Primavera Sound 2014: giorno 3

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È l’ultimo giorno di festival ed è anche quello col programma più impegnativo perché pieno di sovrapposizioni. Si comincia presto, alle 19, con Teho Teardo e Blixa Bargeld all’Auditori Rockdeluxe: un posto al chiuso, con le sedie, asciutto, civilizzato e senza odore di churros. Il compositore italiano (unico connazionale in cartellone escludendo quelli promossi da Sfera Cubica) e il cantante/attore tedesco portano qui la loro strana collaborazione, aiutati dapprima solo da un violoncello e poi, nella seconda metà, da un giovane ottetto d’archi locale. Ma a rubare la scena (e ad animare un concerto bello ma potenzialmente noioso) è la piccolissima figlia di Bargeld, che invade il palco, abbraccia la gamba del padre, si siede ai suoi piedi e non vuole più andarsene – il tutto con un tempismo così perfetto da far sospettare fosse una scena studiata (non lo era: la madre al lato del palco non sapeva più come trascinarla giù). Teardo e Bargeld eseguono gran parte di Still Smiling e gli highlight sono l’incredibile “Mi scusi” (quella in cui “le gambe mi fanno giacomo giacomo giacomo”) e “Come Up and See Me” (quella in cui elencano tutti i canali della tv italiana da Raiuno a TGcom). Sul finale, trovano il tempo per una cover di Caetano Veloso, una maledizione che mi perseguiterà anche fuori dall’Auditori dove vado a raggiungere altri primaveristi. L’artista brasiliano, dopo anni di corteggiamenti da parte dell’organizzazione, si esibisce finalmente al festival in un’apoteosi di fabiofazismo spinto. È troppo: mi sposto al palco Pitchfork per vedere l’effetto che fa Earl Sweatshirt.

Earl Sweatshirt

…e non mi fa un grande effetto. È un personaggio affascinante e con una storia incredibile, ma se non si ha la pazienza di entrare nella sua narrazione, si trova solo un rapper virtuoso con basi pesanti e rime misogine.

Kendrick

Kendrick Lamar rappresenta l’apertura maggiore al mainstream americano del festival (e forse non era così mainstream quando gli è stato chiesto di parteciparvi) (di certo non aveva ancora collaborato con gli Imagine Dragons ai Grammy, ecco). Il suo successo è però meritatissimo e ce ne accorgiamo dopo pochi secondi e soprattutto nella parte centrale di “Swimming Pools”, quando cambia registro e si trasforma nella voce della sua coscienza. L’artista mi fa inoltre un grandissimo favore: comprimere all’inizio del set la già citata “Swimming Pools”, “Bitch Don’t Kill My Vibe” e “Backseat Freestyle” così posso poi trasferirmi sereno verso altri palchi.

Al palco Pitchfork ritrovo tutti gli amici dispersi a causa di un’assenza di rete che mette tutti in difficoltà, e ci ritrovo anche Dev Hynes. L’artista torna sul luogo delitto: è proprio qui che suonò con Solange nel 2013. Nell’ultimo anno gli è successo di tutto: gli è andata a fuoco la casa, gli è morto il cane e ha litigato con la Knowles minore (compromettendo un album insieme che forse non vedrà mai la luce). La mancanza di Solange si sente tutta e viene compensata con una sosia e la fidanzata Samantha Urbani, più cotonata che intonata. Il concerto alterna canzoni indistinguibili l’una dall’altra e cose ballabilissime a patto che non si voglia competere con chi le sta ballando sul palco. Ma non mi diverto come vorrei perché ho troppa ansia di correre verso l’altra parte del Parc per capire se i Nine Inch Nails, nell’anno del Signore 2014, hanno un senso.

