Dopo tre anni dall’inaugurazione dell’App Store e più di un anno dalla messa in commercio dell’iPad, la prima ad avere avuto l’idea di un album che è anche una suite di applicazioni – una per traccia – è stata Björk. Come non ci abbia potuto pensare nessun altro in tutto questo tempo è abbastanza inspiegabile. Sì, dal punto di vista musicale ed estetico, è sempre stata un’artista all’avanguardia, ma nella strategia comunicativa e nell’interazione col pubblico non ha mai adottato un approccio marcatamente anticonvenzionale. Non è stata la prima a commissionare video e remix dai fan (anzi, ci arrivò quando la cosa era già passata di moda) e c’è da chiedersi come i soliti Trent Reznor o Moby non abbiano mai sfruttato appieno le possibilità delle app. Dopo Brian Eno che ti addormenta a suon di ambient con Bloom, David Bowie che ti fa remixare “Golden Years”, e T-Pain che ti filtra la voce con l’autotune, gli esempi degni di nota forse finiscono qui.
Più di qualsiasi altro artista, però, Björk ha sempre avuto la passione per l’involucro, il pacchetto fisico e concettuale in cui infilare il disco. Non ci è dato sapere se la pletora di cofanetti, raccolte ed edizioni speciali sia dettata dal suo narcisismo o dalle esigenze economiche di una piccola label che continua a mungere l’unica grossa mucca che ha nel roster, ma per un’artista viva e con alle spalle meno di vent’anni di carriera solista, non sembra esserci un limite alla antologizzazione delle sue opere. Il pacchetto in cui è inserito Biophilia, dicevamo, comprende una serie di applicazioni. Björk “stava aspettando che la tecnologia si mettesse in pari con lei”, disse il curatore del Manchester International Festival presentando il nuovo tour, e lei stessa ha affermato come l’iPad e le sue possibilità in campo musicale fossero da sempre il suo sogno. Il sogno di una ribelle che scriveva le melodie in testa anziché sul pentagramma, che non ha mai voluto conoscere la sua estensione vocale o imparare a suonare uno strumento, facendo di questa sua “ignoranza” un’arma vincente. Necessità e virtù.
Stufa dell’approccio accademico alla musica, Björk vuole ora insegnarci un approccio più ludico (e tattile) alla composizione musicale – e impartirci nozioni di biologia nel frattempo! – con una serie di app. Ci è riuscita?
Di ritorno da una delle prime date del suo nuovo tour, scrissi che non fu esattamente la gita al museo che ci si aspettava. Che, sì, il concerto instillava una certa curiosità per la scienza ma, date le premesse (l’iniziale interessamento di National Geographic, i laboratori, la voce di David Attenborough), il tanto pubblicizzato aspetto didattico deludeva un po’.
Il concerto non ci ha spiegato nulla sui fenomeni naturali; l’applicazione non ci ha insegnato nulla di nuovo rispetto a Tap Tap Revenge e dopo un’oretta di divertimento finirà nelle cartelle del dimenticatoio. Scartando finalmente l’involucro che ha fatto guadagnare una copertina di Wired a Björk e spendere 500 parole a me, arriva il disco vero e proprio.
Biophilia riprende il discorso lasciato in sospeso con Volta, un album spesso urlato, tribale e, dice Björk, arrabbiato: “Volta era tutto un puntare il dito, criticare e chiedere giustizia”. Biophilia cerca invece soluzioni a problemi che la cantante mette in luce con il suo impegno politico per la salvaguardia del patrimonio naturale dell’Islanda. Volta era un album “antropologico, femminista, attivista”, mentre in Biophilia l’uomo è assente. C’è l’amore per la natura intatta in un percorso che parte dagli astri e finisce negli atomi e, sebbene tutte le canzoni siano in prima persona, Björk cerca metafore per le relazioni umane nel discorso scientifico o viceversa: il rapporto tra virus e organismo ospite, la “battaglia magnetica” delle placche tettoniche per raggiungere l’unione. E quando l’uomo fa la sua comparsa, si tratta sempre di antenati, di figure preistoriche affascinate dal miracolo dei fulmini e lo spazio. Ne è un esempio “Cosmogony”, quella che Björk definisce la “canzone madre” dell’album e, come in passato fu per altre tracce che ricoprivano questo ruolo (“Isobel”, “Bachelorette”, “Oceania”), il testo è scritto con il poeta Sjón. Dal punto di vista lirico, Biophilia è il lavoro più coerente e riuscito della cantante dai tempi di Homogenic, che troviamo più a suo agio coi registri epici che con quelli intimi.
