Björk, Utopia


C’è una brughiera ventosa al tramonto e una donna seduta di spalle che suona il flauto. Lentamente l’inquadratura si apre e rivela un paesaggio extraterrestre eppure rassicurante. La donna suona, o forse incanta, sgorbi alieni sospesi a mezz’aria, mentre sullo sfondo si intravvede una caverna dall’entrata vulviforme. Benvenuti a Utopia. Abitanti: una, ma il suo sguardo è accogliente e gli inviti sono aperti.

Il video di “The Gate”, uscito a settembre, ci preparava così all’inizio di un nuovo capitolo nella discografia di Björk. Come suggeriscono le prime parole del testo, la ferita sul petto che esibiva sulla copertina del precedente Vulnicura (e che rappresentava la fine del suo matrimonio), è guarita e si è trasformata in un portale per ricevere di nuovo amore. Nel video, infatti, l’artista accoglie e rilancia sfere di luce, celebrando la libertà ritrovata. L’ha chiamato il suo “Tinder record” – una definizione che è piaciuta molto ai media, e che ai media è piaciuto travisare – e lo è davvero. Non perché Björk usi un’app per incontri, ma perché alcuni brani diUtopia descrivono la sensazione di riaprirsi al mondo dopo una rottura, di ritrovare la fiducia in nuove persone e immaginare l’innamoramento. Questo, oggi, avviene inevitabilmente online, e l’artista, che ha da sempre un rapporto positivo con la tecnologia, vuole sottolinearlo. In “Blissing Me” è intenta a scambiarsi mp3 con un altro “music nerd” e non sa se si è innamorata di una canzone o del suo mittente (sembra quasi l’aggiornamento di “Headphones” del ’95, ode alle mixtape create per lei dal produttore Graham Massey). In “Features Creatures” diventa una dottoressa Frankenstein che assembla l’uomo ideale attraverso caratteristiche da profilo online; in “Arisen My Senses”, che apre l’album, è alla ricerca di una connessione, calore e sesso.

Björk voleva leggerezza e l’ha trovata nei fiati e nei campionamenti di uccelli islandesi e venezuelani che decorano le tracce. Dopo l’esperienza di Vulnicura, in cui la sua voce entrava in competizione con archi maestosi e sprofondava nel dolore dell’amore finito, vuole offrire speranza e portarci coi suoni in foreste ancestrali mentre le parole descrivono, con un linguaggio più contemporaneo di quello di molte popstar adolescenti, le interazioni al tempo dell’iPhone.

È una leggerezza relativa: è l’album più lungo della sua discografia, contiene un brano/tour de force di dieci minuti e quasi tutti gli altri potevano essere accorciati. E anche la collaborazione con Arca, col quale ha instaurato un’intensa amicizia lavorando sul disco precedente, porta con sé dei rischi. Da una parte, il musicista venezuelano sa creare un perfetto equilibrio tra nuove idee e citazioni del catalogo björkiano: i due trovano soluzioni incredibili e aliene, suoni che abbagliano, momenti di pura gioia che potevano nascere solo da un approccio giocoso e divertito come il loro. Ma dall’altra, Arca non è un produttore nel senso più tradizionale del termine, ovvero uno che in alcuni casi suggerirebbe modifiche per dare più coesione all’opera, che risulta prolissa e fatica a seguire il suo stesso concept. L’utopia, infatti, nella parte centrale del disco, è guastata da alcuni aspetti della nostra realtà che s’insinuano nei brani: in “Courtship” Björk assaggia “il siero paralizzante del rifiuto”; in “Sue Me” e “Tabula Rasa”, torna a parlare di divorzio. Tuttavia, se in Vulnicura la ferita era troppo fresca per ragionare, qui l’artista affronta le questioni legali e sentimentali con maggiore compostezza. Non vuole più fare la guerra all’ex perché ha ancora ricordi teneri della loro relazione, e perché vuole proteggere la figlia dagli errori dei genitori.

Nulla può l’escapismo sonoro contro i casini che si combinano per amore, contro il passato che inquina il presente e rimanda la fuga verso Utopia. Ma Utopia non è un luogo a sé: è un suggerimento, è l’idea di un futuro (“Future Forever”) che rende questa realtà sopportabile.

da Rockol

Lorde, Melodrama World Tour 2017

Per tutta l’estate scorsa, Lorde è stata impegnata in un tour che ha toccato i più importanti festival del mondo. In alcuni di quei concerti, l’artista ha presentato l’album Melodrama portando sul palco una gigantesca teca trasparente che lentamente si riempiva di ballerini. Prima entrava una ragazza sola con in mano un cellulare, poi altri, e infine Lorde stessa, fino a imitare una festa. Lo spettacolo rifletteva i brani, perché le feste, o più in generale i raduni e le compagnie sono sempre presenti nei testi di Lorde. Ne esamina le dinamiche con spirito critico, ma senza affondare (come ha fatto di recente Alessia Cara nella cinica “Here”); celebra questi momenti dall’interno, riconoscendone l’importanza formativa, e al contempo è una saggia osservatrice che si pone domande: cosa e dove sono i posti perfetti che cerchiamo di raggiungere con droghe e alcol? Cosa rimarrà quando torneremo sobri?

È per quest’affinità di concept che lo spettacolo funzionava così bene, e non è quindi chiaro perché per il Melodrama World Tour, partito da Manchester il 26 settembre, Lorde abbia deciso di presentare qualcosa di diverso. Era troppo complicato portare la struttura in giro e su palchi più piccoli o non voleva ripetersi?

