Primavera Sound 2016 – giorno 1

 

Il mio Primavera inizia mercoledì sera, in città, con una delle tante serate parallele al festival vero e proprio. Al Barts suonano EMPRESS OF e JESSY LANZA, due artiste che hanno in comune l’apprezzamento della critica, una visione interessante di ciò che è il cantautorato femminile contemporaneo e il fatto che io non abbia prestato la dovuta attenzione all’uscita dei loro ultimi album.
Nel caso di Empress Of, mi accorgo di avere fatto un grande errore perché Lorely Rodriguez è pazzesca. Ha canzoni che esplodono oltre le strutture convenzionali, oltre l’R&B o il pop elettronico sfuggendo alle definizioni di genere, per dare spazio a tutti i suoi pensieri sull’essere millennial privilegiati a Brooklyn (ma senza le pretese di Lena Dunham). Dal punto di vista vocale, si lancia in björkismi arditi e disperati, ma spesso non riesce a trattenere il sorriso nel notare che il pubblico conosce – e bene – ogni nota di un album fatto con regole tutte sue.
Nel caso di Jessy Lanza, mi accorgo invece di nutrire per lei molto meno entusiasmo rispetto agli organizzatori del Primavera (che questa settimana l’hanno messa in cartellone con due concerti + un mini-concerto acustico + un dj set: praticamente è il Jessy Lanza Sound Festival). Dove Empress Of eccelle, Jessy Lanza fallisce: il suo pop è altrettanto ibrido, ma risulta indeciso quanto la voce dell’artista e per nulla trascinante.

Il festival vero e proprio inizia giovedì pomeriggio, nella nuova area sulla spiaggia. Faccio mezz’ora di fila sotto il sole cocente per comprare l’acqua per poi scoprire che l’unica cosa liquida che possono vendermi è l’alcol dello sponsor. Segue un’altra mezz’ora in un’altra fila e nel frattempo falliscono tutti i miei piani: vedere TODD TERJE (perché la tenda in cui si tiene il dj set è diventata inaccessibile) e andare a prendere il sole sulla spiaggia vera e propria (che è radioattiva, quindi forse è andata meglio così). Mi dirigo in area stampa per la conferenza dei DAUGHTER, a cui hanno assistito 12 giornalisti (o meglio, 11 più me) (che su 1000 accreditati è un po’ imbarazzante). Un americano chiede di descrivere la band agli alieni ed Elena Tonra risponde: “la musica degli esseri umani che stanno in un angolo alle feste”. Che in effetti è un’ottima definizione per spiegare a un extraterrestre il perché di versi come “despite everything I’m still human” e perché vengano cantati senza levare gli occhi dal suolo. E malgrado le loro atmosfere e i loro testi li rendano l’opposto di una band da festival, i Daughter al tramonto ipnotizzano e commuovono qualche migliaio di esseri umani.

Un’altra band che sulla carta sembrerebbe inadeguata a un festival sono gli AIR. E infatti sono inadeguati. Dal duo francese non ci si aspetta certo animazione da villaggio turistico o doti da animali da palcoscenico, ma il modo meccanico e distaccato con cui eseguono canzoni epocali mi lascia davvero deluso e annoiato. Il pubblico, nel migliore dei casi, ondeggia distratto davanti a un greatest hits privo di idee anche dal punto di vista scenico, e così “Kelly Watch the Stars” non è stellare, “Sexy Boy” non è sexy e “How Does It Make You Feel?” non ci fa sentire niente.
Mi farei dare una svegliata da PEACHES, ma ci vogliono dei biglietti speciali perché suona all’hidden stage, un palco così hidden che – storia vera – non lo trovava manco lei. Ripiego sui TAME IMPALA, che già vidi al Primavera 2013, ma tre anni (e due nomination ai Grammy) dopo, mi trovo ad apprezzare molto di più il loro set, che nei brani di Currents diventa intenso e sensuale come avrei voluto fosse quello degli Air. I visual da salvaschermo di Windows ’95, però, non sono cambiati.

E infine gli LCD SOUNDSYSTEM. C’è un episodio (il migliore, e il più doloroso) della serie americana You’re the Worst, intitolato proprio “LCD Soundsystem”, in cui la protagonista Gretchen conosce il vicino di casa quarantenne-sposato-bianco-etero-con-cane. Le mostra la sua collezione di vinili e le chiede se le piace la band. Lei risponde, con un accenno di stanchezza, “not really”, forse ammettendolo a qualcuno e a se stessa per la prima volta. In quel piccolo scambio, all’apparenza insignificante (ma non lo è, o l’episodio non si chiamerebbe così), c’è forse tutta la differenza tra due generazioni molto vicine e ciò che ha rappresentato per molti James Murphy negli Anni Zero. (Lo spiega bene Emiliano Colasanti nel suo report oggi.) Come Gretchen, non sono mai riuscito a trovare un appiglio in quei brani infiniti, spesso costruiti attorno a un verso ripetuto fino a diventare mantra, o a sentirmi rappresentato dal musicista. E anche dal vivo, pur divertendomi, canticchiando, fotografando la discoball gigante che pende sul palco e apprezzando l’equilibrio della band tra cazzeggio e rigore, non sento quel tipo di trasporto. È bello trovarsi in mezzo a migliaia di persone che lo sentono che e farsi contagiare per un po’. Ma se mi chiedono se mi piacciono gli LCD Soundsystem: “not really”.

Foto: Dani Canto, Eric Pamies

Eurovision Song Contest 2016: la guida alle canzoni

È quel periodo dell’anno e vi ho fatto la consueta guida alle canzoni in gara allo Eurovision Song Contest, che si tiene a Stoccolma dal 10 al 14 maggio. Cos’altro c’è da sapere?

  • Le semifinali si tengono martedì 10 e giovedì 12 maggio. Verranno trasmesse da Rai4 e Radio2 col commento di Solibello e Ardemagni;
  • la finale di sabato 14 andrà in onda su Rai1 commentata da Federico Russo e Flavio Insinna;
  • l’Italia, facendo parte delle big five, si qualifica direttamente alla finale e voterà nella seconda semifinale;
  • di Michielin/Abbate/Cheope/Martine, “No Degree of Separation”, canta Francesca Michielin.

Dentro queste tabelle trovate: i video ufficiali di tutti i brani; una breve recensione; un giudizio da 1 a 5 sulla qualità del pezzo, la quantità di locura prevista e le possibilità di vittoria (calcolate con un complicato algoritmo che unisce le quotazioni dei bookmakers alla mia preveggenza). Accanto al nome della nazione, la semifinale a cui parteciperà e una stellina per le canzoni che meritano la vostra attenzione.

Aggiornamento: le nazioni contrassegnate con una F si esibiscono durante la finale di sabato sera. Continue reading

Eurovision Song Contest 2015: la guida alle canzoni

Anche quest’anno vi ho fatto la guida alle canzoni in gara allo Eurovision Song Contest, che si tiene a Vienna dal 19 al 23 maggio. Le basi:
• le semifinali si tengono martedì 19 e giovedì 21 maggio. Verranno trasmesse da Rai4 e Radio2 col commento di Solibello e Ardemagni, ma la prima semifinale andrà in onda in differita mercoledì perché dovete guardare The Voice;
• la finale di sabato 23 andrà in onda su Rai2 commentata da Federico Russo e Valentina Correani;
• l’Italia, facendo parte delle big five, si qualifica direttamente alla finale e voterà nella seconda semifinale;
• di Boccia/Esposito, “Grande amore”, canta Il Volo;
• tenete d’occhio la mia pagina su Medium, che aggiornerò con reportage di altissimo livello direttamente dalla sala stampa viennese.

Dentro questo agile menù a fisarmonica trovate: i video ufficiali di tutti i brani; una breve recensione; un giudizio da 1 a 5 sulla qualità del pezzo, la quantità di locura prevista e le possibilità di vittoria (calcolate con un complicato algoritmo che unisce le quotazioni dei bookmarkers alla mia preveggenza); un riassuntino per capire come se l’è cavata ogni nazione negli ultimi cinque anni.