Sono passati 14 (quattordici) anni dall’ultima volta che ho visto i NIN. Era mezza vita fa, era il mio primo festival ed era durante il tour di The Fragile, il loro capolavoro indiscusso nonché un picco che ha reso inutili le loro fatiche successive. Ma, negli anni, Reznor ha anche aggiunto al curriculum altri progetti paralleli (How to destroy angels_ e ovviamente le colonne sonore di Fincher), ravvivando non solo il suo status (più percepito che reale) di pioniere, ma anche quello della band. Se sono al Primavera, vuol dire che i NIN sono ancora vivi – e vantano la fanbase più nutrita del festival, a giudicare dalle magliette del pubblico. La scaletta esce qualche ora prima ed è un sollievo perché ci si può regolare e farsi vivi verso la metà, su “Closer”. Ma “Closer” non arriva nel punto previsto perché la scaletta è sbagliata. PIÙ CLOSER E MENO FILLER, per cortesia. Trent fa infatti un concerto per fan accaniti, recuperando album tracks, singoli che non hanno venduto e pezzi che suonano simili ma inferiori a quelli storici. Sapevo non sarebbe stato un concerto di 100% grandi successi perché si chiamano NIN e non RDS, ma questo è troppo. Lo spettacolo è tecnicamente impeccabile e il palco Sony si conferma l’eccellenza, ma un concerto in cui “Hand That Feeds” è un highlight, non è un concerto da ricordare.

Se non avessi lasciato le ultime energie che avevo su “Head Like a Hole”, il concerto dei Chromeo entrerebbe nella mia top 5. I due sono una macchina da guerra: sono catchy, sono kitsch, sono il modo migliore per chiudere (volendo fare finta che i Cut Copy non esistano perché esistono alle 4 di mattina). Ma l’evento finisce davvero solo quando si appoggia il culo sui sedili della metro (sì, ancora aperta e funzionante a quell’ora) e si finisce a fare il totoPrimavera 2015. Questo è l’effetto che ci fa il festival e che ti fa venire voglia di dare ragione a Bradford Cox.

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Primavera Sound 2014: giorno 2

PrimaveraLogoPartiamo dal bollettino meteo perché è ciò che ai festival decide il nostro destino. Dopo l’acquazzone di mercoledì, il Primavera Sound non è più L’Unico Grande Festival d’Europa Senza Fango, ma oggi dopo la pioggia è arrivato un DOUBLE RAINBOW ALL THE WAY. Vorrei far notare che ce fu uno anche fuori dall’arena di Copenhagen durante lo Eurovision Song Contest. E quali sono le uniche due cose in comune tra Eurovision e Primavera? 1. io; 2. John Grant (suona a Barcellona e aveva collaborato al testo dei pazzi islandesi Pollapönk). John, uniamo le forze e mettiamo su un business: double rainbow all the way su ordinazione.

John Grant

Spesso il male di vivere ho incontrato: era al palco Heineken sotto la pioggia verso le 18.30 con John Grant. Le prime gocce arrivano mentre l’artista americano canta “It Doesn’t Matter to Him” e continuano a scendere fino al diluvio sulla colossale “Glacier”. È la colonna sonora perfetta per la situazione meteorologica e il cantautore stesso si rivolge a un pubblico ridotto ma irriducibile dicendo: “Es mi culpa” (sì, John Grant parla perfettamente spagnolo oltre a un altro centinaio di lingue). Nei pochi pezzi più movimentati (“Pale Green Ghosts”, “Black Belt”), si balla con gli ombrelli in modo ridicolo e impacciato, e malgrado il déjà-vu di mercoledì, nessuno vuole mollare. Perché è John Grant, the greatest motherfucker.

Haim

Le Haim son tre sorelle che han fatto un patto: spaccare tutto. Erano un altro gruppo che avevo conosciuto solo in live streaming (#2014) e con risultati mediocri. E ora sono un altro gruppo che bisognava vedere per credere. Il loro set è spassosissimo, anche grazie alle facce di Este Haim, la vera attrazione sul palco. Come direbbero i giornalisti ad Amici, “sono cresciute molto” e Days Are Gone si conferma un debutto eccezionale soprattutto grazie ai (pochi) pezzi che non sono stati (ancora) estratti come singoli: “My Song 5”, sto parlando di te. Sono quindi imperdonabili i lunghissimi minuti di jam session: perché perdere tempo prezioso quando si ha un album pieno di canzoni così forti? Forse le improvvisazioni sono un espediente per renderle più credibili; forse si divertono così e non gliene frega niente dei giudizi altrui. Del resto sono così rilassate da avere vissuto il festival anche da spettatrici e da avere fatto la fila con me al baracchino vegano.

*Mi fanno notare su Twitter che la jam session è in realtà una cover dei Fleetwood Mac (“Oh Well”). Scusate, mi ero lasciato ingannare da questo e dall’introduzione di Este.