Il Melodrama World Tour non ha lo stesso impatto scenico e rispecchia i problemi di un’artista in bilico tra pop e alternative: pop nelle ambizioni, alternative nel budget. La scenografia è composta solo da una scritta al neon “Melodrama”, la riproduzione di un vecchio televisore e tre installazioni luminose per i tre atti dello show: un astronauta, un’arcata floreale e una stella cadente (livello: luminarie natalizie comunali). Nessuna di queste trovate è particolarmente efficace o bella: le immagini del televisore (montaggi di film) sono visibili solo dalle prime file, il resto si perde nell’immenso Alexandra Palace di Londra. Ma forse il problema sta proprio nelle dimensioni della venue: l’Alexandra Palace può contenere più di 10.000 persone, mentre il Fabrique di Milano, dove arriverà tra qualche settimana, 3000. Si sta assistendo a uno show destinato a locali medi piazzato in un contesto fuori misura. Eppure anche i ballerini, qui, sembrano superflui e, vestiti di nero su sfondo nero, fanno la stessa fine dei musicisti sistemati al buio in fondo al palco. Con o senza fronzoli, lo spettacolo è lei, Ella.

Il pubblico viene accolto con una compilation di brani affatto casuali, che parte da Nelly Furtado e Jaden Smith e culmina su Kate Bush. Il volume di “Running Up that Hill” viene gradualmente alzato fino a renderla, di fatto, la prima canzone in scaletta. Le affinità con l’artista inglese sono tante (e in “Writer in the Dark”, purtroppo non eseguita dal vivo, si legge un chiaro omaggio): entrambe adolescenti prodigio dotate di intelligenza e movenze aliene che inventano un’idea di cool tutta loro e, anche se travolte dalla fama, mantengono la grazia di chi ha anni di esperienza alle spalle. Entrambe orgogliosamente melodrammatiche, entrambe situate nell’intersezione di un ipotetico diagramma di Venn tra goth e glitter.

Gli intermezzi video che precedono ogni atto dello show non sono tra i più originali – frammenti amatoriali di vacanze mai esistite, icone pop senza un evidente filo conduttore – ma la voce narrante di Lorde, che dice di voler sezionare un cuore per vederne i sentimenti, ha un suo fascino naïf. È comunque l’opera di una ventenne, che forse vorrebbe indirizzarsi di più ai suoi coetanei ma, per via del prezzo del biglietto, si trova davanti a un pubblico spostato verso i trenta e oltre. Parla anche molto di sé e della rottura che ha generato l’album; fa riflessioni meta sul suo processo creativo, come quando ha immaginato i fan che cantano il “na-na-na-na-everyone” di “Liability” mentre la stava scrivendo. Dice di essere una stramba, ma prova ancora davvero insicurezza nel suo modo di ballare e cantare o è parte del personaggio? Perché sembra avere il controllo totale dei suoi mezzi, e la sua gamma di espressioni facciali, proiettata sui megaschermi, la rende un’interprete straordinaria. Ecco, la più grande soddisfazione nel vedere Lorde dal vivo è constatare se un ghigno o un sorriso che si percepivano nell’interpretazione in studio esistono anche in 3D.

La scaletta è generosa e rende evidente quanti inni abbia inciso nel giro di due album. Manca l’ultimo singolo “Homemade Dynamite”, forse perché, in tempi di esplosivi artigianali sulle metropolitane e ai concerti, sarebbe sembrato inappropriato. In due momenti chiede al pubblico di lasciarsi andare: il primo è sull’assolo di batteria di “In the Air Tonight”, cover improbabile e azzeccatissima che riabilita Phil Collins e un intero decennio in cui non era ancora nata; il secondo è annunciando “Green Light”. Il pezzo che sceglie per chiudere contiene tutti gli elementi per spiegare la grandezza di Lorde: un’idea di pop atemporale e una struttura che se ne infischia delle regole (sua maestà Max Martin l’ha definita scorretta, ma lei ha rifiutato di correggerla); l’euforia, la rabbia e la lucidità nell’affrontare l’addio a un amante che è anche l’addio all’adolescenza; il melodramma.

Frank Ocean, Blonde Tour 2017

Frank Ocean è in ritardo di 20 minuti e il pubblico si sta spazientendo. Non c’è più il rischio che annulli il concerto (questa è la sesta data del tour, e la terza che non cancella), ma qui coi coprifuoco non si scherza. Se nel 2012 a Hyde Park staccarono la spina a due leggende del rock, è improbabile che a Victoria Park possano essere più clementi con Frank – anche lui una leggenda, ma nel senso che le sue assenze prolungate ci fecero dubitare che esistesse davvero. Arriva alle 22 (e dovrà chiudere forzatamente alle 23) e la frustrazione del pubblico diventa calore. È incerto e sbaglia spesso, ma dalla folla arrivano dichiarazioni d’amore e incoraggiamenti. Faccio un paragone azzardato per diversi motivi, ma mi vengono in mente le reazioni dei fan ad alcuni concerti di Amy Winehouse: sul palco c’è una star planetaria adorata e premiata, ma lo spettatore sente di doverla incoraggiare come se avesse davanti un bambino spaventato alla recita della scuola. Lì dentro c’è qualcosa di speciale: se abbiamo pazienza, se ci lasciamo dietro lo scazzo da clienti indispettiti o da giudici a un talent show, avremo la fortuna di assistervi.