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Primavera Sound 2014: giorno 3

PrimaveraLogo
È l’ultimo giorno di festival ed è anche quello col programma più impegnativo perché pieno di sovrapposizioni. Si comincia presto, alle 19, con Teho Teardo e Blixa Bargeld all’Auditori Rockdeluxe: un posto al chiuso, con le sedie, asciutto, civilizzato e senza odore di churros. Il compositore italiano (unico connazionale in cartellone escludendo quelli promossi da Sfera Cubica) e il cantante/attore tedesco portano qui la loro strana collaborazione, aiutati dapprima solo da un violoncello e poi, nella seconda metà, da un giovane ottetto d’archi locale. Ma a rubare la scena (e ad animare un concerto bello ma potenzialmente noioso) è la piccolissima figlia di Bargeld, che invade il palco, abbraccia la gamba del padre, si siede ai suoi piedi e non vuole più andarsene – il tutto con un tempismo così perfetto da far sospettare fosse una scena studiata (non lo era: la madre al lato del palco non sapeva più come trascinarla giù). Teardo e Bargeld eseguono gran parte di Still Smiling e gli highlight sono l’incredibile “Mi scusi” (quella in cui “le gambe mi fanno giacomo giacomo giacomo”) e “Come Up and See Me” (quella in cui elencano tutti i canali della tv italiana da Raiuno a TGcom). Sul finale, trovano il tempo per una cover di Caetano Veloso, una maledizione che mi perseguiterà anche fuori dall’Auditori dove vado a raggiungere altri primaveristi. L’artista brasiliano, dopo anni di corteggiamenti da parte dell’organizzazione, si esibisce finalmente al festival in un’apoteosi di fabiofazismo spinto. È troppo: mi sposto al palco Pitchfork per vedere l’effetto che fa Earl Sweatshirt.

Earl Sweatshirt

…e non mi fa un grande effetto. È un personaggio affascinante e con una storia incredibile, ma se non si ha la pazienza di entrare nella sua narrazione, si trova solo un rapper virtuoso con basi pesanti e rime misogine.

Kendrick

Kendrick Lamar rappresenta l’apertura maggiore al mainstream americano del festival (e forse non era così mainstream quando gli è stato chiesto di parteciparvi) (di certo non aveva ancora collaborato con gli Imagine Dragons ai Grammy, ecco). Il suo successo è però meritatissimo e ce ne accorgiamo dopo pochi secondi e soprattutto nella parte centrale di “Swimming Pools”, quando cambia registro e si trasforma nella voce della sua coscienza. L’artista mi fa inoltre un grandissimo favore: comprimere all’inizio del set la già citata “Swimming Pools”, “Bitch Don’t Kill My Vibe” e “Backseat Freestyle” così posso poi trasferirmi sereno verso altri palchi.

Al palco Pitchfork ritrovo tutti gli amici dispersi a causa di un’assenza di rete che mette tutti in difficoltà, e ci ritrovo anche Dev Hynes. L’artista torna sul luogo delitto: è proprio qui che suonò con Solange nel 2013. Nell’ultimo anno gli è successo di tutto: gli è andata a fuoco la casa, gli è morto il cane e ha litigato con la Knowles minore (compromettendo un album insieme che forse non vedrà mai la luce). La mancanza di Solange si sente tutta e viene compensata con una sosia e la fidanzata Samantha Urbani, più cotonata che intonata. Il concerto alterna canzoni indistinguibili l’una dall’altra e cose ballabilissime a patto che non si voglia competere con chi le sta ballando sul palco. Ma non mi diverto come vorrei perché ho troppa ansia di correre verso l’altra parte del Parc per capire se i Nine Inch Nails, nell’anno del Signore 2014, hanno un senso.

Sono passati 14 (quattordici) anni dall’ultima volta che ho visto i NIN. Era mezza vita fa, era il mio primo festival ed era durante il tour di The Fragile, il loro capolavoro indiscusso nonché un picco che ha reso inutili le loro fatiche successive. Ma, negli anni, Reznor ha anche aggiunto al curriculum altri progetti paralleli (How to destroy angels_ e ovviamente le colonne sonore di Fincher), ravvivando non solo il suo status (più percepito che reale) di pioniere, ma anche quello della band. Se sono al Primavera, vuol dire che i NIN sono ancora vivi – e vantano la fanbase più nutrita del festival, a giudicare dalle magliette del pubblico. La scaletta esce qualche ora prima ed è un sollievo perché ci si può regolare e farsi vivi verso la metà, su “Closer”. Ma “Closer” non arriva nel punto previsto perché la scaletta è sbagliata. PIÙ CLOSER E MENO FILLER, per cortesia. Trent fa infatti un concerto per fan accaniti, recuperando album tracks, singoli che non hanno venduto e pezzi che suonano simili ma inferiori a quelli storici. Sapevo non sarebbe stato un concerto di 100% grandi successi perché si chiamano NIN e non RDS, ma questo è troppo. Lo spettacolo è tecnicamente impeccabile e il palco Sony si conferma l’eccellenza, ma un concerto in cui “Hand That Feeds” è un highlight, non è un concerto da ricordare.

Se non avessi lasciato le ultime energie che avevo su “Head Like a Hole”, il concerto dei Chromeo entrerebbe nella mia top 5. I due sono una macchina da guerra: sono catchy, sono kitsch, sono il modo migliore per chiudere (volendo fare finta che i Cut Copy non esistano perché esistono alle 4 di mattina). Ma l’evento finisce davvero solo quando si appoggia il culo sui sedili della metro (sì, ancora aperta e funzionante a quell’ora) e si finisce a fare il totoPrimavera 2015. Questo è l’effetto che ci fa il festival e che ti fa venire voglia di dare ragione a Bradford Cox.

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Primavera Sound 2014: giorno 2

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John Grant

Spesso il male di vivere ho incontrato: era al palco Heineken sotto la pioggia verso le 18.30 con John Grant. Le prime gocce arrivano mentre l’artista americano canta “It Doesn’t Matter to Him” e continuano a scendere fino al diluvio sulla colossale “Glacier”. È la colonna sonora perfetta per la situazione meteorologica e il cantautore stesso si rivolge a un pubblico ridotto ma irriducibile dicendo: “Es mi culpa” (sì, John Grant parla perfettamente spagnolo oltre a un altro centinaio di lingue). Nei pochi pezzi più movimentati (“Pale Green Ghosts”, “Black Belt”), si balla con gli ombrelli in modo ridicolo e impacciato, e malgrado il déjà-vu di mercoledì, nessuno vuole mollare. Perché è John Grant, the greatest motherfucker.

Haim

Le Haim son tre sorelle che han fatto un patto: spaccare tutto. Erano un altro gruppo che avevo conosciuto solo in live streaming (#2014) e con risultati mediocri. E ora sono un altro gruppo che bisognava vedere per credere. Il loro set è spassosissimo, anche grazie alle facce di Este Haim, la vera attrazione sul palco. Come direbbero i giornalisti ad Amici, “sono cresciute molto” e Days Are Gone si conferma un debutto eccezionale soprattutto grazie ai (pochi) pezzi che non sono stati (ancora) estratti come singoli: “My Song 5”, sto parlando di te. Sono quindi imperdonabili i lunghissimi minuti di jam session: perché perdere tempo prezioso quando si ha un album pieno di canzoni così forti? Forse le improvvisazioni sono un espediente per renderle più credibili; forse si divertono così e non gliene frega niente dei giudizi altrui. Del resto sono così rilassate da avere vissuto il festival anche da spettatrici e da avere fatto la fila con me al baracchino vegano.

*Mi fanno notare su Twitter che la jam session è in realtà una cover dei Fleetwood Mac (“Oh Well”). Scusate, mi ero lasciato ingannare da questo e dall’introduzione di Este.

FKA Twigs

FKA Twigs è un altro ottimo investimento del palco curato da Pitchfork. La cantante inglese fa un trip hop scurissimo e contemporaneo (quindi cosciente del passaggio di The Weeknd). Il palco è altrettanto scuro, sempre avvolto dal fumo, e lei non viene mai illuminata in volto. È forse un metodo per nascondersi: quando parla tra un pezzo e l’altro, si rivela una ragazza timida ed emozionata, ma quando riparte la musica si trasforma in una danzatrice del ventre ipnotica quanto i suoi brani. Il primo album (dopo un consigliatissimo EP chiamato EP2) uscirà entro la fine dell’anno.

