Primavera Sound 2018: giorno 2

Il primo appuntamento della giornata è una conferenza stampa unica: Jane Birkin e Charlotte Gainsbourg a confronto. Per la prima volta si esibiscono nello stesso festival: domani la madre esegue dal vivo la sua raccolta di classici riarrangiati con orchestra sinfonica; oggi la figlia presenta il suo terzo album di inediti Rest. Ma la prima domanda le spiazza. Un giornalista chiede loro di parlare del movimento #metoo e quale sia il punto di vista sulla questione da due generazioni diverse. Stupisce il loro stupore, perché dopo tanti mesi due professioniste dell’industria cinematografica e musicale, qualunque sia la loro opinione, dovrebbero avere una risposta pronta. Quella che tirano fuori, dopo molto esitare, è cauta. Gainsbourg pensa che sia una buona cosa nonché una rivoluzione, ma come ogni rivoluzione porti con sé dei danni collaterali: dal punto di vista di una francese, l’America ha reagito in modo esagerato e violento, anche se forse è stato necessario, e i processi non andrebbero fatti via social media. Birkin nota che alcune persone, tra cui un loro conoscente, possono perdere la carriera anche nel caso in cui le accuse di molestie siano infondate. Aggiunge che è una cosa che non le è mai capitata: stava con Serge, quindi nessuno ci provava. L’impressione è che la risposta potrebbe finire in territorio Deneuve se solo qualcuno infierisse e chiedesse alla Gainsbourg qualcosa su Lars Von Trier. Il discorso si sposta invece sul concerto della Birkin, che la figlia ha visto più volte, commuovendosi. Secondo Birkin, la musica del compagno, specialmente se eseguita da un’orchestra, quasi non ha bisogno di parole – una sera in cui non aveva voce è andata avanti con lo spettacolo parlando anziché cantando ed è stato altrettanto suggestivo. Lei sognava di fare i musical, pur non avendo le doti canore adatte, e il compagno la dissuase scrivendole un album.

In serata, il palco Pitchfork ospita l’artista olandese-iraniana Sevdaliza e il suo trip hop ruvido e scuro. Nella sua voce convivono Beth Gibbons e radici persiane; nel suo corpo, fasciato da un body/armatura di pelle nero, convivono la danza e il basket (da ragazza giocava nella nazionale olandese). In un altro periodo storico, le major farebbero a gara per accaparrarsela: nelle ballate dimostra già di sapere interpretare il ruolo di diva R&B contemporanea pronta per i palazzetti, ma è nei momenti in cui interagisce con un ballerino sui brani dai beat più potenti che diventa davvero ipnotica. Ringrazia il pubblico perché può ancora andare avanti da artista indipendente: “È il 2018, e se Trump può essere presidente, io posso essere questo”. Questo è la migliore scoperta musicale dell’edizione.

Decido di trasferirmi al Primavera Bits, la parte sulla spiaggia dove si tengono soprattutto DJ set e in cui le persone sobrie sono un miraggio. Quest’anno la trovo ancora più grande e ancora più psicotropa, e c’è anche un palco per concerti dove si esibisce Jorja Smith. Pensavo di trovarla in uno showcase intimo per influencer e invece ci sono un migliaio di persone per un set vero e proprio di un’ora. È chiaro che dietro l’esordiente ventenne inglese ci sia un bell’investimento se può permettersi tutto ciò prima ancora di avere pubblicato un album (esce la settimana prossima). Il modello sembra essere Amy Winehouse, ma lo stile vocale fa pensare a Sia. Tutti i tasselli sono al loro posto, dalle collaborazioni giuste (Drake, Kendrick Lamar, Stormzy) a una presenza live convincente, ma dopo mezz’ora di Jorja si inizia a sentire la mancanza di una hit che le assicuri il futuro che tanti sperano per lei.

Perso nei trasferimenti da un lato all’altro del Parc e altri problemi logistici (non sono nemmeno l’unico: i Migos hanno perso l’aereo e saltato il festival), devo rinunciare a rivedere Charlotte Gainsbourg. Ho provato a essere un vero millennial e cercare i video del concerto per farmi un’idea, ma non sono ancora stati caricati. Anche senza averla vista, posso scommettere che il suo set è stato meno energico di quello delle Haim. Le tre sorelle che han fatto un patto (rassegnatevi, è il mio modo preferito per presentarle) sono al loro terzo Primavera e anche loro ci tengono a sottolinearlo. Da uno slot pomeridiano nel 2014 a un concerto a sorpresa a notte fonda nel 2017 a un posto da quasi-headliner su uno dei palchi principali quest’anno, la loro è una storia di successo lineare. Se già nel 2014 erano grandi entertainer, ora tengono il palco con ancora più naturalezza e finalmente aiutate da un impianto scenico all’altezza. Da polistrumentiste, aprono e chiudono alle percussioni tutte e tre insieme, e nel mezzo ci sono assoli di chitarra senza vergogna, trovate di interazione col pubblico (durante “The Wire” chiedono a tutti di salire sulle spalle di qualcuno e il colpo d’occhio è notevole) e una scia di singoli dai ritornelli martellanti che si possono cantare anche senza conoscere. Ma possono ancora migliorarsi: dovrebbero includere nella scaletta la loro cover di Shania Twain.

