In questi giorni di post-sbornia sanremese, Giancarlo Leone si è lanciato in un esperimento su Twitter per sondare gli umori del pubblico. È stato un Festival sfortunato in termini di ascolti, ma al direttore di rete sono venuti dubbi non sulla qualità del programma (che incide molto sugli ascolti) ma sul format e i suoi meccanismi (che non incidono granché sugli ascolti). Ha così chiesto aiuto ai follower, facendoci venire voglia di aprirgli un account su ask.fm, di lucchettarlo in una stanza di Friendfeed o di consigliargli SurveyMonkey e PollDaddy. Ma dato che mi spaventa un Festival basato su mention disordinate dirette al Gianka (e cosa tengo a fare un blog se non per partecipare a questo avvincentissimo crowdsourcing delle opinioni), ho cercato di ragionare e rispondere alle sue domande.

Sono anni che il Festival dura cinque serate e non sono troppe. La serata del giovedì sembra sempre quella un po’ sfigata, quella per gli irriducibili, per i parenti dei cantanti e per quelli che non hanno Sky e non possono guardare Masterchef. Ma è necessaria ai fini della gara. Nel sistema attuale, l’inedito viene eseguito tre volte (quattro per i concorrenti sul podio, cinque per il vincitore), ed è un numero ragionevole. È vero che oggi la canzone può essere riascoltata online il giorno dopo ma, togliendo una serata, si rischia solo di sentire meno musica e concedere meno esposizione ai cantanti (e rendere le altre serate potenzialmente più lunghe: no grazie).

La doppia canzone, dopo le perplessità iniziali, si è rivelata una delle novità migliori apportate dalla gestione Fazio. Perché permette al cantante di portare sul palco non un brano ma un progetto (se volete potete chiamarlo “album”). Perché è il Festival della canzone italiana ma non lo è mai stato davvero: si giudica soprattutto l’artista, e se arriva là con due opzioni, può esprimersi meglio, può scegliere di stupire (almeno al 50%) e noi ci guadagniamo in varietà. Perché il giorno dopo c’è un argomento strettamente musicale di cui parlare: è passata quella lenta o quella veloce, quella seria o quella leggera, quella paracula o quella inattesa? E poi, voi vorreste vivere in un mondo dove Mengoni porta “Bellissimo” perché è firmata dalla Nannini e lascia a casa “L’essenziale”?

È dura sostenere che la gara delle Nuove proposte andrebbe abolita dopo un podio dei Big composto da tre artisti nati all’Ariston, ma è così. Ci sono stati nomi validi negli ultimi anni (Erica Mou, Marco Guazzone, Andrea Nardinocchi), ma sono casi isolati in una folla di zombi di cui peraltro non si è sentito più parlare. Quest’anno la commissione si è lasciata scappare Levante per inserire un’harajuku girl con un pezzo che la sua madrina di The Voice avrebbe bollato come antico negli anni ’70, AreaSanremo ha prodotto due artisti che ti fanno dire: “Ma allora vale tutto”, e di gioventù se n’è vista poca, dato che avevano quasi tutti trent’anni e fischia. Il vincitore Rocco Hunt aveva già infilato un album nella top 10 italiana (quindi vendendo molto più di tanti Campioni in concorso): sarebbe stato così difficile giustificare la sua presenza nella sezione dei grandi? Un’opzione sarebbe scegliere non otto, ma magari solo quattro Giovani già più o meno avviati (perché hanno vinto un talent, perché hanno il sostegno serio di un’etichetta, perché fanno più visualizzazioni su YouTube di Ron) e promuoverli nel girone unico.

Partendo dal presupposto che non esisterà mai, in nessun campo, in nessun universo, un sistema di voto che mette tutti d’accordo, la giuria di qualità è sbagliata. Sta lì solo per correggere il tiro del televoto ed evitare disastri, ma se temete tanto la vittoria dei Modà o di Renga (che peraltro deve vincere tutti gli anni da dieci anni e non vince mai) perché invitate i Modà e Renga? Come fa notare Claudio Buja di Universal su Rockol, se tutti sono in grado di giudicare una canzone pop, perché i voti di un regista o di un’attrice dovrebbero pesare quanto quelli di migliaia di telespettatori?
Dovremmo invece parlare di “giuria di persone (più o meno) famose”. In questo caso sapremmo che a giudicarci sono stati giurati il cui valore è quello di chiunque altro, senza alcuna etichetta che – in presenza di una canzone – li renda più qualificati di un ascensorista o di un odontotecnico.
Le altre opzioni per bilanciare il televoto sono altrettanto opinabili: la giuria demoscopica è un gran casino inaffidabile; il voto social che tanti chiocciolano a Leone è al momento troppo facile da falsare; la sala stampa consegna già il premio della critica e, tra un selfie e l’altro, produce centinaia di pagelle che il pubblico può consultare ovunque per farsi influenzare, se proprio ci tiene.
Forse, e dico forse, un metodo democratico, lucrativo e moderno esiste:

