tutto da sfruttare.

Sai che il tuo programma ha un problema quando l’unica ragione per guardarlo è vedere un’anziana un po’ svampita che non sa usare il telecomando del voto e urla: “ho un calo glicemico” e “mi scappa la pipì”.

Tatangelo, torna qui, è tutto perdonato.