FKA Twigs

FKA Twigs è un altro ottimo investimento del palco curato da Pitchfork. La cantante inglese fa un trip hop scurissimo e contemporaneo (quindi cosciente del passaggio di The Weeknd). Il palco è altrettanto scuro, sempre avvolto dal fumo, e lei non viene mai illuminata in volto. È forse un metodo per nascondersi: quando parla tra un pezzo e l’altro, si rivela una ragazza timida ed emozionata, ma quando riparte la musica si trasforma in una danzatrice del ventre ipnotica quanto i suoi brani. Il primo album (dopo un consigliatissimo EP chiamato EP2) uscirà entro la fine dell’anno.

Dopo una coppia di headliner che non ho gli strumenti per commentare (Pixies, The National), arriva l’ora della musica che si balla. I Darkside, ovvero Nicolas Jaar e il chitarrista Dave Harrington, sono una bomba elettronica, dark e stilossima. Dopo i primi minuti di introduzione, in cui si fa strada dentro me l’idea di un cuscino e un letto, iniziano a fare sul serio, ed è il momento di ballare come se nessuno stesse guardando (il buio sotto il suggestivo palco Ray-Ban funziona benissimo per lo scopo). Ci si sposta poi verso il palco ATP per SBTRKT, già arredato con un gigantesco animale gonfiabile (un incrocio non ben identificato tra un felino e un mustelide, di cui non ho prove fotografiche a causa del buio). Il concerto tarda a iniziare e il pensiero va a mercoledì sera: ormai, quando si vede un artista in difficoltà con problemi tecnici, si parla de la maledición de Sky Ferreira. Ma, una volta partito il set, i problemi di SBTRKT si rivelano più artistici che tecnici: nemmeno lui si è portato i vocalist, e la resa di pezzi come “Wildfire” o “Right Thing to Do” è al di sotto delle aspettative. È il secondo concerto del Primavera in cui la voce di Jessie Ware esce solo da un CD, e questo non va affatto bene. Poco dopo ci sarebbe stato Laurent Garnier, che saluto, ma per me il Primavera Sound giorno 2 finisce qui, alle 4, cercando un taxi che raccolga i miei resti.

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Primavera Sound 2014: giorno 1

PrimaveraLogoCome diceva ieri Stromae, il Primavera Sound è un “discovery festival” e in ogni edizione che si rispetti ci deve essere almeno un artista che si guarda in mancanza di alternative e poi si rivela una bellissima sorpresa. Al PS14, per me, quell’artista è Glasser. È troppo björkiana perché io non possa avere un debole per lei e ha un’attitudine pop che la sua madrina ha dimenticato più o meno dopo il video di “Big Time Sensuality”. Sarebbe oltretutto ingiusto definirla derivativa (l’altro nome a cui viene inevitabilmente associata è Kate Bush) perché il suo pop elettronico, tribale ma sofisticato, è originalissimo. Cameron Mesirow è inoltre una cantante potente che sa tenere il palco in un modo tutto suo, gioioso e ammiccante, e col solo “aiuto” di un socio muto e immobile al laptop. Una bellissima scoperta.

glasser

Sono decisamente meno fotogenici i Majical Cloudz, che arrivano al Pitchfork stage armati di un minimalismo totale. Non ci sono visual, non ci sono giochi di luce: non si può che fissare l’espressione un po’ inquieta di Devon Welsh (la combinazione maglietta bianca + testa rasata + occhio di bue fa sì che lui stesso nelle foto si trasformi in una majical cloud) o le unghie smaltate di nero di Matthew Otto che si muovono sul synth. Dopo 40 minuti di un set intensissimo, viene voglia di abbracciare chiunque parlando di #vibez.

