Primavera Sound 2018: giorno 3

La terza e ultima giornata del mio percorso “Lilith Fair” dentro il Primavera Sound inizia col concerto-per-darsi-un-tono di questa edizione. Jane Birkin porta al main stage la sua raccolta di classici di Gainsbourg riarrangiati per orchestra sinfonica – una trovata che conferma il Primavera come una splendida eccezione nel panorama dei festival internazionali. Delle non-doti vocali di Birkin è superfluo parlare visto che ha superato i cinquant’anni di carriera, ed è vero quello che diceva lei stessa ieri in conferenza stampa: la bellezza degli arrangiamenti orchestrali di Nobuyuki Nakajima non ha quasi bisogno di una cantante. Il momento, al tramonto e davanti a un pubblico (quasi) silenzioso, è suggestivo e lei lo sottolinea: “Vedere tutta questa gente, sul mare, a Barcellona, con questi musicisti eccezionali, avrebbe commosso [Serge]”.

Se dopo la sua megahit danzereccia aveva pubblicato con un disco tetro e doloroso, col nuovo lavoro (in uscita venerdì) Lykke Li prende ancora una volta una direzione inattesa. Il male di vivere resta, ma l’influenza del chill pop delle classifiche (con addirittura una spruzzata di trap) snatura un po’ lo spirito che la rendeva così speciale. Tant’è vero che i momenti migliori del concerto di oggi restano le tracce di I Never Learn. La cantante svedese si muove inquieta e senza mai sorridere tra drappi con gigantografie dei suoi occhi malinconici che osservano il pubblico. Con titoli come “so sad so sexy” la sua dichiarazione d’intenti è chiara, ma anche “I Follow Rivers” nella versione live perde quel goccio di spensieratezza che la rese un successo. È un concerto che andrebbe visto in un luogo più silenzioso, contenuto e buio.

Lorde quest’anno ha guadagnato una nomination ai Grammy per il premio più prestigioso (Album of the Year), ma è stata l’unica in quella categoria a non avere ricevuto un invito a esibirsi alla cerimonia. Ha reagito twittando: “se non siete sicuri che sono capace di mangiarmi un palco, venite a vedermi di persona”. Il tour in questione è già alla sua terza versione: nella prima, si raccontava la storia di una festa con una teca gigante sul palco piena di ballerini; nella seconda, per i club, Lorde sperimentava con visual e installazioni luminose; nella terza, in corso, lo spettacolo è diventato essenziale. Ci sono ancora coreografie e qualche elemento video, ma le distrazioni sono poche e non servono. La cantautrice è diventata una mega-popstar che ancora non può permettersi gli stadi, ma mangia davvero ogni palco che incontra. I ballerini la fanno volare da un lato all’altro, interagisce col pubblico piazzandosi sotto l’occhio di bue per raccontare della solitudine che ha ispirato “Liability” (l’unica vera ballata in scaletta), abbraccia la folla che non la vuole più mollare. Mostra un po’ d’ingenuità solo quando dice che è contenta di suonare vicino “all’oceano” – e, a proposito di oceano, accenna “Lost” di Frank Ocean alla fine di “The Louvre”. Il gran finale con “Green Light”, in cui chiede a tutti di usare le ultime energie rimaste, è uno dei momenti più euforici ed emozionanti di un live di recente memoria, e quando ci si ricorda che la ragazza a 21 anni è già un’headliner con questo talento, viene da chiedersi di cosa sarà capace in futuro. Gli organizzatori della cerimonia dei Grammy non sanno davvero cosa si perdono.

Si va verso il Pitchfork stage per un’occhiata ad ABRA, giovane artista R&B da Atlanta che si esibisce completamente da sola sulle sue basi registrate (in tutti gli articoli su di lei troverete queste due parole: “bedroom producer“). Nei primi brani, stilosi ma poco incisivi, il contesto sembra fuori misura per una performer forse più abituata ai club. Ma ABRA supera la prova adattandosi in fretta, e il pubblico con lei, partecipando con trasporto. Io, che pensavo di avere usato le ultime energie di cui sopra per Lorde, ne trovo un po’ quando fa partire un campionamento della preistorica (2003) “Never Leave You (Uh Oooh, Uh Oooh)”. Non avrei mai pensato che questo percorso “Lilith Fair” dentro al Primavera sarebbe terminato con Lumidee e non m’impegnerò a trovarci un significato. Di certo posso dire che perdere qualche navigata band maschile non è stata una grande rinuncia, visto che il compenso è stato scoprire qualche nuova artista femminile. E che leggendo le notizie che arrivavano dall’Italia in questi giorni, c’è bisogno come non mai delle energie di spettacoli queer come quello di Fever Ray, rigeneranti come quello di Lorde e utopici come quello di Björk.

Foto Lykke Li, Lorde: Sergio Albert

Torna la compila di Pop Topoi: la calda estate scandinava

L’anno scorso ho scritto una specie di epitaffio al Festivalbar e le sue compilation. Ispirandomi alla tradizione delle raccolte blu e rossa, vi ho fornito la compila viola. Due canzoni su 14 sono poi diventate successoni globali (“Video Games”, “Somebody That I Used To Know”), mentre un’altra si sta imponendo solo ora in mezza Europa grazie a uno spot (“Too Close” di Alex Clare). Non male, no? Quindi, anche quest’estate, voglio esercitare l’immenso potere dei miei nastroni per promuovere alcune buone cause musicali.

