Tanto non li compra più nessuno #3: HMV chiude

hmv1HMV, la catena di dischi e home entertainment inglese, forse chiuderà. Schiacciata dalla concorrenza online legale e illegale, l’azienda potrebbe scomparire dalle strade dopo 92 anni di attività, di cui almeno cinque vissuti in bilico. Alcuni grandi supermercati e catene di abbigliamento hanno già adocchiato quei 230 negozi che rimarrebbero vuoti, ma potrebbe anche esserci un timido tentativo di salvataggio da parte delle case discografiche.

Il sentimento generale è di nostalgia – non solo per gli inglesi, ma anche per ogni turista che almeno una volta si è perso a rovistare tra gli scaffali della catena. Tuttavia, chiunque sia entrato in un HMV di recente, saprà che l’atmosfera che vi si respira non è più quella di un tempo. I videogiochi, le console, gli accessori per iPhone e gli impianti stereo hanno preso il sopravvento sui dischi (e i DVD). La selezione è povera e confusa e i prezzi sono sproporzionati. Non è un caso se il problema più grosso della possibile chiusura è lo smaltimento dei buoni regalo. Inizialmente la compagnia aveva deciso di non accettare più i voucher (per un totale di 7 milioni di sterline) e ha dovuto fare marcia indietro a causa di una rivolta popolare che sarebbe finita col sangue (o quasi). Del resto, la gift card è il regalo paraculo per eccellenza e lo scorso Natale ne sono state vendute molte anche tramite Tesco e altri rivenditori. Insomma, non bisognava nemmeno più entrare dentro un HMV per fare un regalo da HMV e gli inglesi hanno comprato quello che resta: un logo ricco di memoria impresso su una cartolina. A rovistare tra i banchi in cerca di un disco ci penserà il destinatario, che non deve averne avuto una gran voglia se a un mese da Natale non ha ancora ritirato il regalo.

L’analisi migliore sulla débacle di HMV l’ha scritta un imprenditore che ci lavorò ai tempi d’oro, imputando il fallimento a un misto di “hýbris, arroganza e sensazione di invincibilità”. Un gruppo che non ha saputo rinnovarsi, che ha ignorato la concorrenza del digitale e della pirateria – tutti i sintomi che ci ricordano l’atteggiamento della discografia agli albori di Napster, e che hanno portato alla situazione che ben conosciamo. Ora quelle stesse case discografiche sono aggrappate a HMV perché ne dipende parte del loro fatturato e perché staccarsi da un modello che ti faceva bere champagne è difficile. D’altro canto, se paragonato alla sezione CD di Tesco o altri supermercati e autogrill, HMV resta ancora uno showroom leggermente più attraente. E dipendere dalla distribuzione dei supermercati come negli Stati Uniti (dove con una copertina sbagliata ti giochi milioni di copie) sarebbe disastroso.

C’è però un dato interessante sulle vendite di dischi che Guillaume Vieira, un vero e proprio studioso di classifiche, ha esaminato: il mercato dei best-seller è quasi a sé stante, e non segue l’andamento del mercato generale. Due esempi: la colonna sonora di Grease, un album secondo solo a Thriller in termini di vendite, ha avuto il suo straordinario successo nel 1982, l’anno peggiore per la discografia tra il ’75 e il 2005; Laundry Service di Shakira, l’album più venduto del 2001, è il meno venduto tra i best-seller annuali dal ’75 al 2005, nonostante il 2001 sia stato il migliore anno per il mercato in quel trentennio. Insomma, ci sono dischi destinati ad andare bene in ogni situazione. Adele, One Direction e Emeli Sandé, che senza dubbio hanno pagato un bel po’ di stipendi a HMV nel 2012, hanno un mercato tutto loro costituito soprattutto da compratori non abituali, e sbancheranno in salute e in malattia, con o senza le catene di dischi. E i piccoli, gli indipendenti? Oggi loro sono a malapena presenti negli scaffali di HMV, e il loro target è già abituato a comprare altrove – magari a Rough Trade, che in periodo di crisi riesce persino ad aprire una nuova sede a Brooklyn. Ma Rough Trade, al contrario di HMV e gli altri giganti che hanno abbandonato il campo, è un’esperienza: organizza piccoli concerti esclusivi, è una destinazione per collezionisti di vinili, e ci puoi anche prendere il caffè con gli amici. È un caso isolato che sazia una nicchia esigente (c’è sempre chi preferirà il mobiletto artigianale al Billy IKEA), ma è riuscito a dimostrare che si può sopravvivere e addirittura crescere in un settore che va a rotoli.

Le mie perplessità nei confronti della battaglia per tenere in vita i negozi di dischi, le avevo già espresse in occasione del Record Store Day 2011. E ora che le case discografiche cercano di salvare quel che resta di un modello obsoleto senza cambiare una virgola e senza avere imparato dai propri errori, io non provo nostalgia, ma imbarazzo. Quando hanno chiuso le agenzie di viaggi perché è più comodo e conveniente comprare un biglietto aereo su internet, mica avete fatto tutto ‘sto casino.

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