majical cloudz

Alle 22 è il turno di St. Vincent, che nel pomeriggio era stata una delle poche a concedere una conferenza stampa. (Domanda: perché su un centinaio di artisti in cartellone solo quattro fanno la conferenza stampa? Risposta: perché, su 1.400 giornalisti accreditati, a sentire St. Vincent ce n’erano sì e no 15.) (Domanda: Ma alla fine la conferenza stampa di St. Vincent ha fornito incredibili rivelazioni sull’artista o perlomeno sul suo parrucchiere? Risposta: no.) (Domanda: il sottoscritto ha poi avuto il coraggio di alzare la mano e chiedere: “Allora, St. Vincent, come va il casinò?” Risposta: no, egli è un pavido.)
Annie Clark, dicevamo, arriva sul palco Sony e spara subito molte delle cartucce più potenti: “Rattlesnake”, “Digital Witness”, “Cruel”, “Birth in Reverse”. La sua scenografia geometrica è semplicissima, con un piccolo podio che ricorda la copertina dell’ultimo album, ma di grande effetto – soprattutto se vista sui megaschermi dello sponsor. Lei è glaciale, ma riesce a trovare il modo di rendere la sua freddezza una virtù, muovendosi solo a scatti robotici o a piccoli passi da geisha. Non parla col pubblico se non per salutare i suoi freaks, come una Mother Monster poco accogliente e molto severa (su “Digital Witness”, il suo pezzo anti-social media, ci si sente in colpa a smanettare su Instagram per trovare il filtro giusto). Un concerto di un perfezionismo assoluto danneggiato solo da una scaletta che concentra gran parte dei pezzi più forti all’inizio.

st vincent

Dopo avere visto i CHVRCHES in svariati festival, ma solo in streaming, avevo molti DVBBI sulle loro capacità dal vivo. Restano DVBBI legittimi per chi non ha ancora avuto la FORTVNA di sentirli di persona, ma io me li sono tolti TVTTI. L’album si conferma una miniera di singoli, l’esile voce di Lauren regge senza sbavature e perfino il piccolo momento di gloria di Martin, che prende il microfono col suo marcatissimo accento scozzese in “Under the Tide”, è assai trascinante. Lauren ci dice che siamo tutti pazzi ad avere scelto loro mentre poco più in là stanno suonando i Queens of the Stone Age. Sei molto VMILE, Lauren, la prossima volta va’ pure a guardare Josh Homme, se vuoi: io resto sotto il vostro palco anche se mettete il CD in loop.

chvrches

Gli Arcade Fire sono un’anomalia tra i miei ascolti e sento che dovrebbero piacermi di meno, ma ogni volta che li vedo dal vivo (e questa è la mia terza volta in tre anni), sento che dovrebbero piacermi di più. Sento una voce femminile imperfetta, ma ne subisco il fascino; sento pezzi di sei minuti, ma vorrei ne durassero tre; vedo visual orrendi, ma riesco ad apprezzare le loro scelte estetiche e concettuali. Restiamo sui fatti: sono la band più in linea col marchio del Primavera e lo dimostra la folla sconfinata che ha scelto di vederli (ma c’era anche una gran folla sul palco: almeno 15 musicisti). Ieri sera hanno eseguito, ancora una volta, un concerto ricchissimo e barocco che giustifica e consolida il loro status. Il resto sono problemi miei.

Se i Disclosure al Primavera 2013 erano stati una scommessa (vinta) del Pitchfork stage, quest’anno la loro presenza su uno dei palchi principali era quasi scontata. Negli ultimi 12 mesi, è cambiato tutto per i Lawrence, ma il loro live è sovrapponibile a quello della scorsa edizione. L’assenza di guest star, che l’anno scorso mi convinse delle loro capacità, è diventata ora un grosso problema: mentre a Glastonbury e altri grandi festival erano riusciti ad avere sul palco i vocalist dell’album, qui sono costretti a usare le registrazioni. Non possono certo permettersi di portare in tour Mary J. Blige o Sam Smith (che domenica probabilmente supererà i Coldplay alla vetta della top 10 britannica), ma non possono nemmeno proporre un compromesso così poco soddisfacente tra live e DJ set ora che hanno raggiunto questo livello di importanza. La scenografia, che potrebbe compensare altre mancanze, è più complessa e costosa rispetto all’anno scorso (in alcuni punti, per esempio, i due fratelli vengono ripresi in diretta e le loro immagini sono remixate con effetti un po’ kitsch e didascalici come le fiamme in “When a Fire Starts to Burn”), ma i loro iconici profili stilizzati al neon erano molto più efficaci. Non si farebbe caso a questi dettagli se si avessero ancora le energie per ballare, ma nel frattempo sono le tre di mattina e la stanchezza prevale su tutto (anche sulla curiosità di sentire i Moderat e sulla voglia di aspettare i Metronomy). Ah, alla fine non ha piovuto.