Ci mette un po’ a ingranare, ma il primo momento speciale arriva finalmente a metà del set, quando si accuccia per suonare alla tastiera quella che diventerà un’introduzione a “Good Guy”. È speciale perché obbliga a prendere una posizione: decidere se siamo annoiati da un artista che propone una parentesi così intimista all’headline show di un festival o se vogliamo accettare le sue regole. Non è musica per le masse nel senso letterale del termine, ma del resto nella stessa giornata ho sentito gente urlare le parole di “Cranes in the Sky” di Solange e “(No One Knows Me) Like The Piano” di Sampha: negli anni della crisi del rock tradizionale, abbiamo trovato inni dalle forme inconsuete. Ed ecco che “Ivy”, “Thinkin’ Bout You” e “Nights”, presentate in sequenza, vengono elevate dagli ascoltatori a classici contemporanei pur restando canzoni che sembrano demo.

Frank non è interessato a trasformare la sua musica-per-farsi-le-canne in musica da stadio, ma trova un’idea di scena che riduce le distanze dal pubblico e rende spettacolare il suo non-spettacolo: l’intero concerto si tiene su una piccola piattaforma collegata al palco da una passerella, che lui userà solo per entrare e uscire. È al centro della folla, dall’inizio alla fine, e seguito o, meglio, marcato da due cameramen. Le riprese vanno in diretta sui megaschermi, talvolta filtrate e rese volutamente lo-fi e fintamente amatoriali, e il risultato è ipnotico. Non c’era modo migliore per rappresentare l’estetica dell’artista e tradurla per la dimensione live, catturando al contempo in modo documentaristico la sua problematica miscela di narcisismo e timidezza. Fanculo Endless e la sua scala a chiocciola: questo sarebbe materiale per un visual album memorabile.

Il suo unico banger “Pyramids” viene tagliato per il coprifuoco di cui sopra e mi sorprendo di pensare: “meglio così”, perché avrebbe cambiato troppo l’atmosfera. “Nikes” sarebbe stata il comedown e invece stasera diventa un finale aperto e surreale: il testo appare sugli schermi a mo’ di karaoke, e a scandire le parole è la faccina di Hello Kitty. Canta: “I’ll mean something to you”, ma ci è già riuscito.

Primavera Sound 2017: giorno 3

L’ultimo giorno di Primavera è un giorno di sorprese. La prima sono gli Swet Shop Boys, che si esibiscono nel luogo dove è più solito fare scoperte musicali: il palco Pitchfork. Il gruppo hip hop è formato da un americano di origini indiane (Heems) e un inglese di origini pachistane (Riz MC, ovvero l’attore Riz Ahmed, ovvero il padre del figlio di Hannah Horvath). Ad accomunarli, c’è la voglia di parlare della rappresentazione dell’Asia meridionale nei media, scherzando sugli stereotipi o distruggendoli. Uno dei momenti più significativi è la parentesi solista di Riz Ahmed in “Sour Times”, brano del 2011 sulla demonizzazione dell’Islam. Si ritrova un po’ di leggerezza quando Heems se la prende con Katy Perry, che avrebbe rubato un suo verso di anni fa (“Swish swish, bish”).

Do un’occhiata a Angel Olsen per constatare se la trovo ancora noiosina (sì) e ai Metronomy per constatare se li trovo ancora convincenti malgrado il frontman (sì) ed è finalmente il turno di Grace Jones. La cantante, più che una sorpresa, è un miracolo della natura. Arriva praticamente nuda, coperta solo da bodypaint e un teschio dorato sul volto. Sul finale di ogni canzone, va dietro le quinte a microfono aperto, continuando a dialogare con pubblico e assistenti, e regalando momenti di vera comicità. Ne esce fuori ogni volta con un accessorio diverso (una bombetta argentata per la sua cover di “Love Is The Drug”; un’ampia gonna nera per “Williams’ Blood”, uno strap-on per “My Jamaican Guy”). Va in processione nel pubblico, fa la lap-dance, esegue l’intera “Slave to the Rhythm” con un hula-hoop che non smette di girare nemmeno quando sale e scende dai piedistalli: è inarrestabile. La ferma solo un gran vento, ed è costretta a tagliare qualche minuto di show. La folla, mai così variegata per genere ed età, urla: “La vie en rose! La vie en rose!” sperando in un bis. Grace Jones ha 69 anni.

Senza nulla togliere agli Arcade Fire, Régine non potrà mai competere con la regina che ho appena visto, e inizio a prepararmi per l’ultima sorpresa del festival: le Haim. Ieri, dopo i live taggati come #UnexpectedPrimavera di Arcade Fire e Mogwai, fantasticavo su una comparsata proprio delle tre sorelle californiane, visto che non avevano concerti in agenda e stanno per pubblicare il loro secondo album. Il desiderio viene esaudito alle 2:55 al palco Ray-Ban, dopo ore di indizi e ipotesi. Aprono e chiudono con due nuovi brani (“Want You Back” e “Right Now”) e ne suonano uno ancora inedito (“A Little of Your Love”). Nel mezzo, c’è un repertorio già ricchissimo per una band con solo un LP alle spalle. E sarà l’atmosfera di un festival che amano molto o il sollievo per avere fatto il pieno di fan anche senza essere apparse in cartellone, ma sembrano tornate ancora più affiatate e forti di prima. E se Danielle ed Este ricoprono i soliti ruoli (la leader saggia; l’eccentrica), Alana, ora 25enne, ha tutta un’altra sicurezza sul palco. Le Haim sono la degna conclusione per un’altra annata di successo (200.000 spettatori e il consueto spinoff di Porto pronto a partire la settimana prossima) in cui gli organizzatori hanno scommesso su headliner usciti dagli Anni Zero e sorprese vere.