Dopo una coppia di headliner che non ho gli strumenti per commentare (Pixies, The National), arriva l’ora della musica che si balla. I Darkside, ovvero Nicolas Jaar e il chitarrista Dave Harrington, sono una bomba elettronica, dark e stilossima. Dopo i primi minuti di introduzione, in cui si fa strada dentro me l’idea di un cuscino e un letto, iniziano a fare sul serio, ed è il momento di ballare come se nessuno stesse guardando (il buio sotto il suggestivo palco Ray-Ban funziona benissimo per lo scopo). Ci si sposta poi verso il palco ATP per SBTRKT, già arredato con un gigantesco animale gonfiabile (un incrocio non ben identificato tra un felino e un mustelide, di cui non ho prove fotografiche a causa del buio). Il concerto tarda a iniziare e il pensiero va a mercoledì sera: ormai, quando si vede un artista in difficoltà con problemi tecnici, si parla de la maledición de Sky Ferreira. Ma, una volta partito il set, i problemi di SBTRKT si rivelano più artistici che tecnici: nemmeno lui si è portato i vocalist, e la resa di pezzi come “Wildfire” o “Right Thing to Do” è al di sotto delle aspettative. È il secondo concerto del Primavera in cui la voce di Jessie Ware esce solo da un CD, e questo non va affatto bene. Poco dopo ci sarebbe stato Laurent Garnier, che saluto, ma per me il Primavera Sound giorno 2 finisce qui, alle 4, cercando un taxi che raccolga i miei resti.

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Primavera Sound 2014: giorno 1

PrimaveraLogoCome diceva ieri Stromae, il Primavera Sound è un “discovery festival” e in ogni edizione che si rispetti ci deve essere almeno un artista che si guarda in mancanza di alternative e poi si rivela una bellissima sorpresa. Al PS14, per me, quell’artista è Glasser. È troppo björkiana perché io non possa avere un debole per lei e ha un’attitudine pop che la sua madrina ha dimenticato più o meno dopo il video di “Big Time Sensuality”. Sarebbe oltretutto ingiusto definirla derivativa (l’altro nome a cui viene inevitabilmente associata è Kate Bush) perché il suo pop elettronico, tribale ma sofisticato, è originalissimo. Cameron Mesirow è inoltre una cantante potente che sa tenere il palco in un modo tutto suo, gioioso e ammiccante, e col solo “aiuto” di un socio muto e immobile al laptop. Una bellissima scoperta.

glasser

Sono decisamente meno fotogenici i Majical Cloudz, che arrivano al Pitchfork stage armati di un minimalismo totale. Non ci sono visual, non ci sono giochi di luce: non si può che fissare l’espressione un po’ inquieta di Devon Welsh (la combinazione maglietta bianca + testa rasata + occhio di bue fa sì che lui stesso nelle foto si trasformi in una majical cloud) o le unghie smaltate di nero di Matthew Otto che si muovono sul synth. Dopo 40 minuti di un set intensissimo, viene voglia di abbracciare chiunque parlando di #vibez.

majical cloudz

Alle 22 è il turno di St. Vincent, che nel pomeriggio era stata una delle poche a concedere una conferenza stampa. (Domanda: perché su un centinaio di artisti in cartellone solo quattro fanno la conferenza stampa? Risposta: perché, su 1.400 giornalisti accreditati, a sentire St. Vincent ce n’erano sì e no 15.) (Domanda: Ma alla fine la conferenza stampa di St. Vincent ha fornito incredibili rivelazioni sull’artista o perlomeno sul suo parrucchiere? Risposta: no.) (Domanda: il sottoscritto ha poi avuto il coraggio di alzare la mano e chiedere: “Allora, St. Vincent, come va il casinò?” Risposta: no, egli è un pavido.)
Annie Clark, dicevamo, arriva sul palco Sony e spara subito molte delle cartucce più potenti: “Rattlesnake”, “Digital Witness”, “Cruel”, “Birth in Reverse”. La sua scenografia geometrica è semplicissima, con un piccolo podio che ricorda la copertina dell’ultimo album, ma di grande effetto – soprattutto se vista sui megaschermi dello sponsor. Lei è glaciale, ma riesce a trovare il modo di rendere la sua freddezza una virtù, muovendosi solo a scatti robotici o a piccoli passi da geisha. Non parla col pubblico se non per salutare i suoi freaks, come una Mother Monster poco accogliente e molto severa (su “Digital Witness”, il suo pezzo anti-social media, ci si sente in colpa a smanettare su Instagram per trovare il filtro giusto). Un concerto di un perfezionismo assoluto danneggiato solo da una scaletta che concentra gran parte dei pezzi più forti all’inizio.

st vincent

Dopo avere visto i CHVRCHES in svariati festival, ma solo in streaming, avevo molti DVBBI sulle loro capacità dal vivo. Restano DVBBI legittimi per chi non ha ancora avuto la FORTVNA di sentirli di persona, ma io me li sono tolti TVTTI. L’album si conferma una miniera di singoli, l’esile voce di Lauren regge senza sbavature e perfino il piccolo momento di gloria di Martin, che prende il microfono col suo marcatissimo accento scozzese in “Under the Tide”, è assai trascinante. Lauren ci dice che siamo tutti pazzi ad avere scelto loro mentre poco più in là stanno suonando i Queens of the Stone Age. Sei molto VMILE, Lauren, la prossima volta va’ pure a guardare Josh Homme, se vuoi: io resto sotto il vostro palco anche se mettete il CD in loop.

chvrches

Gli Arcade Fire sono un’anomalia tra i miei ascolti e sento che dovrebbero piacermi di meno, ma ogni volta che li vedo dal vivo (e questa è la mia terza volta in tre anni), sento che dovrebbero piacermi di più. Sento una voce femminile imperfetta, ma ne subisco il fascino; sento pezzi di sei minuti, ma vorrei ne durassero tre; vedo visual orrendi, ma riesco ad apprezzare le loro scelte estetiche e concettuali. Restiamo sui fatti: sono la band più in linea col marchio del Primavera e lo dimostra la folla sconfinata che ha scelto di vederli (ma c’era anche una gran folla sul palco: almeno 15 musicisti). Ieri sera hanno eseguito, ancora una volta, un concerto ricchissimo e barocco che giustifica e consolida il loro status. Il resto sono problemi miei.

Se i Disclosure al Primavera 2013 erano stati una scommessa (vinta) del Pitchfork stage, quest’anno la loro presenza su uno dei palchi principali era quasi scontata. Negli ultimi 12 mesi, è cambiato tutto per i Lawrence, ma il loro live è sovrapponibile a quello della scorsa edizione. L’assenza di guest star, che l’anno scorso mi convinse delle loro capacità, è diventata ora un grosso problema: mentre a Glastonbury e altri grandi festival erano riusciti ad avere sul palco i vocalist dell’album, qui sono costretti a usare le registrazioni. Non possono certo permettersi di portare in tour Mary J. Blige o Sam Smith (che domenica probabilmente supererà i Coldplay alla vetta della top 10 britannica), ma non possono nemmeno proporre un compromesso così poco soddisfacente tra live e DJ set ora che hanno raggiunto questo livello di importanza. La scenografia, che potrebbe compensare altre mancanze, è più complessa e costosa rispetto all’anno scorso (in alcuni punti, per esempio, i due fratelli vengono ripresi in diretta e le loro immagini sono remixate con effetti un po’ kitsch e didascalici come le fiamme in “When a Fire Starts to Burn”), ma i loro iconici profili stilizzati al neon erano molto più efficaci. Non si farebbe caso a questi dettagli se si avessero ancora le energie per ballare, ma nel frattempo sono le tre di mattina e la stanchezza prevale su tutto (anche sulla curiosità di sentire i Moderat e sulla voglia di aspettare i Metronomy). Ah, alla fine non ha piovuto.

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Primavera Sound 2014: giorno 0

PrimaveraLogoSe Bradford Cox lo chiamò the best festival in the world, avrà certamente avuto i suoi buoni motivi, a me basta non trovare il fango. E quindi eccoci al Primavera Sound di Barcellona per il secondo anno consecutivo. Il festival vero e proprio inizia domani e, per abituarsi ai ritmi, è consigliabile non mancare per l’anteprima: una serata gratuita in diverse location dentro e fuori al Parc del Fòrum. Ma si parte dal pomeriggio con gli incontri per addetti ai lavori del PrimaveraPro, tra cui un’intervista pubblica di un’ora con Stromae.

