The Big Reunion: stiamo meglio adesso

Dato che il business della nostalgia non conosce crisi, il canale britannico ITV ha prodotto una serie chiamata The Big Reunion in cui sei dimenticabili indimenticati gruppi di fine anni ’90 hanno una nuova chance per ravvivare le loro carriere. In Italia, alcune delle band in questione non sono state pervenute (911, Honeyz, Liberty X), altre hanno avuto un piccolo successo (B*Witched, Atomic Kitten) e una ha fatto urlare le tue compagne di classe e qualche migliaio di ragazzine (5ive). Questi ultimi furono assemblati nel settembre ’97 da un giovane Simon Cowell grazie a un annuncio su un giornale. Nel novembre dello stesso anno avevano un singolo nella top ten britannica e un contratto milionario per sei album. Storia simile per le Atomic Kitten che furono spedite in Giappone ancora prima del debutto ufficiale in madrepatria per creare quello che oggi chiamiamo buzz.

Le persone che avevano in mano decisioni del genere in un’industria più che florida non erano necessariamente pazze: è che si potevano puntare milioni su una faccia fresca senza corde vocali costruendo anche il successo a tavolino. Il pubblico aveva meno scelta, meno canali e più attenzione: con le mosse giuste, prima o poi cedeva. Ma nella smania di trovare i nuovi Take That o le nuove Spice Girls, molti sembravano dimenticare i due elementi che avevano fatto la fortuna di questi due gruppi: la novità e le canzoni grossissime.

Quello su cui fa luce questo ottimo docu-reality non è tanto la dubbia efficacia di un modello di business obsoleto, ma gli effetti che può avere assemblare con lo scotch piccoli gruppi di ventenni impreparati e spedirli in cima alle classifiche da un giorno all’altro. È pur sempre una produzione ITV e il montaggio certo aiuta la drammaticità delle storie, ma non c’è un membro dei sei gruppi seguiti dal programma che non abbia avuto un tracollo nervoso o una dipendenza. Addirittura alcune immagini di repertorio rivelano che i cantanti, ospiti degli equivalenti inglesi di Bim bum bam o Unomattina, spesso non stavano facendo gli scemi per divertire i bambini: erano sbronzi. E poi le solite camere di albergo bruciate, risse intestine e storie da rockstar rese più patetiche perché applicate a popstar dalle facce angeliche (che non avevano manco il sacrosanto diritto di usare come scusa lo spleen dell’artista tormentato!) Il pop, in quegli anni, veniva ridotto ai minimi termini perché tanto, il giorno dopo, dai microfoni sarebbe uscita la voce registrata.

Viene naturale fare un confronto coi giorni nostri. Simon Cowell nel 2000 si complimentava con due 5ive per essere finiti una notte in carcere dopo una rissa e aver guadagnato tutte le copertine del paese gratis, potenziando quell’immagine di cattivi ragazzi a cui tanto ambiva. Oggi, quel talent scout è una delle persone più influenti dell’industria discografica, ma non sembra avere altrettanta solidarietà o interesse per i ribelli, gli strafottenti e i maleducati nei suoi programmi. Figuriamoci gli stonati. Non si fa scrupoli a sfruttare casi umani e accetta volentieri di ricoprire il ruolo del cattivo, ma mette subito al suo posto chi osa prendersi troppe libertà con la voce o gli atteggiamenti. I risultati di questa nuova tendenza hanno nomi come Leona Lewis, Olly Murs, One Direction, Kelly Clarkson, Carrie Underwood. Il tratto più comune tra gli artisti di successo usciti da X Factor o American Idol è la scarsa predisposizione allo scandalo. Ci sono eccezioni (in America si giudica Adam Lambert solo perché porta un po’ di eyeliner), ma nel complesso troviamo solo bravi ragazzi/e dall’apparenza seria o quantomeno rispettabile.

Anche in Italia la situazione è simile: Chiara Galiazzo, Marco Mengoni, Nathalie, Francesca Michielin… E qualunque genitore darebbe la mano della figlia a un Bastard Son of Dyoniso. I cantanti di Amici risultano solo più maleducati perché vengono insultati da maleducati per decine di puntate, ma neanche loro sono carne da tabloid – basti guardare la destrezza con cui Emma ha gestito la sua situazione sentimentale o l’abilità con cui tutti gli altri la tengono privata. Le popstar di questa generazione a volte non brillano per personalità, ma sono competenti, professionali e addestrate per la notorietà. Sono spesso vittime di scelte artistiche discutibili, ma perlomeno non dobbiamo leggere di rehab, crisi isteriche e hotel messi a ferro e fuoco.

The Voice, appena arrivato in Italia, porta questo meccanismo all’estremo – sbagliando, perché la voce da sola non serve a niente, e lo sanno anche i produttori, i giudici, i concorrenti e gli spettatori – ma è comunque meglio dei provini a porte chiuse che creavano mostri nei ’90. E se è improbabile che il nuovo Robbie Williams o la nuova Amy Winehouse nasceranno dai talent, sappiamo con certezza che non ci ritroveremo davanti i nuovi 5ive o le nuove Atomic Kitten.

Almeno fino al ritorno delle Lollipop.