Frank Ocean, alla fine non ci sei mancato così tanto.

Primavera Sound 2017: giorno 2

ll mio secondo giorno di Primavera inizia nel pomeriggio con Mitski, e inizia male. Fin dalle prime note del set c’è un problema di volumi al palco Pitchfork e la voce non si sente. E quando si sente, va pure peggio. Dopo qualche tentativo di risolvere il problema, anche la cantante sembra arrendersi, e io con lei. Me vado spazientito senza nemmeno sentire uno dei miei brani preferiti dell’anno scorso, “Your Best American Girl”. Spero che lo sentirò in un’altra occasione, con Mitski più in forma e suoni più curati.

Tutt’altro discorso per Sampha, che ha la fortuna di esibirsi al sempre splendido palco Ray-Ban al tramonto. Inizio a guardarlo seduto dalle gradinate, aspettandomi un concerto rilassato, intimo e attorno a un piano. Sbaglio: Sampha e la sua band fanno subito capire che ci si muoverà parecchio: tutti i brani di Process vengono rinforzati nella parte ritmica e anche “Plastic 100°” si trasforma in un banger molto ballabile. Il pubblico impazzisce (statistiche di setlist.fm alla mano, scopro che non aveva mai suonato in Spagna, e questo forse aggiunge altro entusiasmo all’occasione). Scendo nella folla per i due momenti più significativi: una coinvolgente “Blood on Me” e un’incantevole “(No One Knows Me) Like the Piano”, rovinata purtroppo dal chiacchiericcio. Tutti i grandi artisti (Drake, Kanye, Solange) che hanno fatto a gara ad averlo nei loro album prima ancora che uscisse il suo LP di debutto ci avevano visto giusto. L’hype era giustificato e strameritato.

Nel frattempo si scopre che i Mogwai, che non erano in lineup, stanno facendo un concerto per presentare un nuovo album per intero. Dopo il live a sorpresa degli Arcade Fire ieri pomeriggio (anche quello con materiale inedito), sembra che quest’anno il Primavera punti molto sulle esclusive di questo tipo. Non basta il centinaio di artisti in cartellone: ci vogliono occasioni irripetibili, segrete, pressoché inaccessibili se non si è già nei dintorni, con un cellulare per ricevere le soffiate e un programma flessibile. Quindi, da un lato oggi mi piacerebbe vivere una di queste sorprese (in cima alla mia lista dei desideri: Haim e Phoenix), e dall’altro non saprei dove trovare il tempo senza fare rinunce.

A proposito di rinunce: Frank Ocean. Il cantante ha cancellato all’ultimo minuto la sua apparizione al festival (ci tengo a dire che l’avevo previsto a novembre) citando “ritardi di produzione”. Ieri però si scopre tramite un suo post su Tumblr che gli è morto il cane (RIP Everest), quindi forse ha avuto una ragione vera per non presentarsi. A ogni modo, tra le cose più fotografabili di ieri: la gente nel Parc con magliette a tema (“Frank Ocean is not coming”, faccina triste).

The xx. Sono lontani i tempi in cui il trio inglese sembrava vivere male ogni apparizione pubblica. Ieri sera erano esattamente dove dovevano essere, emozionati ma sicuri e aperti, come le tracce del loro ultimo album. Lo stage design riflette questa nuova era: non più nero su nero, ma specchi roteanti, trasparenze, riflessi e addirittura arcobaleni quando parte “Loud Places”, dal disco di Jamie xx. Oliver indossa una camicia oro e, prima di “Dangerous”, dice di volerla dedicare non alle coppie, che hanno già abbastanza fortuna e sostegno reciproco, ma ai single come lui. La sicurezza, o la maturità, ha anche portato sia a lui che Romy maggiore precisione nel canto: “Say Something Loving” e “On Hold”, all’inizio e alla fine del set, arrivano dritte, col pubblico che le urla a memoria. Ci vorrà un po’ perché si tolgano di dosso l’immagine cupa che loro stessi hanno coltivato fin dall’esordio, ma i fan già sanno quanta luce c’è nei nuovi The xx e ieri sera si sono fatti abbagliare da un concerto perfetto.

Primavera Sound 2017: giorno 1

L’anno scorso, alla chiusura del festival, scrivevo: “dopo i Radiohead non si torna più indietro”. A parlare era un po’ la delusione per non essere riuscito a godermi il loro set a causa di un pubblico distratto, rumoroso e maleducato – il pubblico generico di un grande festival mainstream, insomma. Che non si torni più indietro è tuttora vero (e l’iper-brandizzizazione di ogni angolo del Parc e i dieci minuti di pubblicità sui megaschermi prima dei concerti sono lì a ricordarcelo), ma ieri sera si respirava l’atmosfera di qualche anno fa, almeno sotto il palco dei tre artisti che ho seguito con maggiore attenzione. Davanti a Miguel e Solange si percepiva l’eccitazione di vedere artisti che raramente si esibiscono nell’Europa continentale; davanti a Bon Iver c’era un pubblico emozionato e non una folla di curiosi.

