Björk, Vulnicura

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7 mesi prima

Björk è il tipo di artista che, potendo scegliere, si limiterebbe a registrare un album ogni quattro anni, corredarlo di qualche video interessante e fare lo stretto indispensabile per promuoverlo dal vivo. Ed è quello che ha fatto finché i soldi, nell’industria musicale, si facevano così, tentando i fan con numerose edizioni limitate e singoli impacchettati in decine di versioni diverse. Non sorprende che, nel momento in cui tutto è andato a rotoli, abbia cercato di potenziare l’offerta, prima antologizzando ogni aspetto della sua carriera in bellissimi cofanetti e poi inventandosi nuovi modi di estendere il concetto di album. Biophilia, la cui era è durata ben più a lungo di quanto meritasse, è nato con un set di applicazioni, è diventato un film, un documentario con Attenborough, una serie di laboratori per bambini e un programma educativo per le scuole. Björk stessa, intervistata dal Guardian a giugno 2014, nota la contraddizione: un progetto che nasceva per liberare la musica dai suoi schemi di composizione tradizionali è stato costretto a entrare in altri schemi, forse ancora più rigidi, per potere essere accettato dalle scuole scandinave e diventare parte del curriculum didattico. Si può dubitare dell’utilità dell’iniziativa (esistono migliaia di app per fare musica e quelle di Biophilia non sono nemmeno lontanamente tra le migliori), ma non del potere di Björk. Ha costruito un brand culturale allineato ai suoi valori, confermandosi l’innovatrice che piace alla stampa e al suo pubblico; è riuscita nell’impresa di trasformare un album in qualcosa di pratico e concreto. Tuttavia, i meriti musicali di Biophilia sono sfumati in fretta. A volere essere cinici, non era che una raccolta di suggestive metafore prestate dalla natura per parlare di sentimenti: la scelta di un’artista che, al settimo album, non sapeva più dove trovare quella creatività di un tempo, e si era messa a cercarla ovunque, perfino attraverso periscopi e microscopi.

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3 mesi prima

A ottobre, Arca rivela a The Fader di essere il co-produttore dell’album di Björk. È il primo indizio su Vulnicura, ma viene seminato all’interno di un’intervista in cui è quasi un dettaglio secondario. Fino a quel momento, oltre ai suoi lavori, l’artista venezuelano ha solo messo mano su tre tracce di Yeezus come additional producer e sul progetto di FKA twigs. Proprio come twigs, Arca/Alejandro Ghersi esce dall’ombra dopo avere creato abbastanza mistero (e hype) attorno alla sua figura per permetterselo. La sua uscita è meno plateale, ma ugualmente interessante; non include odalische clonate, ma un alter-ego femminile attraente e mostruoso allo stesso tempo: si chiama Xen ed è ritratto sulla copertina del suo primo LP. Björk non aveva mai dato così tanto spazio a un produttore solo, e per di più emergente, dalle collaborazioni con Mark Bell degli LFO (che, ai tempi del loro incontro, aveva un curriculum altrettanto scarno), ma i due trovano l’equilibrio perfetto. Ghersi è un fan che, come scopriremo poi, capisce le esigenze del cliente e le concretizza citando a memoria i suoi vecchi pezzi; Björk adotta un ragazzo più giovane di suo figlio ed entra nel suo mondo, tanto da trarre ispirazione dal suo alter-ego Xen perfino per la copertina.

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A metà gennaio, Vulnicura finisce online per intero. Björk non può, come Madonna, mostrarsi arrabbiata, parlare di “stupro artistico” e coinvolgere i servizi segreti. Lei è quella che si mise dalla parte dei pirati, sfanculando “i legali e gli uomini d’affari” che controllano la musica. A quel punto, dell’album si conosceva solo il produttore, il titolo inspiegabile e la scaletta; non si sapeva quali temi affrontassero i testi e l’unico indizio visivo era la tavolozza di colori scelta da Inez & Vinoodh per la grafica. La promozione era in alto mare, ma Björk si arrende e pubblica l’album su iTunes. Da parte sua, questo significa offrire, forse per la prima volta, un’esperienza esclusivamente musicale. Col senno di poi, il primo ascolto al buio, senza conoscere concept e retroscena, giova a Vulnicura, e “Stonemilker” provoca subito un’ondata di entusiasmo tra tutti i nostalgici. È un riassunto di Björk in 6 minuti e mezzo, con rimandi a Homogenic negli archi e nelle parole chiave: “emotional”, qui, è inserita in un contesto ben lontano dall’inno all’amicizia di “Jóga”, ma è in qualche modo un ritorno al passato, e da Björk non si aspettava altro.