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L’artista belga partecipa per la prima volta all’evento e spiega di averlo scelto perché si tratta di un “discovery festival” e lui, che sottolinea spesso la scelta di cantare in francese, spera di trovare terreno fertile anche in Spagna. Tranne una domanda specifica sul Primavera, l’intervista funge infatti più da presentazione che da approfondimento: Stromae racconta ancora una volta delle sue radici sradicate dall’hip hop, dei suoi video virali, della sua nuova linea di abbigliamento. Il progetto artistico, dopo una panoramica così ampia, sembra ancora più coerente, e sentirlo spiegato da Stromae nel suo inglese un po’ improvvisato ma sempre molto diretto, è impagabile.

stromae

In un mondo giusto (datemi corda, è una mia battaglia personale), l’headliner del palco ATP sarebbe stato Stromae e non Sky Ferreira. Perché Stromae a pochi chilometri da qui riempie gli stadi, ha venduto milioni di copie e ha superato i Daft Punk in Francia. Sky Ferreira, invece, avrà venduto sì e no due vinili a Williamsburg e ha fatto molti servizi fotografici. Le due esibizioni, infatti, non sono nemmeno paragonabili.

Stromae arriva dopo quella che le testate serie definiscono UNA BOMBA D’ACQUA e si esibisce nell’unica ora in cui non piove. Suona gran parte di Racine carrée e solo due brani del precedente: l’obbligatoria “Alors on danse” (qui mixata a classici dance anni ’90 in successione) e “Peace or Violence” (che sembra in scaletta solo per ricordarci dell’abisso tra i due album). Gli ultimi singoli sono ormai inscindibili dai personaggi dei relativi videoclip (l’ubriaco di “Formidable”, il manichino di “Papaoutai”, lo sdoppiamento maschile/femminile di “Tous les mêmes”) e vederli riproposti dal vivo conferma le doti interpretative dell’artista (a proposito, nell’intervista del pomeriggio ha detto di avere ricevuto diverse offerte dal cinema e le sta valutando). Ma anche quando non c’è un ruolo da recitare, come nei pezzi dance/trap meno impegnativi, Stromae tiene il palco con una naturalezza incredibile. L’unica cosa che mi sento di dirvi a questo punto è: Alcatraz, 1 luglio.

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Malgrado la definizione di “discovery festival” data da Stromae, non sembra ci sia tutta questa voglia di scoprire. Tra un concerto e l’altro, il pubblico cambia completamente: fuori gli hooligan francesi e belgi di tutte le età, dentro gli hipster che non hanno osato andare al Bangerz tour di Miley Cyrus solo per vedere la sua supporter. Insomma, l’unico tratto in comune tra le due fasce di pubblico è il fradiciume dei vestiti.

Sky Ferreira arriva con gli occhiali scuri quando è già buio e poi si scusa: “Ero spaventata”. E faceva bene a esserlo perché il suo set è un disastro tecnico dopo l’altro. Non si capisce se sia un problema dell’organizzazione o della band, ma alcune canzoni vengono interrotte a metà o partono con gli attacchi sbagliati o si sentono MALE. La cantante mostra però una pazienza inaspettata e non si arrende (e nemmeno io ho voglia di arrendermi dopo avere consumato Night Time, My Time). Nei momenti più pop (“I Blame Myself”, “Boys”), sa essere molto convincente e si capisce come le major volessero trasformarla in una Britney 2.0. Quando invece si ribella al pop (“Omanko”), sembra stia ancora cercando l’approvazione e l’accettazione di un nuovo pubblico quando, in realtà, la sua avventura nel mainstream durò il tempo di un singolo (“One”, tralasciata nei live). Sky, ti giuro che se la prossima volta vieni con le basi pre-registrate non ti giudichiamo. E magari ci divertiamo davvero.

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Emma alla finale dello Eurovision Song Contest 2014: cosa funziona

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Emma è un’ottima scelta per rappresentare l’Italia allo Eurovision Song Contest. Se lo scopo principale è fare sì che gli italiani tornino a interessarsi dell’evento, Emma e Mengoni erano tra i nomi migliori possibili. È un caso unico all’interno della manifestazione e lo confermano i dati dei social: Emma ha più del doppio dei fan di tutti gli altri concorrenti messi insieme. E sebbene questi numeri non ci dicano chi è il più popolare in assoluto bensì il più popolare nella nazione di provenienza, l’Italia può vantare artisti all’apice della loro carriera e discograficamente rilevanti. In questo senso, l’operazione è più che riuscita.

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È un peccato notare come Sanremo, negli ultimi due anni, abbia scansato o solo sopportato l’affiliazione con lo ESC (non dimentichiamoci che il format europeo è stato creato a immagine e somiglianza del nostro festival). Tuttavia, l’indipendenza da Sanremo (o da un talent show) aumenta le probabilità di poterci presentare con grossi nomi.

Emma dal vivo è fortissima (e su questo si trovano d’accordo anche tutti i suoi detrattori), ma “La mia città” è un brano difficile. È apprezzabile che sia interamente in italiano perché le canzoni bilingui sono sempre un compromesso fastidioso oltreché poco artistico, e creano uno strano effetto di cerchio/botte. Tuttavia, facendo un ragionamento strategico, “La mia città” non usa parole che lo straniero medio potrebbe riconoscere e subito memorizzare e canticchiare. La presenza di un “amore” nel titolo e nel ritornello, per esempio, faciliterebbe le cose.

Non è vero che l’inglese suona sempre meglio dell’italiano. Per esempio, “tombini invadenti” è meglio di “intrusive manholes” e “amo parcheggiare distratta” è meglio di “I love parking inattentively”. (Traduzioni dal sito ufficiale)

Canzoni di Emma che, sebbene non eleggibili per il 2014 perché incise troppo tempo fa, sarebbero state più adatte per lo Eurovision:
– “Amami”
– “Cercavo amore”
– “Dimentico tutto”
– “L’amore non mi basta”

Canzoni italiane incise nell’ultimo anno che sarebbero state adatte per lo Eurovision:
– “L’anima vola” di Elisa (con questa si vinceva)
– “Liberi o no” di Raphael Gualazzi e Bloody Beetroots (tutti gli elementi al posto giusto: canzone perfetta per l’evento; un interprete abbastanza riconoscibile agli eurofan dopo il suo secondo posto nel 2011 e un personaggio di forte impatto con credibilità internazionale)
– “La mia stanza” di Giorgia
– “Logico #1” di Cesare Cremonini
– “Odiare” di Syria
– “Bagnati dal sole” di Noemi
– “L’amore possiede il bene” di Giusy Ferreri
– “Dimmi che non passa” di Violetta

Un artista allo ESC si gioca tutto in tre minuti di diretta e deve essere subito memorabile. Per essere memorabile, deve essere facile da incasellare e riassumere in poche parole. L’obiettivo si raggiunge in tre modi:
Gimmick (es.: l’Islanda ha i pazzi con le tute colorate, l’Austria ha la drag queen barbuta, la Polonia ha le lattaie in costume tradizionale)
Scelte musicali-stilistiche (es.: l’Ungheria ha il pezzo impegnato, i Paesi Bassi sono country, il Belgio ha un tenore da incubo)
Fattori esterni (es.: la Russia, l’Ucraina)
Emma non può contare su nessuno di questi elementi e potrebbe rappresentare uno svantaggio. Per spiegare Emma ai non italiani, si possono tirare in ballo Jessie J per la personalità e Pink per la musica (tuttavia, il pop/rock di stampo anglosassone di Emma al momento trova pochi punti di riferimento internazionali). Spiegarla ai tedeschi è più facile perché hanno già familiarità con Gianna Nannini.

Il videoclip de “La mia città”, in cui molti europei l’hanno vista per la prima volta, disorienta. Per quanto faccia piacere vedere Emma più divertita dal suo ruolo di popstar, è un video che sfida il marchio da promuovere perché racconta una storia diversa dal solito: l’anti-diva è diventata diva eccentrica. Allo stesso modo, la pomposa esibizione di sabato, in cui Emma si presenterà vestita da imperatrice con mantello bianco e foglie d’alloro, non ha un legame immediato né col brano né col personaggio (e nemmeno con la cartolina/ident in cui Emma compone la bandiera italiana con una caprese).