Miguel, a sorpresa, sarà forse il concerto più rock che vedrò in questa edizione. Coi suoi backdrop psichedelici, gli assoli di chitarra e una band ridotta a tre elementi (e tutti in camicie hawaiane), il livello di testosterone è a livelli di guardia. Lui è consapevole della sua carica erotica e flirta spudoratamente cantando di sesso e droghe e sesso attraverso le droghe. Il paragone ovvio è The Weeknd, ma per Miguel si tratta solo di divertirsi: l’alienazione e lo squallore di Tesfaye (che lui spesso confonde con trasgressione) sono lontani. Ed è lontano anche il Miguel pop/R&B delle collaborazioni con Mariah Carey, Janelle Monáe e Dua Lipa: questo è un concerto rock, e ben riuscito.

Si passa al palco Mango, dove un telo bianco con un cerchio sospeso lasciano intendere che il set di Solange avrà un alto potenziale concettuale. E sì, si rivelerà uno spettacolo interamente coreografato e calcolatissimo, ma per fortuna è anche leggero e godibile. Innanzitutto i colori: le nove persone sul palco sono tutte vestite di rosso, così come le luci proiettate sullo sfondo. Questo rende il tutto non fotografabile e forse non è un caso. Nel 2013, quando cantò sul palco Pitchfork davanti a pochi lungimiranti eletti (ciao!), ricordo che Solange chiese, durante “Losing You”, di mettere via i telefoni e godersi il momento: che ora abbia trovato una soluzione più elegante per concentrare la nostra attenzione su di lei anziché sui nostri touchscreen? Di cose ne sono cambiate da quello slot pomeridiano al Primavera di quattro anni fa: ha litigato col musicista che l’aiutò a trovare nuovi suoni (Dev Hynes), buttando forse ore di musica che non sentiremo mai; è diventata suo malgrado famosa per avere picchiato il marito di sua sorella in un ascensore; ha avuto un album al primo posto della Billboard. Sembra avere fatto pace con gli insuccessi della sua prima carriera, tant’è che ne ripropone qualcuno dal vivo e si dilunga in ringraziamenti per i collaboratori che la seguono fin dall’inizio. Lei viene presentata come “creator” dello spettacolo e si assiste davvero alla creazione di un’artista al suo picco creativo, che vuole trasmettere serenità (e riesce a farlo dispensando pillole di saggezza senza banalità, come in “Cranes in the Sky”) e calore (si butta nel pubblico durante l’inno di empowerment “F.U.B.U”, accolta con più sorrisi complici che reazioni scomposte). Resterei fino alla fine, proprio per risentire quella “Losing You” che mi conquistò quattro anni fa, ma è tempo di spostarsi per l’headliner della serata.

A Seat at the Table battè 22, A Million l’ottobre scorso, ma è un album altrettanto importante. Bon Iver lo suona per intero, circondato dai misteriosi simboli della sua copertina. Non era facile tradurre dal vivo un’opera così intima, col suo collage di campionamenti e distorsioni, ma la resa è notevole. Vernon rende l’auto-tune umano nel brano a cappella “715 – CR∑∑KS” e il frammento di Mahalia Jackson in “22 (OVER S∞∞N)” ha tutta l’intensità della versione studio. Si sposta poi in quelle che chiama “country jam”, continuando a commuovere, fino al finale solitario di “Skinny Love”. La regia dei megaschermi non esita a proiettare immagini di maschi bianchi etero che piangono nel pubblico, e che vengono salutati da applausi spontanei. È un concerto purissimo, accolto col trasporto e il rispetto che merita, e che va a completare un trio perfetto di artisti statunitensi visti oggi. Miguel, di origini messicane e africane, che parla di amore universale tra una canzone e l’altra; Solange, che scrive un nuovo capitolo nella musica nera con un album e uno spettacolo serenamente politici; Bon Iver, che invita i presenti a informarsi sulla sua campagna (2 A Billion) per porre fine alla disuguaglianza di genere. Se non fosse così tardi, direi di avere assistito a tre espressioni della resistenza anti-Trump.

Eurovision Song Contest 2017: perché l’Italia non ha vinto?

Francesco Gabbani era dato come il super favorito per la vittoria dello Eurovision Song Contest. Dal momento in cui ha vinto Sanremo fino alla mattina della finale di sabato è sempre stato primo su tutti i siti di scommesse. Diversi fattori influenzavano le proiezioni: il record di visualizzazioni su YouTube, i dati streaming, le vendite su iTunes in alcuni paesi europei. Oltre ai numeri, c’era l’entusiasmo da parte della stampa e dei fan club (che conoscono Sanremo e lo seguono) e la sensazione che, dopo 27 anni, fosse la volta buona per uno dei “soci fondatori” dell’evento. E non servono algoritmi per capire che “Occidentali’s Karma” è una canzone pop irresistibile.

Durante la fase delle semifinali, alle quali l’Italia non ha bisogno di partecipare, si sono finalmente presentati due avversari: la Bulgaria, perché in un anno senza la Russia alcuni voti si sarebbero concentrati su un paese del blocco ex sovietico, e il Portogallo, perché l’originalità dell’interpretazione e del brano avevano sorpreso tutti. Le giurie nazionali hanno votato venerdì sera, guardando in una diretta privata la Jury Final (ovvero una prova generale della finalissima, uguale in tutto e per tutto a quello che l’Europa vede il giorno dopo). Le giurie sono composte da cinque persone per paese, e sono addetti ai lavori (giornalisti, DJ, artisti, discografici, ecc.). Il loro voto vale metà del totale e, a contrario del televoto di spettatori più o meno casuali, è ragionato e studiato. A influenzarlo, ci sono appunto i numeri degli scommettitori, che possono diventare una profezia auto-avverante o una disgrazia. Chi vuole votare strategicamente ha gli elementi per farlo, e assegnare pochi punti al super favorito. Oppure fa un ragionamento senza cattiveria: “Il super favorito vincerà comunque e, anche se mi piace, voglio aiutare qualcuno di più debole”.

