Primavera Sound 2016 – giorno 3

 

L’ultimo giorno di Primavera inizia con la conferenza stampa conclusiva e gli organizzatori confermano la sensazione generale: il festival è ancora un successo ed è in crescita costante. 200.000 accessi durante la settimana (eventi paralleli in città inclusi), e il tutto esaurito anche per la sezione PrimaveraPro per i professionisti dell’industria musicale. Quest’anno, grazie ai (o per colpa dei) Radiohead, non si torna più indietro: il Primavera Sound è un festival a tutti gli effetti mainstream che viaggia verso la perfezione (la scelta di artisti è ampia ma non impossibile da gestire; non c’è il fango e non è in un deserto; quest’anno si mangiava pure bene). E a proposito di Radiohead, un giornalista chiede la ragione dei volumi così bassi durante il loro concerto e gli organizzatori rispondono che i tecnici della band hanno agito in totale libertà.

Il primo live del giorno è il più quando-ti-ricapita ma anche il più WTF del festival. La norvegese JENNY HVAL sembra la somma dei The Knife, Maddie Ziegler nei video di Sia e i Monologhi della vagina. Più che un concerto, è una pièce di performance art femminista in cui Jenny fa riflessioni politiche e sociali intervallate da canzoni elettroniche astratte, ma eseguite con un grande talento vocale. Proprio come i The Knife, non si sa bene dove sia il confine tra ironia e serietà, e nel dubbio l’abbandono per recarmi dalla regina indiscussa di questa edizione.

PJ HARVEY sale sul palco suonando il sassofono (Carly Rae Jepsen’s impact) e accompagnata da una band, o meglio, una banda di otto elementi, tra cui l’italiano Enrico Gabrielli. La prima parte della scaletta è interamente dedicata a brani tratti dagli ultimi due album – quelli, per così dire, documentaristici. The Hope Six Demolition Project qualche mese fa aveva sollevato perplessità sui suoi metodi di ricerca e l’accusa di poverty tourism sembrava fondata. Eppure, per quanto possa sembrare sciocco, vedere quei brani interpretati dal vivo mi fa davvero credere che le intenzioni siano sincere e il backlash esagerato. Nei brani in questione, PJ è trasparente, appassionata e diretta, e la resa live è di gran lunga superiore a quella in studio. Sono pressoché marce militari che fanno battere mani e piedi a tempo, e la direttrice d’orchestra trova subito una sintonia col pubblico rara. Mi trovo addirittura a non rimpiangere affatto i vecchi lavori e a rivalutare la discografia recente (un’enorme “The Ministry of Defence” è l’esempio più eclatante, ma anche l’asettica “When Under Ether” trova una nuova veste di grande impatto). Decido che è il mio concerto preferito del Primavera 2016 ancora prima che esegua pezzi degli anni ’90 – e quando questi arrivano, com’era prevedibile, non ce n’è più per nessuno. Ne bastano tre: “50 ft Queenie”, “Down By the Water”, “To Bring You My Love”. Qualcuno urla “YASS QUEEN”. Ci sta.

Gli altri headliner, subito dopo, sono i SIGUR RÓS, che hanno alle spalle quasi vent’anni di carriera di cui dieci senza un’idea nuova o rilevante, ma dal vivo restano una macchina da guerra. Si ripete l’esperienza dei Radiohead: troppi passanti e troppi ascoltatori casuali in vena di chiacchiere e goliardia rovinano l’ascolto (che non deve essere un rituale religioso, per carità, ma cosa avranno mai da raccontarsi tutte ‘ste persone durante quel pugnale di “Vaka”?) Più forti di me nello zittire i chiacchieroni, solo quelli che si sono fatti una canna apposta per ascoltare Jónsi e non se la stanno godendo. La scaletta accontenta anche i nostalgici, ma in due ore non ci si può aspettare di sentire tutti i brani preferiti visto che hanno una durata media di 8 minuti (abbiamo avuto “Glósóli” e “Starálfur”, ma non abbiamo fatto “tjuuuú” su “Svefn-g-englar” né saltato nelle pozzanghere con “Hoppipolla”).

Si ritorna all’Heineken stage per i MODERAT, che per me si rivelano una grande sorpresa dal vivo. La loro caratteristica migliore è la varietà: passano da momenti ambient all’house più ballabile, al quasi-pop di brani come “Bad Kingdom” che il pubblico canta a memoria. Il trio tedesco è nella posizione invidiabile di chi continua a rinnovarsi guadagnando nuovi ascoltatori a ogni passo ma senza mai perdere credibilità, e Apparat, chi l’avrebbe mai detto, sembra proprio a suo agio nel ruolo di frontman e cantante. A completare un set senza difetti, luci e visual tra i migliori visti di recente. Da un lato, è la chiusura perfetta di un festival che si è aperto a nuovi generi mantenendo la propria identità (i Moderat come metafora del Primavera Sound: l’ho fatto); dall’altro, si vorrebbero avere più energie residue per goderne appieno.
Sto infatti per abbandonare quando saluto altri primaveristi ballanti al Pitchfork stage con ROOSEVELT e poi, perché tanto sono solo le quattro, li seguo al palco accanto per ISLAM CHIPSY & EEK. Avrei dovuto chiudere il report coi Moderat come metafora del Primavera Sound perché, per la musica egiziana contaminata dall’elettronica che ho sentito dopo, mi mancano le figure retoriche.

