Tiziano Ferro, “Senza scappare mai più”

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Ci sono forse solo due cantautori italiani per i quali ha senso aspettare con grande curiosità il singolo apripista di una nuova era: Jovanotti e Tiziano Ferro. Dal primo, vogliamo restare sorpresi e sentire cosa si è inventato ogni volta; dal secondo, vogliamo il solito: l’equivalente musicale di comfort food.

Un confronto tra i due non è troppo azzardato dato che entrambi lavorano da molti anni con lo stesso produttore: Michele Canova. Tuttavia, il primo è un innovatore che ha addestrato il suo pubblico ad aspettarsi l’inconsueto, mentre il secondo è oggi un ottimo tradizionalista più amato per il contenuto dei brani che la loro forma. Entrambi entrano in uno studio di Los Angeles col compito di masticare un universo di ispirazioni internazionali a cui gran parte degli italiani non ha accesso per poi servire prodotti che risultino tanto freschi quanto digeribili per Radio Italia. Ma se Jovanotti mette molti dei suoi esperimenti più coraggiosi in prima linea, Ferro li chiude nelle astanterie lasciando che i singoli vadano a comporre una discografia parallela – sempre pregevole, ma più timida e omogenea.

Da Ferro, tutti esigono canzoni d’amore meravigliosamente tristi e va così da quando ci sono state consegnate “Sere nere” e, solo tre mesi dopo, “Non me lo so spiegare”. Quando metti in giro una droga così pura e pesante, poi ti devi prendere le responsabilità dei tuoi tossici – alcuni, a quei tempi, erano insospettabili; oggi, per fortuna, è una dipendenza accettata dalla società che si può vivere senza vergogna. Tuttavia, Ferro ha aperto solo una campagna promozionale su cinque con una ballata (“Alla mia età”), forse perché le sue ballate funzioneranno anche senza la spinta del lancio di un nuovo album (nel caso dell’ultimo, L’amore è una cosa semplice, il primo singolo “La differenza tra me e te” era anzi il brano meno rappresentativo di una collezione molto lenta) o forse perché anche lui è un po’ stufo di essere visto solo come il crooner della tragedia sentimentale.

Venerdì notte è arrivato “Senza scappare mai più”, il singolo che anticipa il primo best of di Ferro, e le speranze di avere nuovo materiale audio su cui struggersi sono state momentaneamente rimandate: non è una ballata. Ma non è nemmeno una sorpresa, visto che suona come un brano del suo passato.

Una delle forze di Ferro è sempre stata la sua capacità di catturare l’attenzione con un grande attacco, nelle musiche e soprattutto nei testi (“Uno sguardo che rompe il silenzio”, “Sono un grande falso”, “Sono la tarantola d’Africa”). Qui tergiversa per un po’ su entrambi i piani: parla alle stelle aspettando la batteria, poi costruisce la canzone in corsa, pezzo per pezzo, in un crescendo costante fatto di piccoli dettagli e accentuato da archi minacciosi. È sì un pezzo R&B, ma non nella martellante linea vocale: il flusso di parole è inarrestabile e il cantante non prende respiro nemmeno tra una strofa e l’altra, riempiendo i vuoti con un ridondante “sai sai sai sai che”. Al primo ascolto si fa anche fatica ad assimilare tutto e catturare il suo stato d’animo, finché non si arriva, confusi, al bridge risolutore: le due persone vivevano il loro legame in modi diversi e lui, correndo, ha perso l’altro. Il bridge è anche l’unica parte scritta al passato e annulla quindi il presente del resto, che leggiamo ora come una lista di rimpianti. Il periodo ipotetico del ritornello si risolve solo con una variazione in chiusura, quando finalmente arriva un “se” (“giuro lo farei se questa rabbia mi lasciasse andare”).

Ma la chiave interpretativa nei testi di Ferro non è mai univoca e “Senza scappare mai più” è tra i più disconnessi della sua carriera. E questa è un’altra sua grande forza: usare parole semplici che tradiscono, che sembrano ovvietà ma necessitano più spiegazioni e che in alcuni casi si trasformano in massime estremamente citabili. In questo singolo, però, il trucco è fin troppo evidente, e se alcuni versi passano come ambigui (“penserei ad ognuno ma nessuno pensa a noi”; “preferisco me a chi fa finta come noi”), altri si possono catalogare come insensati (“penserei ad un male che non ci ferisca mai”).

