Ovvero tutto ciò che è sbagliato in televisione, giornalismo e industria musicale in Italia.

A forza di starcene nelle nostre torri di vinile dove tutti i gruppi fanno rima con buzz, relevant e hype, è facile dimenticare la portata di un fenomeno come Amici, la cui finale è, di fatto, il secondo evento musicale più importante d’Italia nonché il luogo dove si decidono le sorti dell’industria discografica locale e dove si testa chi farà veramente girare l’economia del settore negli anni a venire. Guardare dall’inizio alla fine il programma della De Filippi significa sintonizzarsi – e non lo dico con snobismo, credetemi – su un mondo che dalle nostre iper-nicchie percepiamo in minima parte solo nel corso di una settimana a febbraio, quando l’alunno di turno finisce all’Ariston e si piazza sul podio. Non è un caso se, in svariate ore di programma, le uniche canzoni che conosco sono quelle passate da Sanremo, mentre scopro con stupore che le brevi carriere di Emma & co. sono già costellate di classici contemporanei che un’Arena di Verona strapiena canta a memoria. Ripeto, non è snobismo: è una combinazione di filtri (le mie frequentazioni online e offline, l’orticaria che mi provocano alcune radio, le mie letture musicali) che mi permettono di ignorare le dimensioni di Amici pur avendo la parola “pop” nel titolo del blog. Il primo che fa un paragone con X Factor, muore.
Quest’anno Amici ha sdoppiato la gara: giovani e big. Maria, dopo dieci edizioni, ha capito che la credibilità della sua scuola si misura con la durata dei suoi talenti sugli scaffali. Riproporre le vecchie glorie in una nuova gara è stato essenziale per frenare la naturale caduta verso il dimenticatoio. Eppure, l’ultimo disco di Scanu è uscito a marzo, è stato una settimana in top 10 e dopo neanche un mese è uscito dai primi 50 (ora siede alla 85°); l’album di Carone, nonostante il traino di Sanremo, nonostante costituisca l’ultima opera su cui ha lavorato Dalla, non è mai salito oltre la posizione 28. Si vede che il pubblico non li ha capiti, speriamo almeno nella critica.
La critica si compra. Sono stati ospiti fissi di questa edizione i giornalisti di alcune delle più importanti testate nazionali. E quando qualcuno fa una targhetta col tuo nome sopra e ti piazza dietro una scrivania in prima serata, vuoi mica dire cattiverie. Ecco servita una dozzina di giornalisti scodinzolanti pronti a esaltare le qualità canore (e umane!) degli alunni: mai un’opinione fuori posto, dei vincenzomollichismi da far impallidire Mollica. I più coraggiosi magari esprimono una preferenza, pur sottolineando che anche gli altri sono bravissimi, bravissimi tutti, che emozione, pelle d’oca.
Si tratta pur sempre di giornalisti che non scrivono una recensione vera da chissà quanto: il loro tempo è impiegato a pubblicare comunicati stampa cambiando l’ordine dei paragrafi e intervistare i soliti artisti italiani – sempre gli stessi, con cadenza regolare, da anni, tanto che hanno acquisito una confidenza tale da poterci andare a bere lo spritz. (Durante l’ultima campagna promozionale di Tiziano Ferro, per fare un esempio, le domande di milioni di giornalisti erano del tutto sovrapponibili, e l’unica intervista degna di essere chiamata tale si è letta su Rockit.) (E non se la cavano meglio con gli artisti stranieri, visti certi incidenti diplomatici.) Il risultato è: se di questi tempi si desidera sentire un’opinione fuori dal coro, bisogna rivolgersi a Venegoni e Luzzatto Fegiz. Storia vera. Nel frattempo, gli inservienti defilippini, be’, speriamo siano pagati bene, che quei “Marco Carta, grande artista” si traducano almeno in una cucina nuova o una vacanza tropicale. #rosicone
I tentacoli di Maria mica si fermano qui. Se i talent show sono in genere affiliati con una casa discografica sola, Amici riesce a collocare le sue incubatrici in tutte le major, da anni. Sul finire della serata, tre discografici (uno a testa per EMI, Warner e Universal) sono saliti sul palco a far firmare in diretta i contratti ai primi tre classificati. A meno che Gerardo, Ottavio e Carlo siano le vittime di un pessimo scherzo e abbiano appena messo la firma per l’acquisto di una batteria di pentole, quello a cui abbiamo assistito è un episodio senza precedenti: un pluralismo mai visto, una par condicio forse già in atto negli anni passati, ma mai così esplicita. Roba da mettere la De Filippi alla presidenza dell’ONU, cazzo.
E infine, dopo i monologhi populisti e paraculi di Brignano e l’esibizione di un illusionista che si deve liberare dalle catene in una vasca a testa in giù (citazione non voluta a Il siero della vanità!) arriva l’ultimo duello tra Emma Marrone e Alessandra Amoroso. Identiche, a un occhio poco allenato, le due si contendono l’ambito premio formando l’anello mancante tra Pausini e Nannini: urlano e raschiano, urlano e raschiano e poi piangono. Sono aggressiva! Ma sono fragile! Facciamo che SE SONO AGGRESSIVA FUORI È PERCHÉ SONO FRAGILE DENTRO. Un repertorio di canzoni tutte uguali scritte attingendo solo da frasari d’italiano per principianti, con ritornelli sparati fino ai limiti delle loro corde vocali e arrangiamenti datati, facili, economici.
Vince a sorpresa la Amoroso (come vincerà anche Sanremo 2013), ma chiudono la serata cantando il pezzo festivaliero di Emma in un duetto a bocche spalancate. No, questo no, non è l’inferno, ma come anticamera non è niente male.