Foto PJ Harvey: Eric Pamies; foto Sigur Rós: Marc Heimendinger

Il suono dell’11 settembre

Per il secondo anniversario dell’11 settembre, MTV Italia e Saatchi & Saatchi crearono una campagna memorabile e riuscitissima fermando la musica per 1 minuto e 11 secondi.

Ovviamente la musica non si fermò con l’11 settembre, per quanto, nei giorni successivi all’attacco, il gigante della radiofonia americana Clear Channel distribuì alle sue 1.200 emittenti una lista di 165 canzoni da non trasmettere. Non è ancora ben chiaro quanto fosse ufficiale questa lista né se costituisse un divieto o solo un consiglio, ma se ne parlò molto. Era un momento in cui chi si occupava d’intrattenimento sentiva la pressione di non poter intrattenere, e in cui ogni altra notizia sembrava frivola e inopportuna. Quella surreale lista di canzoni pop vietate dalle radio diede materiale a chi non scriveva di cronaca, ma voleva/doveva infilare l’11 settembre in un articolo. Un po’ come sto facendo io adesso.

Il memo dei 165 pezzi banditi vale la pena ripassarlo. Includeva testi o titoli in cui si parlava di volo (“Learn to Fly”, Foo Fighters), aeroplani (“Aeroplane”, RHCP), razzi (“Rocket Man”, Elton John), catastrofi e incendi anche se metaforici (“Disco Inferno”, The Trammps) ed eventi sanguinosi del tutto scollegati (“Sunday Bloody Sunday”, U2).

E “Walk Like An Egyptian” delle Bangles.

C’è sempre qualcuno che potrebbe offendersi e chi si offende perché qualcuno ha pensato che qualcun altro sia così stupido da potersi offendere. Con una pressione del genere, gli artisti sono stati molto cauti nei loro omaggi all’11 settembre. Pur trattandosi dell’evento più importante della storia contemporanea, è difficile nominare anche solo una manciata di canzoni sul tema. Escludendo i prevedibili tributi per beneficenza e la retorica di alcuni esempi di country patriottico, sono relativamente in pochi a averne scritto in maniera esplicita. Nessuno vuole essere accusato di sfruttare una tragedia per vendere compact disc.

Tra i rari esempi degni di nota figurano: la struggente ma piuttosto astratta “Harbour” di Moby con Sinéad O’Connor; “Hunting for Witches” dei Bloc Party (sebbene sia arrivata nel 2007 e parli soprattutto degli attachi di Londra e l’atteggiamento dei media); la ritardataria lettera aperta dei Beastie Boys; l’inevitabile omaggio springsteeniano di “The Rising”; “911”, violenta e confusa reazione a caldo registrata il 12 settembre 2001 da Gorillaz e D12.

Decisamente più complesse le riflessioni sull’identità americana in due album agli antipodi: Scarlet’s Walk (2002), l’estenuante viaggio di Tori Amos alla scoperta delle radici del Paese, e American Life (2003), l’album più politico e sottovalutato di Madonna che, abbandonata ogni speranza di poter dire qualcosa di serio senza essere criticata, dovette poi risollevare la promozione del disco con due baci saffici.

E infine, lo strano caso di uno sconosciuto chiamato Ryan Adams, il cui singolo d’esordio diventò uno degli inni per eccellenza in maniera del tutto involontaria. Il video di “New York, New York”, uscito con strano tempismo il giorno degli attacchi, era da intendersi come un omaggio a Friends, riprendendo la skyline della città come nella sigla della serie. I discografici decisero di non ritirarlo e diventò la canzone perfetta per tutti i canali che non sapevano più cosa programmare.

Esattamente dieci anni fa, una cantante inglese bloccata a Washington riceveva una telefonata. Mentre guardava il Pentagono in fiamme dalla finestra di una camera d’albergo, le annunciarono che aveva vinto il premio musicale più prestigioso del Regno Unito per un suo album, Stories from the City, Stories from the Sea. Martedì scorso, quel premio, PJ Harvey l’ha vinto per la seconda volta con Let England Shake, un album di guerra nato in parte dalle testimonianze dei soldati in Iraq e Afghanistan – chiudendo un ciclo. Si può sospettare che, oltre agli indiscussi meriti musicali e il valore politico dell’opera, il Mercury Prize le sia stato nuovamente assegnato per creare una notizia. È una bella storia, in effetti, e se il premio fosse andato ad Adele o Tinie Tempah, non ci sarebbe stata una scusa altrettanto buona per scriverne. Un po’ come sto facendo io adesso.

Il ritratto di New York di Stories from the City, Stories from the Sea è ai limiti della chiaroveggenza. PJ cattura la tensione impalpabile di una città sull’orlo del cambiamento, in cui non ci si può sentire al sicuro; proietta la violenza repressa, la vulnerabilità e la freddezza delle sue relazioni sui grattacieli di Manhattan; vaga incerta tra Chinatown e Little Italy mentre sfrecciano gli elicotteri. È una dichiarazione d’amore scritta in tempi non sospetti che inquadra il futuro della città senza saperlo.

È l’album migliore e più significativo sull’11 settembre, ed è stato inciso un anno prima dell’11 settembre.