Gianka, ci sono cose più importanti del kamasutra dell’orchestra su un palco minuscolo. Boh, sullo sfondo come negli ultimi due anni va bene.

Anche questa, Gianka, è una domanda un po’ superflua, se permetti. Nei limiti di quello che può essere ascoltabile in prima serata, tutte le sfumature del pop devono essere accolte. Anche se c’è a chi non piace parlare di “quote” (me l’hanno detto i Perturbazione), è giusto che Sanremo contenga le quote indie, le quote dialetto, le quote rap, le quote senior, le quote locura e, sì, anche le quote talent. E dato che gli ex talent, l’ultima volta che ho controllato, emettono suoni aprendo la bocca davanti a un microfono, devono essere ammessi e giudicati in base al prodotto offerto e non alla loro origine.
Le ultime due edizioni sono state un ottimo esercizio di equilibrio (mancava giusto un po’ di locura, ma non si può avere tutto) e qualitativamente il livello era altissimo. Sì, altissimo: guardate il podio, guardate quante buone canzoni c’erano, guardate gli anni di Ventura, Panariello, Bonolis, Clerici e il primo Morandi e fate un confronto. Vogliamo ridere puntando il dito al televisore o vogliamo bella musica?

Ricordo con nostalgia il Festival di Fazio del 1999 per la vagonata di ospiti internazionali eccellenti, e ricordo anche di avere aspettato Alanis Morissette a un orario in cui sarei già dovuto essere a letto da un pezzo per poi ritrovarmela a eseguire il playback impigrito di una canzone sul suicidio. Ma quelli erano gli standard. Oggi gli artisti stranieri suonano dal vivo in Italia molto più di un tempo e, se proprio devono perdere tempo in televisione, il contenitore deve essere all’altezza.
Quest’anno ho assistito alle prove in teatro e ho visto almeno mezz’ora di “tira su il LED, tira giù il LED, no, aspetta, ritira su il LED” per preparare la scenografia di un monologo di Caroli di un minuto e mezzo. È chiaro che l’Ariston nei giorni del Festival non ha né il tempo né le attrezzature per dare a una grande popstar tre minuti di cui non si vergognerebbe riguardando la clip su YouTube il giorno dopo. Ben vengano i superospiti a X Factor, che li può accogliere in un’arena adeguata a un’esibizione di livello internazionale, ma a Sanremo ci dobbiamo abituare ad artisti che sul palco hanno bisogno al massimo di un pianoforte o una chitarra. Quando questi artisti si chiamano Antony, Rufus Wainwright, Damien Rice o Stromae (che comunque ha reso molto meglio il giorno dopo a Che tempo che fa), non ci dobbiamo proprio lamentare. E Katy Perry e gli One Direction li aspetteremo chez Tommassini.

Un’ultima cosa: l’anno prossimo, quando ci ritroveremo con Carlo Conti, Gabriele Cirilli vestito da Wanda Osiris, una gnocca straniera a caso e Luisa Corna in gara, rimpiangeremo TUTTO.

Un’ultimissima cosa sugli ascolti, di cui, non essendo un inserzionista pubblicitario della Dash o della Findus, non potrebbe fregarmi di meno, ma tant’è. Mercoledì 19, mentre noi guardavamo le gemelle Kessler, c’erano i BRIT Awards in diretta su ITV e su YouTube da una delle arene più grandi di Europa. Tra gli ospiti, c’erano Arctic Monkeys, Beyoncé, Bruno Mars, Disclosure, Ellie Goulding, Katy Perry, Lorde e Pharrell. Hanno fatto 4.2 milioni di telespettatori.