Musicalmente, l’opera è più difficile da incasellare delle precedenti e la missione della cantante ancora più ambiziosa: creare suoni in linea coi temi delle tracce (in “Thunderbolt” le linee di basso sono le scariche elettriche di una bobina di Tesla) o con strumenti inventati appositamente (il gameleste di “Virus”, un ibrido tra gamelan e celesta). Il risultato, però, è meno musique concrète delle aspettative: a un primo ascolto, questi esperimenti concettuali suonano come strumenti ordinari o effetti creabili al computer. Ma non sono proprio la continua ricerca, l’ambizione e la testardaggine ad aver reso Björk una degli artisti più interessanti al mondo? E questo è un album di ricerca, ambizioso e testardo che riassume un percorso musicale decennale: l’epicità di Homogenic si sposa con l’intimità di Vespertine, i silenzi le esplosioni vocali di Medúlla incontrano i beats graffianti di Volta con inevitabili incursioni dubstep.
Homogenic era Fuoco, Vespertine era Acqua (o meglio, ghiaccio), Medúlla era Aria, Volta era Terra. Biophilia è la straordinaria somma di tutti questi elementi.
Siamo d’accordo sul fatto che se non l’avessi saputo, non avrei mai detto che Thunderbolt è suonata da scariche elettriche e che i carillon ricorrenti nel disco non sono propriamente carillon.
Io dico che è un disco molto bello, ma non immortale, e sopratutto non quello grazie al quale sarà ricordato il meglio del 2011 musicale.
Vorrei far notare che il 7 aprile del 2005 è uscito per Nintendo DS un non-videogioco dal titolo ELECTROPLANKTON che di maiuscolo non aveva solo il nome, ma anche la caratura artistica. Björk è arrivata con sei anni di ritardo su questo genere di esperimenti (ormai questo termine non credo sia più nemmeno adeguato), altro che aspettare la tecnologia: ha aspettato la moda.
Quanto al disco in sé, ci sono momenti brillanti che però si perdono in un mare di björkosità ormai standard: negli anni, cioè, non ho notato una vera “crescita”, ma piuttosto un “perfezionamento” del suo stile che, partendo dai suoi primi album molto eterogenei, la sta progressivamente portando sempre più vicina all’omogenizzazione definitiva dei brani dei suoi dischi, che sospetto diventeranno prima o poi un’unica lunga composizione non divisa in brani.
Aspettarsi una crescita musicale da una quarantacinquenne mi sembra un po’ pretenzioso. Le intenzioni che hanno portato a questo disco sono certamente lodevoli, così come il risultato. Beh sì, è Björk, la “solita” (altre mille virgolette) Björk, ma va bene e ci piace così.
Ma che dici, qualunque vero grande compositore del passato e del presente ha continuato a evolversi lungo tutta la sua carriera a prescindere dall’età. La vera domanda è: Björk ha avuto buone idee, sono finite e ora vive dell’eterno perfezionamento delle stesse, oppure è un genio e pur soffrendo di alti e bassi continua e continuerà comunque a stupirci con la sua arte? Vorrei tanto dire «la seconda che ho detto».
Hem sì, in realtà volevo dire “quarantacinquenne con alle spalle la carriera che ha, durante la quale ha fatto la sperimentazione la sua bandiera”. Credo non ci sia motivo di rimanere delusi dalla non completa novità che Biophilia ci propone. Björk ormai è questa e pensare che lei possa, a questo punto della sua discografia, stupirci totalmente è come aspettarsi che faccia un disco hip-hop. Non può accadere, semplicemente.
Oddio, per quanto… no, no scherzavo, non voglio un suo disco hip hop.