Il successo di Ferro sta nell’ambiguità, e il fatto che ora si abbia qualche dettaglio in più sulla sua vita privata forse non aiuta (se la canzone si rivolgesse a un partner, questa sarebbe la prima volta in cui usa un aggettivo al maschile: “fermo”). Sul non-detto ha construito, con grande originalità, storie universali; oggi, in “Senza scappare mai più”, sembra volere continuare su quella linea, ma riuscendo a ritrovare l’ispirazione del passato più nei suoni che nel testo.

È il brano che inganna l’attesa per le ballate che tutti vogliono e fa senz’altro il suo dovere malgrado qualche delusione nella scrittura, ed è inoltre il singolo per un best of: non può davvero venire considerato come l’introduzione a un nuovo capitolo. L’importante è che il nuovo Tiziano non ci faccia rimpiangere i capitoli in cui scappava.

Tiziano Ferro, L’amore è una cosa semplice

Tiziano Ferro è il migliore cantautore italiano in attività. Migliore: superlativo relativo, ma i termini di paragone scarseggiano. Nessun altro unisce versatilità, forza espressiva e originalità nella scrittura quanto lui. Un giorno canta De Andrè, il giorno dopo è su un palco a fare “Rumore” con la Carrà; può finire in un disco di Mary J. Blige come in uno dei Linea77 e gli accostamenti saranno comunque adeguati – merito, oltre al suo talento interpretativo, del saper applicare la varietà dei suoi gusti musicali alle produzioni. Questa eccentricità si è sentita tutta nei suoi primi quattro album: compilation non sempre coese di tradizione, wannabismi americaneggianti e esperimenti elettronici anche piuttosto arditi.

Alla vigilia de L’amore è una cosa semplice, sorgevano diversi timori: “La differenza tra me e te” non aggiungeva molto al suo repertorio; la lista dei collaboratori sembrava invariata; il passaggio da Battiato e Fossati a Nesli e Irene Grandi non prometteva bene; la copertina scontata e l’ennesimo video di Morbioli lasciavano presagire una mancanza di idee anche nella presentazione del prodotto. Ci si aspettava, insomma, un placido disco di transizione, un disco che dice: “coming out o no, sono sempre lo stesso, tranquilli, non è cambiata una virgola”.

All’incalzare del ritornello della traccia 2, tutti questi pregiudizi vanno a farsi benedire: davanti alle ballate di Tiziano Ferro, ci si può solo arrendere, e poco importa se l’arrangiamento non cambierà la storia della musica, se le liriche sembrano battere sentieri conosciuti, se il pezzo potrebbe tranquillamente venire da uno degli album precendenti.

Tuttavia sarebbe scorretto dire che nel complesso manchi la creatività. “Sperimentazione” nel pop è in genere sinonimo di follie elettroniche futuristiche, ma le tracce più coraggiose di quest’album prendono invece la direzione opposta: blues (“…ma so proteggerti”), bossa nova (“TVM”), swing (“Quiero vivir con vos”). Sebbene Tiziano Ferro si trovi a suo agio con tutti questi registri e i risultati siano senz’altro gradevoli, i momenti più belli e toccanti sono da cercare altrove: “La fine”, perfetta confessione presa in prestito da Nesli, e il finale di “10.000 scuse”. In questo interludio, il cantante ricicla i versi di “Centoundici”: è il Tiziano dieci anni fa,  che a sua volta scriveva al se stesso adolescente: “Continua a cantare / Regala senza sosta il tuo amore”. E così ha fatto.

Tiziano Ferro sa ancora distruggerti con due versi, sa ancora scrivere una ballata e renderla universale sfruttando lo spazio negativo del non detto (del resto, è proprio la ricchezza di chiavi interpretative possibili ad aver decretato il suo successo – e non è solo questione di pronomi personali). Tiziano Ferro non è cambiato, Tiziano Ferro è il migliore cantautore italiano in attività.