Il piazzamento in classifica di Emma (per ora 17° secondo le agenzie) susciterà sicuramente teorie del complotto tra i suoi fan sui social, come accadde l’anno scorso con Mengoni. I fan potranno dire ciò che vogliono, ma il timore è che vengano assecondati dall’artista. Lo spirito dello Eurovision è tutt’altro, e speriamo che si sappia. emma-tweet

Certo che però fare peggio di San Marino sarebbe doloroso.

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Eurovision Song Contest 2014: la guida alle canzoni

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Anche quest’anno vi ho fatto la guida alle canzoni in gara allo Eurovision Song Contest, che si tiene a Copenhagen dal 6 al 10 maggio. Qualche informazione utile per fare felice gli dei della SEO:
• le semifinali di martedì 6 e giovedì 8 andranno in onda su Rai4;
• la finale di sabato 10 andrà in onda su Rai2 commentata da Linus e Nicola Savino;
• l’Italia, facendo parte delle big five, si qualifica direttamente alla finale e voterà nella prima semifinale;
• di Marrone/Marrone, “La mia città”, canta Emma.

Dentro questo agile menù a fisarmonica trovate: i video ufficiali di tutti i brani; una breve recensione; un giudizio da 1 a 5 sulla qualità del pezzo, la quantità di locura prevista e le possibilità di vittoria (calcolate con un complicato algoritmo che unisce le quotazioni dei bookmarkers alla mia preveggenza); un riassunto del tutto inutile con un emoji (perché noi millennials ci esprimiamo così) (#giornalismo).

Albania

Hersi ha vinto il Sanremo albanese e con questa canzone avrebbe anche potuto gareggiare nel Sanremo italiano di una ventina di anni fa. Studia all’Accademia di Santa Cecilia e cita tra le sue influenze musicali Lady Gaga, Céline Dion, Rihanna, Björk e gli Abba. Non ha chiaramente mai ascoltato nessuno di questi artisti, ma ha invece rubato l’ugola a Shakira. Siamo solo al primo concorrente e mi sembra già di farvi perdere tempo. Amici albanesi, sarà per un’altra volta.
Armenia