Foto Haim: Sergio Albert
→ Rockol

Primavera Sound 2017: giorno 3

L’ultimo giorno di Primavera è un giorno di sorprese. La prima sono gli Swet Shop Boys, che si esibiscono nel luogo dove è più solito fare scoperte musicali: il palco Pitchfork. Il gruppo hip hop è formato da un americano di origini indiane (Heems) e un inglese di origini pachistane (Riz MC, ovvero l’attore Riz Ahmed, ovvero il padre del figlio di Hannah Horvath). Ad accomunarli, c’è la voglia di parlare della rappresentazione dell’Asia meridionale nei media, scherzando sugli stereotipi o distruggendoli. Uno dei momenti più significativi è la parentesi solista di Riz Ahmed in “Sour Times”, brano del 2011 sulla demonizzazione dell’Islam. Si ritrova un po’ di leggerezza quando Heems se la prende con Katy Perry, che avrebbe rubato un suo verso di anni fa (“Swish swish, bish”).

Do un’occhiata a Angel Olsen per constatare se la trovo ancora noiosina (sì) e ai Metronomy per constatare se li trovo ancora convincenti malgrado il frontman (sì) ed è finalmente il turno di Grace Jones. La cantante, più che una sorpresa, è un miracolo della natura. Arriva praticamente nuda, coperta solo da bodypaint e un teschio dorato sul volto. Sul finale di ogni canzone, va dietro le quinte a microfono aperto, continuando a dialogare con pubblico e assistenti, e regalando momenti di vera comicità. Ne esce fuori ogni volta con un accessorio diverso (una bombetta argentata per la sua cover di “Love Is The Drug”; un’ampia gonna nera per “Williams’ Blood”, uno strap-on per “My Jamaican Guy”). Va in processione nel pubblico, fa la lap-dance, esegue l’intera “Slave to the Rhythm” con un hula-hoop che non smette di girare nemmeno quando sale e scende dai piedistalli: è inarrestabile. La ferma solo un gran vento, ed è costretta a tagliare qualche minuto di show. La folla, mai così variegata per genere ed età, urla: “La vie en rose! La vie en rose!” sperando in un bis. Grace Jones ha 69 anni.

Senza nulla togliere agli Arcade Fire, Régine non potrà mai competere con la regina che ho appena visto, e inizio a prepararmi per l’ultima sorpresa del festival: le Haim. Ieri, dopo i live taggati come #UnexpectedPrimavera di Arcade Fire e Mogwai, fantasticavo su una comparsata proprio delle tre sorelle californiane, visto che non avevano concerti in agenda e stanno per pubblicare il loro secondo album. Il desiderio viene esaudito alle 2:55 al palco Ray-Ban, dopo ore di indizi e ipotesi. Aprono e chiudono con due nuovi brani (“Want You Back” e “Right Now”) e ne suonano uno ancora inedito (“A Little of Your Love”). Nel mezzo, c’è un repertorio già ricchissimo per una band con solo un LP alle spalle. E sarà l’atmosfera di un festival che amano molto o il sollievo per avere fatto il pieno di fan anche senza essere apparse in cartellone, ma sembrano tornate ancora più affiatate e forti di prima. E se Danielle ed Este ricoprono i soliti ruoli (la leader saggia; l’eccentrica), Alana, ora 25enne, ha tutta un’altra sicurezza sul palco. Le Haim sono la degna conclusione per un’altra annata di successo (200.000 spettatori e il consueto spinoff di Porto pronto a partire la settimana prossima) in cui gli organizzatori hanno scommesso su headliner usciti dagli Anni Zero e sorprese vere.

Frank Ocean, alla fine non ci sei mancato così tanto.