Le giurie e il pubblico votano a un giorno di distanza. Ci sono almeno una quindicina d’ore in cui i voti, conteggiati ed elaborati, sono fermi ad aspettare in un’agenzia. E ci sono quasi 24 ore in cui i giurati di 42 paesi possono spifferare per chi hanno votato (e spifferano, è normale). L’idea che queste informazioni, nel 2017, possano rimanere segrete per così tanto tempo è irreale. Al di là dei complottismi, è chiaro che il sabato mattina inizino ad arrivare indiscrezioni agli scommettitori: col passare delle ore le loro previsioni si fanno sempre più precise. A quel punto, in modo ufficioso, hanno quasi tutti i tasselli del puzzle: i dati parziali del televoto delle due semifinali e i voti delle giurie. L’unica vera incognita è il televoto per big five e paese ospitante, perché non è stato ancora sondato in alcun modo. Ed ecco che Gabbani, proprio come Il Volo nel 2015, sabato mattina ha iniziato a scendere nelle quotazioni. Se l’Italia avesse preso tantissimi punti al televoto, avrebbe ancora potuto vincere, ma a quel punto si calcolano le probabilità: se Portogallo e Bulgaria avevano sbancato nelle rispettive semifinali, ed erano prima e seconda secondo le giurie mentre l’Italia era settima, quante speranze poteva avere? E infatti al televoto puro non ha fatto tanto meglio: sesta.

Insomma, negli ultimi quattro anni abbiamo potuto notare un trend: nelle semifinali spunta una sorpresa e continua a crescere fino alla finale scalzando il super favorito, che verrà penalizzato dalle giurie. Può essere il personaggio (Conchita Wurst), l’esibizione (Måns Zelmerlow), la storia (Jamala) o una combinazione di tutti questi elementi come Salvador Sobral. Conosciamo bene questo meccanismo: è lo stesso che ha portato Gabbani alla vittoria contro Fiorella Mannoia a Sanremo 2017. (Ci sarebbero anche diversi paragoni con la politica, ma è meglio restare sulle canzonette.) Forse fare parte delle big five e accedere direttamente alla finale non è un vantaggio, visto che da quando la regola esiste (2000), solo una delle big five è riuscita vincere: la Germania nel 2010. Ma lamentarsi è altrettanto scorretto, e questo sistema resta il migliore possibile.

Torniamo a casa con la consapevolezza di non avere sbagliato nulla e di avere presentato il meglio. Non c’è nessun “se”: avevamo tutti gli elementi per vincere e a Kiev Francesco Gabbani è stato un portabandiera perfetto nonché protagonista assoluto (in sala stampa, dove ha vinto il premio assegnato dagli accreditati, come in arena, dove arrivavano fan di tutte le nazionalità dotati di scimmie e conoscendo testo e coreografia). Tralasciando discorsi poco eleganti sull’impatto che può avere avuto la salute di Sobral sulla psicologia dei votanti, ha vinto un’altra bella canzone. L’interprete si è distinto per la sua sobrietà ed è curioso perché, nel contesto dell’evento, è lui il novelty act, non chi arriva coi balletti. Guarda caso, ritirando il premio, ha detto che “la musica non è fatta di fuochi d’artificio, ma di sentimenti”. È una frase snob e sopratutto stupida che ha rovinato una vittoria meritata. Una ballata d’amore jazzata non è automaticamente superiore a quella che Sobral ha chiamato “musica usa e getta”, lanciando una frecciata ai colleghi che, poveri scemi, fanno pop divertente. Il tema era Celebrate Diversity e l’Europa ha seguito il consiglio – speriamo che non diventi un ricatto perché i soliti fuochi d’artificio ci piacciono ancora parecchio.

Eurovision Song Contest 2017: la guida alle canzoni

Benvenuti alla consueta guida alle canzoni in gara allo Eurovision Song Contest, ovvero la guida più letta ma meno citata dai commentatori Rai!

Riepilogando:

  • Le semifinali si tengono martedì 9 e giovedì 11 maggio. Sono trasmesse da Rai4 e Radio2 col commento di Andrea Delogu;
  • la finale di sabato 13 va in onda su Rai1 commentata da Federico Russo e Flavio Insinna;
  • l’Italia, facendo parte delle big five, si qualifica direttamente alla finale e vota nella prima semifinale;
  • di Gabbani/Ilaqua/Chiaravalli, “Occidentali’s karma”, canta Francesco Gabbani.

Dentro queste tabelle trovate: i video ufficiali di tutti i brani; una breve recensione; un giudizio da 1 a 5 sulla qualità del pezzo, la quantità di locura prevista e le possibilità di vittoria (calcolate con un complicato algoritmo che unisce le quotazioni dei bookmakers alla mia preveggenza). Accanto al nome della nazione, la semifinale a cui parteciperà e una stellina per le canzoni che meritano la vostra attenzione.

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Cristina D’Avena e il caos delle classifiche

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L’estate scorsa è stata pubblicata una raccolta di Cristina D’Avena, maldestramente intitolata #le sigle più belle. Quell’hashtag, di fatto, è poco utile su Twitter, perché la funzione di ricerca, così limitata a “#le”, non porta alcun risultato pertinente al disco e non facilita la promozione. Ma sorvoliamo perché, titolo nonostante, si tratta di un capitolo molto importante nella carriera della cantante. #le sigle più belle è infatti il primo album di Cristina D’Avena a raggiungere la top 3 italiana. E questa è la storia di come sono arrivato a scrivere la frase precedente.