Ricordate il 1997? Due parole: Il ciclone. Il successo del film natalizio di Pieraccioni trascinò i suoi piripi, le sue estrade e i suoi talismani fino all’estate successiva, tanto che il Festivalbar fece la compilation latina. Dato che da queste parti quella musica è NO, perché non celebrare invece quelle nazioni che ci forniscono tanto pop di qualità e mobili a prezzi stracciati? Ne La calda estate scandinava, presento 14 artisti nordici che non sempre varcano i loro glaciali confini. Mentirei dicendo che ci troverete spensierate canzoni estive (del resto “Vengono da tristezze artiche / Nei locali cercano forme di ye-yé”), ma spero vi piaceranno. In basso, qualche parola sulle scelte.

Lykke Li, “Come Near”

Iniziamo subito con un nome famoso così non spaventiamo nessuno. Lykke non ha certo bisogno di presentazioni e, se ancora non la conoscete, fuori di qui. E mentre uscite, andatevi a comprare Wounded Rhymes. “Come Near” è arrivata col Record Store Day 2012, quindi l’iniziativa a qualcosa è servita.

Amanda Mair, “House”

Quando sento Amanda Mair, penso che ogni nazione ha la Franceschina Michielin che si merita. Le due sono praticamente coetanee, solo che alla Michielin toccano gli scarti di Elisa, mentre Amanda ha appena pubblicato un primo album originale e raffinato.

Saint Lou Lou, “Maybe You”

Di loro si sa solo che sono gemelle, sono svedesi e hanno fatto questa foto promozionale un po’ scosciata. “Maybe You” è sparita da Soundcloud alla velocità della luce, quindi non si capisce bene cosa stia succedendo. Fatto sta che è una delle canzoni più tristi e squisite che si siano sentite negli ultimi tempi.

Choir of Young Believers, “Hollow Talk”

I Choir of Young Believers si sono imposti apparendo nella sigla della serie poliziesca svedese-danese Bron/Broen. Se l’avete vista, non potete non associare questa canzone a cadaveri squartati e crimini efferati. Il loro album del 2012 è piuttosto anonimo, ma che ci frega, teniamoci questa meraviglia datata 2009.

jj, “Beautiful Life”

Questa è per gli amici indie. Ciao amici indie. Visto, vi ho messo la coppietta che fa le canzoni dilatate con un sacco di riverbero.

Wolf Box, “Mirror Wisdom”

Wolf Box è il bellissimo nome d’arte che Isabel Guzman ha scelto per promuovere il suo etereo dream pop. In “Mirror Wisdom” dice di voler correre come una tigre e ballare come una go-go girl. Se non è saggezza questa…

Faye, “Water Against The Rocks”

Fanny (Faye) Hamlin iniziò a cantare in una girlband svedese chiamata Play quando aveva appena 12 anni. Dopo qualche tour con Destiny’s Child e ‘N Sync, a 15 anni lasciò il gruppo e si dedicò alla scuola. E qui c’è già abbastanza materiale per una biografia niente male. Quest’anno è tornata con un’etichetta indipendente e una ballata elettronica intensa in cui, a un certo punto, l’acqua s’infrange sugli scogli – letteralmente.

Kate Havnevik, “Disobey”

Dopo poche sillabe, penserete subito: “ma questa è Imogen Heap”. Sì, sembrano praticamente la stessa artista. Come se non bastasse, anche la Havnevik è prodotta da Guy Sigsworth, quindi l’effetto Frou Frou è garantito. Tuttavia, dato che non è che ci sia questa abbondanza di copie di Imogen Heap, il suo ultimo album YOU si ascolta con grande piacere.

Zhala, “Slippin Around”

Ok, questa canzone inizia con un minuto di urla di Tarzan, ma se avete la pazienza di continuare ad ascoltare, troverete la Santigold scandinava.

Niki & The Dove, “Gentle Roar”

Per quanto tempo abbiamo aspettato il primo album dei Niki & The Dove? Non poi così tanto, ma gli anni di hype sono come gli anni dei cani. Instinct non ha deluso, questa è la mia preferita.

Soso, “Who’s Gonna Love Me”

Sul suo Soundcloud si legge: “la faccia di Monica Bellucci, la voce di Robyn e il cuore spezzato di Adele”. Io ci andrei un po’ più piano, ma Sophia Somajo ha di certo un gran potenziale e ballate synthpop particolarissime. Tipo che qua e là sembra di sentire una Sugababe cantare su una base dei NIN. Il suo album si scarica gratis qui.

Beatrice Eli, “The Conqueror”

Beatrice, svedese trapiantata a Londra est, è entrata nelle grazie di un po’ di DJ influenti come Annie Mac di BBC Radio. E tutto questo con un unico, eccezionale singolo che vi farà dire “Charli XCX?”

iamamiwhoami, “In Due Order”

Quando parlo del progetto multimediale di Jonna Lee, mi si illuminano gli occhi e anche le orecchie. L’ho già lodata ampiamente scrivendo della cronologia del fenomeno su Grazia e la mia opera di evangelizzazione continua in attesa dell’album.

Icona Pop, “I Love It”

Bella mossa mettere l’unico pezzo allegro in fondo, quando ormai se ne sono già andati tutti. Caroline e Aino si sono fatte notare aprendo i concerti di Marina, sono apparse sulla compilation di Kitsuné e ora anche Pitchfork è impazzito per loro. Voi cosa aspettate? In un mondo perfetto, questo pezzo spensierato e caciarone al retrogusto di Solveig sarebbe il tormentone dell’estate.