Lui si chiama Aram MP3. Il nome d’arte è tremendo, ma vi consolerà sapere che gli è stato affibbiato dal pubblico ai tempi in cui faceva il comico (sai che risate). “Not Alone” è una ballatona al piano serissima e intensa che cresce con archi à la Craig Armstrong e un delirio post-dubstep del tutto ingiustificato. Tuttavia, tocca le corde giuste, è più moderna del previsto ed è già data come super-favorita. Il video copia un po’ “Non me lo so spiegare” di Tiziano Ferro.
Austria
Conchita Wurst è un’ipnotica drag queen con la barba. Non si parlerà d’altro e il personaggio probabilmente oscurerà la bella ballata da colonna sonora di James Bond con cui gareggia. Al di là del piazzamento in classifica, sarà la protagonista dell’edizione.
Azerbaijan
Niente locura per gli azeri: Dilara Kazimova porta una ballata classica di grande stile. Purtroppo, il brano perde l’occasione di rendersi più interessante dal secondo verso in poi e rischia di risultare un po’ monotono (per non dire soporifero). La messa in scena influirà molto e potrebbe aggiungere quella scintilla che per ora manca alla versione in studio.
Belgio
Non lasciatevi ingannare da quel miracolo di Stromae: il Belgio sa anche fare musica mediocre. Qui abbiamo una voce dal grandissimo potenziale usata per una canzone sulle mamme. “Son tutte belle le mamme del mondo (2014 edit)”. Gli scommettitori lo mettono addirittura tra i primi dieci, ma se passa in finale, io cambio continente.
Bielorussia
Lui è Teo, il Robin Thicke bielorusso. Non si capisce se quel modo di fare sia ironico o se creda veramente nel suo potere di seduzione su ogni donna che passa. “Cheesecake” è una canzoncina scema ma innocua a metà tra novelty e quello che, appunto, potrebbe cantare Robin Thicke.
Danimarca
Se pensate di twittare: “Questo sembra Bruno Mars!”, sappiate che l’hanno già fatto tutti. La sera in cui Basim ha vinto le selezioni nazionali, infatti, “Bruno Mars” era nei trending topic danesi. Scubidubidà. Il pezzo si basa sui cliché della canzone d’amore e, furbescamente, gli autori lo ammettono a partire dal titolo. La musica è altrettanto furba e, se lo ESC non fosse già in Danimarca, avrebbe serie possibilità di vincere.
Estonia
Una popstar che perde subito un migliaio di punti presentandosi scalza. E che, a seconda delle inquadrature, ricorda una giovane Tori Amos. Non lasciatevi trarre in inganno dal titolo: “Amazing” non è amazing. Forse, con una produzione un po’ più curata, potrebbe funzionare. Così com’è, è una canzone da ESC che rischia di perdersi tra decine di cose simili, ma fatte meglio.
Finlandia
Anche quest’anno non poteva mancare la band munita di chitarre che non c’entra granché con la manifestazione. Tuttavia, questi Softengine sono meglio di tanti dei loro predecessori: l’incontro tra il pop-rock anglosassone e l’arguzia scandinava della produzione genera un brano incisivo e radiofonico. Il loro primo album uscirà con la Sony: vuoi vedere che eccetera.
Francia
Eh, Francia, cos’è tutta questa ironia? La pagina di presentazione dei Twin Twin dice che rappresentano la YOLO generation, che evidentemente ora è una cosa che esiste. Cantano di come si può essere infelici pur avendo tutto ciò che si desidera fuorché i baffi e sotto sotto faccio il tifo per loro. Potrebbero essere la versione aggiornata del mitico Philippe Katerine e, come lui, potrebbero fare poca strada fuori dall’Esagono.
Georgia
Un gruppo che unisce folk e jazz in un video che risponde alla domanda: “Come sarebbe Treme se fosse ambientato in Georgia?”. Tre minuti di canzone di cui uno interamente dedicato a fare yodel. Vorrei tanto potere guardare tutto ciò attraverso un monocolo hipster e promuovere – almeno ironicamente – questa roba, ma non ci riesco.
Germania
Attenzione ai tedeschi perché la loro proposta ha tutti gli ingredienti per andare molto bene: una cantante figlia di una polacca e un ucraino che gareggia per la Germania, una voce femminile particolare ma gradevole, influenze folk e spirito indie, un testo in inglese semplice su una melodia un po’ strascicata che ti si pianta in testa e – giuro – non se ne va più. Gli scommettitori per ora posizionano Elaiza a metà classifica e secondo me si sbagliano di grosso.
Grecia
La Grecia quest’anno fa sul serio. Un rapper (l’unico in gara), un vocalist e un dj con un pezzo che si colloca a metà tra “We No Speak Americano” e “Mr. Saxobeat”. Una truzzeria unica che funziona alla grande e risulta ballabile e subito memorabile. Non fatela sentire a will.i.am perché è il pezzo che cerca di fare da anni.
Irlanda
Al di là del video girato con la cura di un prediciottesimo, questa canzone ha il suo perché, almeno in quell’introduzione tesa e incalzante. Ahinoi, il ritornello rovina tutto con la sempreverde pratica dello smarmellamento e l’arrivo degli strumenti tradizionali. È un buon tentativo di imitare la ricetta di Emmelie de Forest, ma non avrà la stessa fortuna.
Islanda
Ma sì, Islanda, continua a fare finta di non avere musicisti validi in tutta l’isola. Non volete vincere? Almeno non fatevi sgamare così, mandando a Copenhagen questo gruppetto adolescenziale pop-punk che ci distrae coi vestiti colorati (in difesa dei Pollapönk, il loro obiettivo dichiarato è fare musica semi-educativa che possano ascoltare anche i bambini). L’Islanda si guadagna inoltre il grande “CHE COSA?” di questa edizione: il testo è stato tradotto in inglese con la consulenza di JOHN GRANT. Appunto, CHE COSA?
Israele
Un BANGER, finalmente. Mei Finegold canta col vocione un pezzo influenzato dall’EDM contemporanea che parte fortissimo ma si perde un po’ nel ritornello. Però, un BANGER, finalmente.
Italia
È un discorso che merita più di cinque righe e lo affronterò in un post a parte.
Lettonia
Non stupitevi se siete ultimi per i bookmakers. La torta? Dovete fare la torta. E ci cantate la ricetta. È una metafora o avete fatto scrivere questo testo da bambini in età prescolare? Peraltro, quella è l’unica fascia di pubblico che potrebbe volervi ascoltare. E poi in gara c’è già la cheesecake del bielorusso.
Lituania
Cara Vilija, avevi la mia curosità, ma ora hai la mia attenzione. Te la sei guadagnata aprendo la canzone con: “ATTENTION!”. L’arrangiamento è uno dei più interessanti di questa edizione, così come l’interpretazione. Tuttavia, il testo è un po’scemo e non si capisce perché l’esibizione comprenda un balletto con tutù. Peccato.
Macedonia
Questa è la Emma macedone! Tuttavia, ha un brano molto più facile di quello di Emma e avrei scommesso di vederla molto più in alto nelle quotazioni. È eurodance da manuale e il video cerca di accontentare tutti con lei che si struscia e una squadra di operai seminudi (doppio specchietto per le allodole), ma per i bookmakers è terzultima. Insomma, spacciata ancora prima di poterci provare.
Malta
 I Mumford & Sons si sono sciolti, ma a Malta non è ancora arrivata la notizia. Come dite? Non si sono sciolti alla fine? E allora cosa ce ne facciamo della loro versione maltese? Tornando “seri”, i Firelight hanno un video dedicato ai caduti della prima guerra mondiale (…) e fanno un folk-pop molto gradevole e pericolosamente contagioso. Metto due stelline subito perché se l’ascolto ancora ho paura di dargliene tre o quattro.
Moldavia
Ora vi spiego cosa faccio quando mi trovo davanti a una canzone scialba ma passabile come “Wild Soul” e non ho alcuna opinione originale in proposito: guardo com’è messa la nazione nella graduatoria delle scommesse. Sta molto in fondo, quindi risparmiamo tempo prezioso e andiamo avanti sperando che non diventi la vincitrice.
Montenegro
Io sono ancora furibondo per l’eliminazione del Montenegro nel 2013, quindi speravo che la canzone di quest’anno fosse all’altezza di “Igranka” e potesse vendicare gli Who See. Ebbene, no. Ci è capitato il Kekko montenegrino nonché uno dei brani peggiori dell’edizione.
Norvegia
Il Bon Iver norvegese ha vinto le selezioni nazionali contro un sopravvissuto alla strage di Utoya che era dato come favoritissimo. L’incredibile potenza di “Silent Storm”: è una lagna, ma una lagna epica che potrebbe commuovere mezza Europa. Nulla di più lontano dal pop apocalittico della meravigliosa Margaret Berger, ma anche quest’anno la Norvegia è in zona podio – e se lo merita.
Paesi Bassi
I Common Linnets sono due cantanti di successo (a casa loro) che hanno deciso di unire le forze per lo Eurovision. E con lo Eurovision non c’entrano proprio niente, questi due olandesi con la testa a Nashville. Eppure il loro pacatissimo brano country convince (presentarsi in gara con una canzone vera è già un bonus, in questo contesto) e potrebbe dare più soddisfazioni di Anouk.
Polonia
Donatan è un produttore tamarro, Cleo è una cantante tamarra. È colpo di fulmine pieno di locura. Portano un brano che potrebbero cantare le Little Mix o una girlband coreana ma, dove di solito troviamo un breakdown dubstep, loro inseriscono un intermezzo di musica tradizionale. È la risposta polacca a “Girls (Who Run the World)”: un inno di girl power che celebra le bellezze dell’est e si fa aiutare da un video un po’ pecoreccio ma ironico. Non vinceranno mai, ma almeno ci faranno divertire.
Portogallo
Dopo la pausa di un anno dettata da ragioni economiche, il Portogallo torna in grande stile. Suzy, con un costume rubato a Ballando con le stelle e una banda di percussionisti, porta un pezzo dance con fisarmoniche e influenze brasiliane. È la concorrente in quota Alpitour di quest’anno e non potrà fare molto per migliorare la lunga serie di insuccessi del Portogallo allo ESC.
Regno Unito
Dice che quest’anno si sono impegnati, che “Children of the Universe” è la loro migliore proposta dopo tanti anni di mediocrità. Sarà. Il brano parla del potere della Gente, dell’amore e dell’unione su un arrangiamento ricco, vario e con un beat contemporaneo. È stato scritto apposta per l’occasione, si sente che è stato pensato per un’arena e gli scommettitori gli stanno dando fiducia. Tuttavia, considerando che il Regno Unito è l’unica nazione che potrebbe vincere a occhi chiusi, questa Molly sembra l’ennesimo ripiego. Vabbè, dominate l’industria discografica 364 giorni all’anno: per una serata lasciate giocare il resto dell’Europa.
Romania
La Romania fa il suo bel compitino europop con un duettone tra un cantante dalla voce un po’ anonima e un’urlatrice in vena di key-change. In compenso, fanno un’esibizione futuristica come non ne vedremo mai a Sanremo. Le intenzioni sono buone, ma il risultato e la performance hanno scarso impatto. 
Russia
La Russia arruola due gemelle di 17 anni che fanno musica che nessun loro coetaneo si sognerebbe mai di ascoltare. O forse no, visto che in patria sono delle piccole star con alle spalle una vittoria al Junior Eurovision Song Contest. La canzone è così generica da farci rimpiangere le nonnine panettiere. (PS: come stanno le nonnine? L’hanno poi costruita quella chiesa?)
San Marino
La Vale! La ragazza sta diventando il Daniele Piombi dello Eurovision. E ce la ritroviamo per il terzo anno consecutivo in gara. I fasti di “Facebook Oh Oh Oh” sono lontani.
Slovenia
Allora, lei è Tinkara, canta un po’ in sloveno e un po’ in inglese e il suo selling point, ci fanno sapere, è il flauto traverso. Ah be’, allora siete tutte Emmelie de Forest. Il pezzo non è nemmeno così malvagio, ma se lo scopo di questa guida è dirvi cosa dovete tenere d’occhio, tranquilli, potete saltare questo pezzo senza rimpianti.
Spagna
Ruth Lorenzo è una cantante spagnola trasferitasi in Inghilterra. Lì è diventata “famosa” con X Factor nel 2008. Io quella stagione l’ho pure vista (vinse Alexandra Burke), ma non avevo nessun ricordo di questa Ruth. Eppure arrivò all’ottava puntata! La canzone è rimasta anch’essa al 2008 perché sembra quello che avrebbe potuto scrivere Ryan Tedder per una popstar a quei tempi. Si urla, si fanno le facce intense, si è già in finale, non si vince.
Svezia
Al Melodifestivalen io tifavo per la più divertente “Busy Doing Nothin'” di Ace Wilder, ma bisogna riconoscere che Sanna Nielsen fa il suo dovere alla grande. “Undo” è una ballatona incalzante e intensa prodotta in modo impeccabile. Perché questo sanno fare gli svedesi ed è inutile provare a batterli nel loro sport nazionale.
Svizzera
Sebalter in realtà si chiama Sebastiano e vive nel Ticino. C’ha la faccia simpatica e una canzone simpatica in territorio Rubino-spiritoso incontra Antonio Maggio. C’è un punto in cui canta: “I am so wet, I am dirty”, evidenziando una certa goffaggine con l’inglese. Cliccate con prudenza perché la parte fischiettata non si stacca più dal cervello.
Ucraina
L’Ucraina è tra le super-favorite, peccato solo che Mariya Yaremchuck non porti una canzone bella quanto lei. Il titolo viene da Ke$ha, il testo viene da un generatore automatico di parole d’amore, la musica è un po’ datata (ma nel mondo post-“Get Lucky” potrebbe essere abbastanza datata da sembrare contemporanea). Sarebbe una vittoria che mette d’accordo tutti, e quindi una vittoria un po’ noiosa.
Ungheria
András Kállay-Saunders ha la voce e l’aspetto di una popstar e porta una canzone che avrebbe più chance nelle radio e nelle classifiche britanniche della canzone che portano i britannici. Sembra davvero pensata per la playlist di Radio One, quindi bravi ungheresi. “Running” affronta il tema della violenza domestica e il video è pesantissimo, quindi il cantante si trova nella difficile posizione di portare roba triste a un concorso spensierato. Il suo successo a Copenhagen dipende da come saprà gestire questo equilibrio.