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Primavera Sound 2016 – giorno 3

 

L’ultimo giorno di Primavera inizia con la conferenza stampa conclusiva e gli organizzatori confermano la sensazione generale: il festival è ancora un successo ed è in crescita costante. 200.000 accessi durante la settimana (eventi paralleli in città inclusi), e il tutto esaurito anche per la sezione PrimaveraPro per i professionisti dell’industria musicale. Quest’anno, grazie ai (o per colpa dei) Radiohead, non si torna più indietro: il Primavera Sound è un festival a tutti gli effetti mainstream che viaggia verso la perfezione (la scelta di artisti è ampia ma non impossibile da gestire; non c’è il fango e non è in un deserto; quest’anno si mangiava pure bene). E a proposito di Radiohead, un giornalista chiede la ragione dei volumi così bassi durante il loro concerto e gli organizzatori rispondono che i tecnici della band hanno agito in totale libertà.

Il primo live del giorno è il più quando-ti-ricapita ma anche il più WTF del festival. La norvegese JENNY HVAL sembra la somma dei The Knife, Maddie Ziegler nei video di Sia e i Monologhi della vagina. Più che un concerto, è una pièce di performance art femminista in cui Jenny fa riflessioni politiche e sociali intervallate da canzoni elettroniche astratte, ma eseguite con un grande talento vocale. Proprio come i The Knife, non si sa bene dove sia il confine tra ironia e serietà, e nel dubbio l’abbandono per recarmi dalla regina indiscussa di questa edizione.

PJ HARVEY sale sul palco suonando il sassofono (Carly Rae Jepsen’s impact) e accompagnata da una band, o meglio, una banda di otto elementi, tra cui l’italiano Enrico Gabrielli. La prima parte della scaletta è interamente dedicata a brani tratti dagli ultimi due album – quelli, per così dire, documentaristici. The Hope Six Demolition Project qualche mese fa aveva sollevato perplessità sui suoi metodi di ricerca e l’accusa di poverty tourism sembrava fondata. Eppure, per quanto possa sembrare sciocco, vedere quei brani interpretati dal vivo mi fa davvero credere che le intenzioni siano sincere e il backlash esagerato. Nei brani in questione, PJ è trasparente, appassionata e diretta, e la resa live è di gran lunga superiore a quella in studio. Sono pressoché marce militari che fanno battere mani e piedi a tempo, e la direttrice d’orchestra trova subito una sintonia col pubblico rara. Mi trovo addirittura a non rimpiangere affatto i vecchi lavori e a rivalutare la discografia recente (un’enorme “The Ministry of Defence” è l’esempio più eclatante, ma anche l’asettica “When Under Ether” trova una nuova veste di grande impatto). Decido che è il mio concerto preferito del Primavera 2016 ancora prima che esegua pezzi degli anni ’90 – e quando questi arrivano, com’era prevedibile, non ce n’è più per nessuno. Ne bastano tre: “50 ft Queenie”, “Down By the Water”, “To Bring You My Love”. Qualcuno urla “YASS QUEEN”. Ci sta.

Gli altri headliner, subito dopo, sono i SIGUR RÓS, che hanno alle spalle quasi vent’anni di carriera di cui dieci senza un’idea nuova o rilevante, ma dal vivo restano una macchina da guerra. Si ripete l’esperienza dei Radiohead: troppi passanti e troppi ascoltatori casuali in vena di chiacchiere e goliardia rovinano l’ascolto (che non deve essere un rituale religioso, per carità, ma cosa avranno mai da raccontarsi tutte ‘ste persone durante quel pugnale di “Vaka”?) Più forti di me nello zittire i chiacchieroni, solo quelli che si sono fatti una canna apposta per ascoltare Jónsi e non se la stanno godendo. La scaletta accontenta anche i nostalgici, ma in due ore non ci si può aspettare di sentire tutti i brani preferiti visto che hanno una durata media di 8 minuti (abbiamo avuto “Glósóli” e “Starálfur”, ma non abbiamo fatto “tjuuuú” su “Svefn-g-englar” né saltato nelle pozzanghere con “Hoppipolla”).

Si ritorna all’Heineken stage per i MODERAT, che per me si rivelano una grande sorpresa dal vivo. La loro caratteristica migliore è la varietà: passano da momenti ambient all’house più ballabile, al quasi-pop di brani come “Bad Kingdom” che il pubblico canta a memoria. Il trio tedesco è nella posizione invidiabile di chi continua a rinnovarsi guadagnando nuovi ascoltatori a ogni passo ma senza mai perdere credibilità, e Apparat, chi l’avrebbe mai detto, sembra proprio a suo agio nel ruolo di frontman e cantante. A completare un set senza difetti, luci e visual tra i migliori visti di recente. Da un lato, è la chiusura perfetta di un festival che si è aperto a nuovi generi mantenendo la propria identità (i Moderat come metafora del Primavera Sound: l’ho fatto); dall’altro, si vorrebbero avere più energie residue per goderne appieno.
Sto infatti per abbandonare quando saluto altri primaveristi ballanti al Pitchfork stage con ROOSEVELT e poi, perché tanto sono solo le quattro, li seguo al palco accanto per ISLAM CHIPSY & EEK. Avrei dovuto chiudere il report coi Moderat come metafora del Primavera Sound perché, per la musica egiziana contaminata dall’elettronica che ho sentito dopo, mi mancano le figure retoriche.