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2 giorni dopo

Pitchfork pubblica in fretta e furia una singhiozzante intervista a Björk che diventa l’unica guida autorizzata a Vulnicura. L’album documenta la separazione dal compagno Matthew Barney, col quale ha avuto una figlia nel 2002. La notizia non è nuova (i primi pettegolezzi risalgono al 2008), ma ora è ufficiale, e i testi delle nove canzoni, che nessuno ha ancora avuto il tempo materiale per interpretare a fondo, ricostruiscono la cronologia dell’amore finito. Björk è metodica e posiziona ogni brano in un momento preciso: tre tracce precedenti alla rottura, tre successive alla rottura e tre senza timestamp, a ferita cicatrizzata. Non sono soggetti familiari a Björk, che in gran parte della sua discografia ha preferito guardare l’esperienza sentimentale e sessuale da una prospettiva positiva e serena. Le eccezioni sono davvero poche (“You’ve Been Flirting Again”, “5 Years”, “Immature”) o raccontate attraverso personaggi immaginari (la trilogia di Isobel, “An Echo, A Stain”). In Vulnicura, Björk è una cantautrice che prova a curare una ferita sul petto: ai primi sintomi di crisi, vuole fare chiarezza, chiede rispetto e trasparenza (“Stonemilker”); si chiede se sia una fase passeggera, se riuscirà a gestire la complessità dei suoi sentimenti (“Lionsong”); si sveglia nel cuore della notte con l’esigenza di archiviare ogni momento e ogni scopata della coppia (“History of Touches”). Quando la rottura avviene, ed è definitiva, Björk entra in stato confusionale e perde di vista la missione che si era imposta (fare chiarezza): i testi diventano banalmente emo (“Black Lake”, “NotGet”) o patetici nel modo in cui presentano un paradigma di famiglia tradizionale a cui la madre sofferente non vede alternative (“Family”). Quest’ultima traccia è il picco negativo dell’album: Haxan Cloak sgancia una bomba di drone e lei la disinnesca con archi sgraziati, mentre straparla di costruire un ponte per mettere in salvo la figlia dagli orrori della separazione tra adulti. La Björk fuori controllo del post-rottura non è efficace quanto la Björk paranoica dei primi tre brani né quanto quella che finalmente trova un po’ sollievo nell’ultimo trittico. Ma anche quando si arrende alla realtà delle cose, non è certo un esempio di conscious uncoupling, il suo: fino all’ultimo, Björk si dipinge soltanto come vittima, non ammette nessuno sbaglio. Per un break-up album che s’impone di essere così analitico, la narrazione sembra, se non spudoratamente parziale e difensiva, quantomeno incompleta. Eppure, dal punto di vista musicale, salvo le eccezioni sopraccitate, Björk è a fuoco come non lo era da tempo, coerente, omogenea, ispirata – senza bisogno di periscopi o microscopi.

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2 mesi dopo

Il MoMA di New York inaugura la sua retrospettiva dedicata a Björk. La mostra, che prima del leak avrebbe rappresentato l’iniziativa promozionale principale di Vulnicura, viene stroncata da tutti i critici. Sorge il sospetto che l’album, nella dimensione parallela in cui non viene piratato ed esce nel giorno previsto, non sia stato accolto altrettanto bene.

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3 mesi dopo

Matthew Barney fa causa a Björk per avere “sacrificato il benessere emotivo [sì, dice proprio “emotional”] della figlia” non concedendo un affidamento più equo, e per la sua insistenza nel sostenere che Barney sia “il solo colpevole della rottura”. Anche quest’album, alla fine, ha lasciato qualcosa di concreto.