Primavera Sound 2013: giorno 3

primaveraAlla fine non ha piovuto, ma c’era un vento a trenta gradi sotto zero che a tratti come raffiche di mitra disintegrava i cumuli di barbe. I veterani del Primavera dicono di non aver mai subito un tempo simile e, al terzo giorno, il freddo iniziava un po’ a influire sui piani e di conseguenza sull’umore. Ma non ha piovuto, quindi il dito medio verso i festival inglesi possiamo ancora tenerlo alzato.
Per questione di gusti musicali, il terzo giorno si presenta per me meno ricco dei precedenti, ma mi tolgo comunque delle belle soddisfazioni. La prima è vedere Apparat in teatro.
Su Twitter, qualche tempo fa, l’artista tedesco si lamentava delle lamentele ricevute perché a volte chi va a vederlo dal vivo si aspetta un DJ set e si ritrova i violini. Il suo svantaggio è essere un nome che molti ancora collegano solo all’elettronica che si balla; il suo vantaggio è la versatilità, il saper passare da Modeselektor a Gianna Nannini senza perdere un briciolo di dignità. Al Primavera Sound propone Krieg und Frieden, musica commissionata da un festival tedesco per una rappresentazione di, appunto, Guerra e pace. Addio lulz, stasera ci tocca un po’ di cultura.
APPARATIl concerto si tiene nell’Auditori Rockdelux e assistervi significa estraniarsi per un’ora dall’atmosfera festivaliera, sedersi al chiuso e fare le personcine a modo. Lo spettacolo si compone di due parti (40 minuti ininterrotti e poi ancora una quindicina) in cui l’artista, accompagnato da un violino e un violoncello, suona, smanetta e addirittura canta. La sua voce (intonata e sempre adeguata, ma non da cantante professionista) è l’unica, piccola critica che si può muovere a questa pièce. È di grande effetto anche l’aspetto visivo: un gruppo di artisti chiamato Transforma siede in un angolo del palco giocando con diversi materiali (terra, carta, corda…) e il tutto viene ingrandito e ri-proiettato in diretta sullo sfondo.
Accanto a me sedeva un tizio con la maglietta degli Iron Maiden e credo che a un certo punto abbia versato qualche lacrima. Va’ tranquillo, tizio con la maglietta degli Iron Maiden, il tuo segreto è al sicuro con me.
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Toh, i Crystal Castles, un gruppo che non vedevo dal loro esordio e che riesce perfino a farmi venire nostalgia di MySpace. Non che siano cambiati molto dal 2008, eh, ma è incredibile come un gruppo nato dalle ceneri dell’electroclash riesca ancora oggi ad avere un pubblico così trasversale da garantire loro l’accesso a festival in cui, musicalmente, non c’entrano molto. Il trucco è sempre lo stesso: Alice lancia urla disperate o sussurra con filtri robotici, e il concerto è una sequenza uniforme di canzoni molto simili tra loro in cui spiccano solo i due singoli storici (“Alice Practice”, “Crimewave”) e “Not in Love” (che senza Robert Smith quasi non ha senso). CRYSTAL-HOTCHIPEppure, la formula è così collaudata che funziona, soprattutto per chi ha voglia di ballare un’ora sotto il bellissimo palco Ray-Ban – magari pensando a quanto eravamo ingenui ai tempi di MySpace.
L’ultimo concerto (escludendo qualche DJ set per gli insonni più ostinati) spetta ai Hot Chip. Non potrebbe esserci conclusione più azzeccata: il gruppo è forse il nome più pop del cartellone e, in una serata di cupi headliner (Nick Cave, My Bloody Valentine), la loro spensieratezza è molto gradita. Io che li vedo per la prima volta, mi accorgo improvvisamente della quantità di singoloni pazzeschi che hanno tirato fuori negli anni e di come nessuno resti indifferente ai loro ritornelli ossessivi e un po’ cretini (“Do it do it do it do it do it now”, “Over and over and over and over”, “Night and day night and day…”). Non è un concerto indimenticabile e la voce e la presenza scenica di Alexis Taylor non sono sempre all’altezza del numero di persone che devono intrattenere, ma ci si diverte moltissimo e si usano tutte le poche energie rimaste per gli ultimi minuti dell’edizione 2013.
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Per il 2014 è stato annunciato (su un megaschermo nell’attesa del concerto di Nick Cave) il primo gruppo headliner: Neutral Milk Hotel. L’indifferenza generale attorno a me al momento della rivelazione lascia forse intendere che gli organizzatori non dovrebbero puntare troppo su un’altra reunion come attrattiva principale. Ma è anche vero che un cartellone come il Primavera, nell’Europa continentale, non ce l’ha nessuno e si può benissimo vivere un bel festival evitando tanti grossi nomi. Non credo ci sia un’altra persona ad aver visto il mio stesso Primavera e la mia stessa combinazione di artisti, e il fatto che i palchi non siano divisi per genere permette di avere accanto un pubblico sempre diverso e tendenzialmente onnivoro. Ci si vede l’anno prossimo. Non vedo l’ora di intasarvi nuovamente il feed con foto della ruota panoramica.

Primavera Sound 2013: giorno 2

primaveraInnanzitutto, sappiate che giovedì al Primavera Sound 2013 si è sfiorata la tragedia. Un membro degli One Direction è stato infatti avvistato nel pubblico del festival, dando credito ai tanti tweet di gente che pensava di avere avuto allucinazioni a forma di Harry Styles. Le fan forse erano a già a dormire o forse per una volta il loro servizio di intelligence ha fallito, ma è un vero miracolo se non siamo stati calpestati da una mandria di directioner urlanti (volendo, avrebbero potuto attaccare il festival pure dal mare!) in cerca del loro idolo. Ieri sera, invece, non è stata avvistata nessuna boyband, nonostante i bookmakers dessero praticamente per certo Nick Carter nel pubblico dei Neurosis.
E ora, i concerti della giornata.
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SOLANGEÈ da pigri iniziare col solito paragone, ma proprio mentre Beyoncé gira il mondo con l’ennesimo, pirotecnico tour, Solange sale sul Pitchfork stage di Barcellona. Il suo è un altro tipo di regalità: quella che mette al centro le canzoni. Ma è un impero altrettanto rigido: se Solange ti chiede di spegnere fotocamere e cellulari, tu lo fai; se Solange ti chiede di cantare con lei “PAH-PAH-OOH”, tu lo fai; se Solange ti chiede di ballare, tu lo fai – vergognandoti un po’ perché dal palco il suo stilosissimo complesso ti vede.
La sorella di Mazinga si presenta con una giacca verde fosforescente e propone i brani del nuovo repertorio scritto e prodotto con Dev Hynes. Ognuno di questi ha un balletto coordinato e suona più ballabile della versione album, ma la voce è leggera e misurata quanto i beat. L’unica pecca è un repertorio ancora troppo limitato (solo un paio di pezzi del suo passato, riarrangiati, compaiono in scaletta), ma c’è ragione di pensare che quando arriveranno un album e un tour vero e proprio, Solange diventerà la popstar globale che merita di essere. Per ora, la sua esibizione è la più quando-ti-ricapita del cartellone, ma fate in modo che vi capiti presto.
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Due sono le critiche che si sentono più spesso su James Blake: è noioso ed è freddo. Sulla prima, non ci si può fare molto: è questione di orecchie; sulla freddezza, si può invece discutere, soprattutto dopo aver visto centinaia di persone ondeggiare (o addirittura scatenarsi) sui suoi profondissimi bassi. Dal vivo, James dà molto peso alle sue radici (post)dubstep e gli spazi sono meno rarefatti. In alcuni casi, ha un approccio quasi aggressivo nel rivisitare i suoi stessi pezzi per adattarli al contesto live; JAMESBLAKEin altri, trova il modo di lasciarli quasi intatti, ma valorizzando gli elementi ritmici e lasciando più in ombra le tastiere. Io me lo sono goduto tantissimo senza mai annoiarmi – come potrebbe suggerire questa luna piena con piano.
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HOWTOÈ appena passata l’1 e mi trasferisco verso il palco di Vice. La vicinanza fisica al logo della testata mi dà l’immediato potere di aggiornarvi sui DOs and DON’Ts della serata. DO: scegliere il palco più vicino al mare; DON’T: scegliere il palco che attrae più folla; DO: ascoltare How To Dress Well; DON’T dare corda a un gruppo che tanto non si scioglie. Tom Krell arriva conscio dell’orario assassino che gli è stato assegnato e scherza: “We’re not called Blur”. Ci sono al massimo duecento persone a vedere il suo semplicissimo set: un violino, due laptop, due microfoni (uno normale e uno con un riverbero infinito, che alterna con particolare effetto nella dialogica “Talking To You”). Emozionato, ma consapevole del miracolo che è la sua voce e di ciò che può fare, Tom decide di testare (per la prima volta, dice) alcune novità sul finale: un inedito scritto a Ibiza che interpreta a suo modo la dance (!) e una cover di “Again” di Janet Jackson. Molto più tender di qualsiasi cosa si sia ascoltato dall’altra parte del Forum (perdonatemela).
Howto
Chi sceglie i The Knife al Primavera ha un lusso: sa già a cosa va incontro e non ha pagato un biglietto per vedere solo loro (io, dopo tre concerti stupendi in sei ore posso già dirmi soddisfatto della giornata). Si parte prevenuti dopo le recensioni del tour lette negli ultimi mesi e sappiamo che non c’è da aspettarsi un concerto rock suonato, uno spettacolo pop patinato o un DJ set. Assistiamo invece a qualcosa di unico che è al contempo un rave, un rituale massonico, una TV sintonizzata sugli anni ’80 e un saggio di danza delle elementari. Da lontano, lo spettacolo è davvero divertente e alla fine di ogni pezzo viene da chiedersi quale idea stupida o geniale (a seconda dei punti di vista) sfrutteranno per il successivo. knife-disclosureMa la vera differenza la fanno i megaschermi perché un’ottima regia riprende quei dettagli che gli spettatori del tour non hanno forse avuto modo di notare. Ancora una volta, dare un giudizio definitivo sui The Knife è impossibile ma, come ho già detto nella recensione dell’album, con loro bisogna stare al gioco.
Sono le 4.30 e mi avvicino con stanchezza e curiosità (ma più stanchezza) al Pitchfork stage per i Disclosure. Mi aspettavo un ordinario DJ set perché (sbagliando) li consideravo solo produttori. Invece, i due fratelli inglesi alternano computer e strumenti. E cantano. Una bella sorpresa che li rende in qualche modo più appetibili: forse la presenza di vocalist nei singoli era più dettata dal marketing che dall’effettivo bisogno di aiuto. “F For You”, per esempio, dimostra come ce la facciano anche senza ospitare le belle voci di Eliza Doolittle o Aluna. Resterei volentieri per sentire in anteprima i pezzi del loro primo album (in uscita a giugno) ma sono le 5 e là fuori c’è pieno di tassisti con cui devo litigare.