Primavera Sound 2014: giorno 2

PrimaveraLogoPartiamo dal bollettino meteo perché è ciò che ai festival decide il nostro destino. Dopo l’acquazzone di mercoledì, il Primavera Sound non è più L’Unico Grande Festival d’Europa Senza Fango, ma oggi dopo la pioggia è arrivato un DOUBLE RAINBOW ALL THE WAY. Vorrei far notare che ce fu uno anche fuori dall’arena di Copenhagen durante lo Eurovision Song Contest. E quali sono le uniche due cose in comune tra Eurovision e Primavera? 1. io; 2. John Grant (suona a Barcellona e aveva collaborato al testo dei pazzi islandesi Pollapönk). John, uniamo le forze e mettiamo su un business: double rainbow all the way su ordinazione.

John Grant

Spesso il male di vivere ho incontrato: era al palco Heineken sotto la pioggia verso le 18.30 con John Grant. Le prime gocce arrivano mentre l’artista americano canta “It Doesn’t Matter to Him” e continuano a scendere fino al diluvio sulla colossale “Glacier”. È la colonna sonora perfetta per la situazione meteorologica e il cantautore stesso si rivolge a un pubblico ridotto ma irriducibile dicendo: “Es mi culpa” (sì, John Grant parla perfettamente spagnolo oltre a un altro centinaio di lingue). Nei pochi pezzi più movimentati (“Pale Green Ghosts”, “Black Belt”), si balla con gli ombrelli in modo ridicolo e impacciato, e malgrado il déjà-vu di mercoledì, nessuno vuole mollare. Perché è John Grant, the greatest motherfucker.

Haim

Le Haim son tre sorelle che han fatto un patto: spaccare tutto. Erano un altro gruppo che avevo conosciuto solo in live streaming (#2014) e con risultati mediocri. E ora sono un altro gruppo che bisognava vedere per credere. Il loro set è spassosissimo, anche grazie alle facce di Este Haim, la vera attrazione sul palco. Come direbbero i giornalisti ad Amici, “sono cresciute molto” e Days Are Gone si conferma un debutto eccezionale soprattutto grazie ai (pochi) pezzi che non sono stati (ancora) estratti come singoli: “My Song 5”, sto parlando di te. Sono quindi imperdonabili i lunghissimi minuti di jam session: perché perdere tempo prezioso quando si ha un album pieno di canzoni così forti? Forse le improvvisazioni sono un espediente per renderle più credibili; forse si divertono così e non gliene frega niente dei giudizi altrui. Del resto sono così rilassate da avere vissuto il festival anche da spettatrici e da avere fatto la fila con me al baracchino vegano.

*Mi fanno notare su Twitter che la jam session è in realtà una cover dei Fleetwood Mac (“Oh Well”). Scusate, mi ero lasciato ingannare da questo e dall’introduzione di Este.

FKA Twigs

FKA Twigs è un altro ottimo investimento del palco curato da Pitchfork. La cantante inglese fa un trip hop scurissimo e contemporaneo (quindi cosciente del passaggio di The Weeknd). Il palco è altrettanto scuro, sempre avvolto dal fumo, e lei non viene mai illuminata in volto. È forse un metodo per nascondersi: quando parla tra un pezzo e l’altro, si rivela una ragazza timida ed emozionata, ma quando riparte la musica si trasforma in una danzatrice del ventre ipnotica quanto i suoi brani. Il primo album (dopo un consigliatissimo EP chiamato EP2) uscirà entro la fine dell’anno.

Dopo una coppia di headliner che non ho gli strumenti per commentare (Pixies, The National), arriva l’ora della musica che si balla. I Darkside, ovvero Nicolas Jaar e il chitarrista Dave Harrington, sono una bomba elettronica, dark e stilossima. Dopo i primi minuti di introduzione, in cui si fa strada dentro me l’idea di un cuscino e un letto, iniziano a fare sul serio, ed è il momento di ballare come se nessuno stesse guardando (il buio sotto il suggestivo palco Ray-Ban funziona benissimo per lo scopo). Ci si sposta poi verso il palco ATP per SBTRKT, già arredato con un gigantesco animale gonfiabile (un incrocio non ben identificato tra un felino e un mustelide, di cui non ho prove fotografiche a causa del buio). Il concerto tarda a iniziare e il pensiero va a mercoledì sera: ormai, quando si vede un artista in difficoltà con problemi tecnici, si parla de la maledición de Sky Ferreira. Ma, una volta partito il set, i problemi di SBTRKT si rivelano più artistici che tecnici: nemmeno lui si è portato i vocalist, e la resa di pezzi come “Wildfire” o “Right Thing to Do” è al di sotto delle aspettative. È il secondo concerto del Primavera in cui la voce di Jessie Ware esce solo da un CD, e questo non va affatto bene. Poco dopo ci sarebbe stato Laurent Garnier, che saluto, ma per me il Primavera Sound giorno 2 finisce qui, alle 4, cercando un taxi che raccolga i miei resti.

ps14-3