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Primavera Sound 2014: giorno 0

PrimaveraLogoSe Bradford Cox lo chiamò the best festival in the world, avrà certamente avuto i suoi buoni motivi, a me basta non trovare il fango. E quindi eccoci al Primavera Sound di Barcellona per il secondo anno consecutivo. Il festival vero e proprio inizia domani e, per abituarsi ai ritmi, è consigliabile non mancare per l’anteprima: una serata gratuita in diverse location dentro e fuori al Parc del Fòrum. Ma si parte dal pomeriggio con gli incontri per addetti ai lavori del PrimaveraPro, tra cui un’intervista pubblica di un’ora con Stromae.

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L’artista belga partecipa per la prima volta all’evento e spiega di averlo scelto perché si tratta di un “discovery festival” e lui, che sottolinea spesso la scelta di cantare in francese, spera di trovare terreno fertile anche in Spagna. Tranne una domanda specifica sul Primavera, l’intervista funge infatti più da presentazione che da approfondimento: Stromae racconta ancora una volta delle sue radici sradicate dall’hip hop, dei suoi video virali, della sua nuova linea di abbigliamento. Il progetto artistico, dopo una panoramica così ampia, sembra ancora più coerente, e sentirlo spiegato da Stromae nel suo inglese un po’ improvvisato ma sempre molto diretto, è impagabile.

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In un mondo giusto (datemi corda, è una mia battaglia personale), l’headliner del palco ATP sarebbe stato Stromae e non Sky Ferreira. Perché Stromae a pochi chilometri da qui riempie gli stadi, ha venduto milioni di copie e ha superato i Daft Punk in Francia. Sky Ferreira, invece, avrà venduto sì e no due vinili a Williamsburg e ha fatto molti servizi fotografici. Le due esibizioni, infatti, non sono nemmeno paragonabili.

Stromae arriva dopo quella che le testate serie definiscono UNA BOMBA D’ACQUA e si esibisce nell’unica ora in cui non piove. Suona gran parte di Racine carrée e solo due brani del precedente: l’obbligatoria “Alors on danse” (qui mixata a classici dance anni ’90 in successione) e “Peace or Violence” (che sembra in scaletta solo per ricordarci dell’abisso tra i due album). Gli ultimi singoli sono ormai inscindibili dai personaggi dei relativi videoclip (l’ubriaco di “Formidable”, il manichino di “Papaoutai”, lo sdoppiamento maschile/femminile di “Tous les mêmes”) e vederli riproposti dal vivo conferma le doti interpretative dell’artista (a proposito, nell’intervista del pomeriggio ha detto di avere ricevuto diverse offerte dal cinema e le sta valutando). Ma anche quando non c’è un ruolo da recitare, come nei pezzi dance/trap meno impegnativi, Stromae tiene il palco con una naturalezza incredibile. L’unica cosa che mi sento di dirvi a questo punto è: Alcatraz, 1 luglio.

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Malgrado la definizione di “discovery festival” data da Stromae, non sembra ci sia tutta questa voglia di scoprire. Tra un concerto e l’altro, il pubblico cambia completamente: fuori gli hooligan francesi e belgi di tutte le età, dentro gli hipster che non hanno osato andare al Bangerz tour di Miley Cyrus solo per vedere la sua supporter. Insomma, l’unico tratto in comune tra le due fasce di pubblico è il fradiciume dei vestiti.

Sky Ferreira arriva con gli occhiali scuri quando è già buio e poi si scusa: “Ero spaventata”. E faceva bene a esserlo perché il suo set è un disastro tecnico dopo l’altro. Non si capisce se sia un problema dell’organizzazione o della band, ma alcune canzoni vengono interrotte a metà o partono con gli attacchi sbagliati o si sentono MALE. La cantante mostra però una pazienza inaspettata e non si arrende (e nemmeno io ho voglia di arrendermi dopo avere consumato Night Time, My Time). Nei momenti più pop (“I Blame Myself”, “Boys”), sa essere molto convincente e si capisce come le major volessero trasformarla in una Britney 2.0. Quando invece si ribella al pop (“Omanko”), sembra stia ancora cercando l’approvazione e l’accettazione di un nuovo pubblico quando, in realtà, la sua avventura nel mainstream durò il tempo di un singolo (“One”, tralasciata nei live). Sky, ti giuro che se la prossima volta vieni con le basi pre-registrate non ti giudichiamo. E magari ci divertiamo davvero.

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