Foto PJ Harvey: Eric Pamies; foto Sigur Rós: Marc Heimendinger

Primavera Sound 2016 – giorno 2

 

Il secondo giorno inizia con NAO, una delle nuove cantanti britanniche più promettenti, e ho la fortuna di vederla dalla prima fila pur arrivando con pochi minuti di anticipo al Pitchfork stage. Elenco di artisti che negli anni ho visto sul Pitchfork stage dalle prime file: Solange, Jessie Ware, FKA twigs, NAO; conclusione: il pubblico del Primavera non sa riconoscere una star. Eppure, nel caso di NAO, è davvero evidente già dalla sua entrata in scena. È sicura, fresca ed energica quanto il suo neo-soul; è una boccata d’aria. Il suo primo album esce il 29 luglio e vorrei restare ad ascoltarne gli inediti, ma l’abbandono perché i prossimi sono i RADIOHEAD e scatta la paranoia di non trovare una postazione decente da cui vederli. E infatti, pur arrivando un’ora e mezza prima, non la trovo. Tutt’a un tratto mi ricordo perché spesso evito i concerti grossi con un pubblico grosso, e mi ricordo anche che l’attaccamento a una band non mi rende per forza simile a chi la guarda vicino a me. Quindi mi trovo circondato da tutti gli stereotipi da evitare ai concerti ma in genere assenti dal Primavera: dagli ubriachi ai chiacchieroni, dagli indossatori di alti cappelli spiritosi agli sbandieratori (ma qui abbiamo una simpatica alternativa ai soliti quattro mori sardi: la bandiera di Aphex Twin). I volumi sono bassi e la delicata “Daydreaming” (seconda in scaletta dopo “Burn the Witch”) non sopravvive al chiacchiericcio; i maxischermi, che in genere seguono i concerti del Primavera con un’ottima regia, sono invece usati per effetti grafici (bruttini) o al massimo per confusi mosaici di riprese dal vivo. Sento e vedo male, ma la scaletta regala molte soddisfazioni. Da settimane, si seguiva il preziosissimo servizio pubblico di @radioheadlive su Twitter in cerca di indizi, ma c’erano poche costanti: dopo un blocco di cinque pezzi dall’ultimo album, è lotteria, visto che in soli nove concerti hanno suonato almeno una volta ben 50 canzoni. Thom Yorke, pur evitando quasi del tutto il contatto col pubblico, stasera è molto generoso di singoli storici: “No Surprises”, “Pyramid Song”, “Karma Police”, “Street Spirit (Fade Out)”, “Paranoid Android”. È una vera scaletta da festival, da greatest hits, da farewell tour (come suggeriscono alcuni), che dà spazio tanto ai Radiohead delle chitarre (“Talk Show Host”) quanto a quelli dell’elettronica di Kid A. Il momento migliore arriva proprio con una “Everything in Its Right Place” che, arrangiata per dare più risalto al beat, sembra accelerare e fondersi alla “Idioteque” che segue. E poi, a sorpresa, dopo un bis che suggerisce come ormai anche “There There” sia un classico (sono passati 13 anni), arriva il regalo che centomila persone possono rivendersi a vita come aneddoto: “Creep”. È il concerto che volevo vedere, peccato non averlo visto davvero.

Si passa quindi all’artista elettronica che ha proprio aperto gli ultimi concerti dei Radiohead: HOLLY HERNDON. È passato un anno da quando la vidi per la prima volta e non è più sola dietro ai suoi laptop, ma è aiutata da un’altra musicista (anche alla voce) e da un artista che si occupa solo della parte visiva. Quest’ultima è essenziale al racconto della Herndon, perché ci fa muovere in una realtà virtuale di oggetti di tutti i giorni fluttuanti, insegne al neon, cavi, avatar, frammenti di social network. E lei comunica attraverso il pubblico con la tastiera, a metà tra chat e presentazione PowerPoint, scrivendo “scusate, siamo dal vivo e potremmo scazzare tutto” o dedicando il set a Chelsea Manning, l’attivista tuttora in carcere per avere leakato documenti confidenziali dell’esercito statunitense. Ma anche senza il cappello concettuale o le trovate di scena, il set è solido e perfino ballabile.

Sono le due ma non ho intenzione di perdermi SHURA, che come la connazionale NAO è sulla lista dell’hype nell’attesa del debutto discografico (esce l’8 luglio). Alexandra viene da Manchester e fa un delizioso pop pieno di riferimenti agli Anni ’80, soprattutto alla Madonna dei primi tempi. La sua risata sguaiata tra un pezzo e l’altro è in netto contrato con la voce esile e timida con cui canta – e la timidezza è il tratto più presente nella sua musica, da “2Shy” all’ultimo singolo “What’s It Gonna Be”. Nel video in questione, tuttavia, trova il coraggio di diventare una popstar, ed è facilissimo farsi conquistare. Lascio le ultime energie rimaste sulla sua “White Light” e sento per pochi minuti gli AVALANCHES remixare, campionare e pasticciare con un’euforia del tutto assente dal loro deludente ritorno. Sono le tre, m’incammino sentendoli suonare “Heard It Through the Grapevine” e leggo che PJ Harvey (in cartellone domani) ha chiuso un concerto altrove con “A Perfect Day Elise”.

Foto Radiohead: Eric Pamies