Primavera Sound 2013: giorno 1

primaveraSono solo le 12 del primo giorno quando è chiaro che il Primavera Sound 2013 ha già un vincitore, almeno nella categoria indie-ironia al festival: il batterista degli argentini Go Neko! suona con una maglietta di American Idol. Il gruppo è il primo di una lunga serie a esibirsi nella terrazza dell’hotel Diagonal Zero per il pubblico del PrimaveraPro, evento parallelo per addetti ai lavori con conferenze sul settore. Da bravo secchione, faccio in tempo a vederne un paio. La migliore s’intitola “Welcome to the music industry: you’re fucked” ed è tenuta da Martin Atkins, musicista (PiL, NIN) diventato accademico non tanto grazie all’originalità dei suoi insegnamenti quanto per la sua bravura nel proporli in formato stand-up comedian. Tant’è vero che dimentico di stare ascoltando banalità sull’importanza dei social e i dischi paga-quanto-vuoi.
Poco dopo, si va a dare un’occhiata alla delegazione italiana: Foxhound, Blue Willa, honeybird & the birdies. Questi ultimi, già visti al Primo maggio, sono quelli che ne escono meglio e con cui ci si diverte di più (non solo a causa dei costumi e la tropicalizzazione improvvisata del palco). SavagesSAVAGES1Bel colpo, per il Primavera Sound, aver puntato sulle Savages in tempi non sospetti. Fresche di un album nella top 20 britannica, le quattro ragazze arrivano alle 19.30 sul palco di Pitchfork (e dove, se no, dopo quell’8.7?) con grande sicurezza per poi piegarsi a metà set a causa di un problema tecnico che mette fuori uso la chitarra. Il pubblico, fino a quel momento non troppo partecipe, si scongela per incoraggiare le tre rimaste, che si arrangiano come possono sullo stesso giro di basso per più di dieci minuti. Un vero peccato, perché meritano davvero molto dal vivo.
Dopo aver fatto finta che me ne fregasse davvero qualcosa dei Tame Impala oltre a quel carro armato di “Elephant”, mi rimetto a correre lasciandomi dietro il gruppo e i loro visual: “psichedelia anni 70” diranno loro, “salvaschermo Windows 95” dirò io. In realtà, sono molto in anticipo e riesco a posizionarmi in prima fila per Jessie Ware. Il grosso del pubblico arriverà a concerto iniziato e non se ne pentirà. Come avevo già avuto modo di scoprire l’anno scorso guardando qualche festival (in streaming), la Jessie Ware sul palco non ha molto in comune con la Jessie Ware su disco. In Devotion (e nei video di Kate Moross che lo promuovono), la cantautrice è una diva altezzosa, irraggiungibile, che canta in modo controllato e delicato; dal vivo, è calorosa, coinvolgente e dà gran sfoggio della sua potenza vocale. La raffinatezza del disco è stravolta e l’assetto della band che l’accompagna (un tradizionale basso-chitarra-batteria) contribuisce ad adattare i brani al contesto del festival. E la diva al tempo della crisi, forse non potendosi permettere coriste, usa cori registrati che attiva lei stessa dal sequencer. Si diverte, scherza (prima di “110%/If You’re Never Gonna Move” e “Imagine It Was Us”, JESSIEWARE1avverte: “ballate ora perché sono i due unici pezzi movimentati del mio repertorio”) e il pubblico, che la vede arrivare per la prima volta in Spagna, la accoglie cantando i testi a memoria con le dita puntate al cielo. Valeva la pena volare fino a Barcellona anche solo per lei.
JessieWare
Di nuovo Heineken stage per i Postal Service. Se Gibbard e Tamborello non si fossero fermati a un album nel 2003, sarebbero tra gli headliner a un festival nel 2013? Si potrebbe fare un paragone con Arrested Development, serie TV iniziata negli stessi anni che lunedì tornerà con nuovi episodi dopo aver raggiunto lo status di cult anche a causa della sua cancellazione. Ma a differenza di Arrested Development, Give Up non è invecchiato granché bene: come accoglieremmo oggi un album con testi tanto naïf sul surriscaldamento globale e il perfetto allineamento delle lentiggini di due amanti mentre si baciano? Eppure, anche incolpando la dilagante nostalgia, i Postal Service con Jenny Lewis postalservicedal vivo ti stampano un sorriso idiota in faccia. Anche il nuovo materiale (la mediocre “Tattered Line of String”) e i brani meno memorabili come “Recycled Air” sono eseguiti e accolti con emozione e trasporto. Per “Such Great Heights”, invece, consultare la voce “incontenibile gioia del trentenne occidentale medio”.Phoenix
phoenixI Phoenix sono un gruppo di cui non ho avevo mai capito l’appeal. E a chi mi diceva “devi vederli dal vivo!”, rispondevo che li avevo già visti: suonarono a un festival italiano dopo (o forse addirittura prima) dei Baustelle dello yé-yé. Però, sono passati quasi dieci anni e ora i Phoenix hanno canzoni che possono buttare giù le arene (la migliore del nuovo disco, “The Real Thing”, sembra avere proprio questo scopo) e le eseguono con una precisione impressionante. Non c’è una sbavatura, è un concerto pop grosso di un gruppo all’apice della fama che può fregarsene del minimalismo e dell’umiltà (però, seriamente, il visual con la cartolina di Versailles potevano evitarselo). Ora, se non avessi a cuore il mestiere degli addetti alla sicurezza, mi sarei messo a urlare “ZOMG LOOK DAFT PUNK ARE HERE”. Ma non voglio causare stampede. I robot non si presentano (e perché mai dovrebbero, poi) e dopo dieci minuti di Four Tet dal lato opposto del parco, mi arrendo. Sono le 3 del mattino.