San Marino allo Eurovision Song Contest: chi sta trollando chi?

A contrario dell’Italia, che fa parte delle “Big Five” e si qualifica direttamente alle finali dello Eurovision Song Contest con Nina Zilli, la Repubblica di San Marino deve ancora superare lo scoglio delle eliminatorie del 24 maggio per accedere all’evento principale. Il pezzo scelto si chiama “Facebook Uh Oh Oh”, è composto da Ralph Siegel (un produttore che nel suo curriculum ha praticamente solo canzoni dello Eurovision) ed è interpretato da Valentina Monetta. La cantante è sammarinese, ha 37 anni e chiamate il signor Getty perché, se le va male con la musica, ha un futuro roseo nel mondo delle immagini di stock. È stata selezionata per rappresentare lo stato autonomo da Carmen Lasorella, che dal 2008 è Direttore Generale ed Editoriale di San Marino RTV. Ora che sappiamo tutto quello che c’è da sapere, guardiamo il video.

Ho molte domande dopo la visione di questa clip, ma l’unico modo per avere delle risposte è partire dalle basi e valutare tutte le opzioni. Propongo quattro scenari possibili:

1. Valentina Monetta è un troll, è una Rebecca Black studiata a tavolino. Il video è stato girato per sembrare un’opera con intenzioni professionali e risultato amatoriale. Il trash è voluto, l’obiettivo è creare un fenomeno virale.

2. Il compositore Ralph Siegel e gli autori Timothy Touchton e José Santana Rodriguez (buona fortuna a scovare questi due su Google) sono dei troll. Hanno scritto e composto questa canzone per ridere, ma l’hanno proposta ai sammarinesi con la faccia seria, e questi ci sono cascati. Insomma, è uno scherzo andato troppo lontano di cui la Repubblica non si è ancora accorta di essere vittima.

3. Carmen Lasorella è un troll e si è infiltrata nella TV sammarinese col compito di distruggerla dall’interno. Ha inoltre preso dei soldi da Nina Zilli per non offrire rivali valide.

4. Non c’è nessun troll. Qualcuno crede veramente che Valentina Monetta e il suo video siano un’offerta moderna, colorata, fresca, orecchiabile, internazionale. Ai giovani piace Facebook! Facciamo un pezzo su Facebook: sarà un successo! È, insomma, una scelta incompetente.

Il quarto scenario è di gran lunga il più inquietante, ma anche quello più vicino alla realtà. La prova è questo video della presentazione ufficiale.

Tralasciando il suo motto “se non canto invecchio”, se qualcuno sta prendendo in giro qualcuno, è tutto molto, troppo elaborato. Sono tutti serissimi, ma nel modo sbagliato. Perché lo Eurovision è una cosa seria, o almeno dovrebbe esserlo per chi lavora con la musica in Europa. Mi rivolgo a voi, discografici d’Italia, e ve la metto giù facile facile: con lo Eurovision si possono fare i soldi. Dovreste fare a gara per guadagnarvi un posto a una manifestazione vista da centinaia di milioni di persone. Dovreste andare a occupare San Marino supplicandoli di darvi quell’opportunità. Dovreste prendervi a botte anche solo per apparire con un embed nel sito dello Eurovision (il video di Valentina Monetta in un giorno ha guadagnato 20.000 visite e ogni volta che faccio refresh salgono vertiginosamente). Senza scomodare i cantanti che vendono già, avete i cassetti pieni di canzoni e interpreti, ex talent o vecchie glorie che non aspettano altro di salire su un palco che fa più telespettatori di un SuperBowl. Mal che vada, vi portate a casa qualche download dalla compilation ufficiale e qualcosa da scrivere sui comunicati stampa.

E invece no. “Facebook Uh Oh Oh.” Abbiamo qui un progetto ideato e confezionato così male da fare sperare che si tratti di uno scherzo.

UPDATE 19/03: La commissione dello Eurovision ha squalificato “Facebook Uh Oh Oh” perché pubblicizzerebbe un prodotto. Entro venerdì 23 marzo, San Marino può decidere se modificare il testo o inviare un nuovo brano. Nel frattempo, il video ha raggiunto 82.000 visite.

UPDATE 22/03: L’allarme è rientrato (si fa per dire). La nuova versione della canzone s’intitola “The Social Network Song (Oh Oh – Uh – Oh Oh)”. Ma ci starà in metrica?

Nina Zilli, 110 e lode

NinaZilliNina Zilli è laureata allo IULM in Relazioni pubbliche con specializzazione in Consumi e pubblicità. In un’intervista a Vanity Fair di qualche settimana fa, avrebbe descritto così il suo corso di laurea: “in pratica aria fritta o, come dico io, stronzologia”.

La non non-notizia aveva schivato il mio radar finché non ho visto spuntare nella mia timeline il link a una nota ufficiale dello IULM: il Magnifico Rettore è offeso dalle parole di “Maria Chiara Fraschetta in arte Nina Zilli professione cantante” e minaccia di querelare lei e Vanity Fair.

Nel rammaricarsi che la signora Fraschetta giudichi inutili (‘aria fritta’) i suoi studi accademici e denigri il titolo di studio da lei conseguito il Rettore, professor Giovanni Puglisi, rende noto che l’Università IULM, ritenendosi parte offesa ha deciso di sporgere querela per tali infamanti affermazioni nei confronti della stessa signora Fraschetta e della testata che le ha riportate.

Se un corso di laurea crede nel proprio valore non si cura di certo del parere di Nina Zilli, e querelare la testata che, si suppone, abbia solo riportato le parole del personaggio, poi, è pura fantascienza. Ma soprattutto dietro quel comunicato traspare la convinzione che il parere della cantante possa veramente costituire pubblicità negativa, spostare le iscrizioni, muovere le masse, cambiare l’orientamento accademico di confusi liceali.

Il risultato è che poche righe di un’intervista, settimane dopo la pubblicazione, hanno avuto un’eco sproporzionata (tra l’altro, più che un attacco sembrava una boutade) e hanno fatto luce sulle loro debolezze in campo comunicativo. Nina Zilli, invece, tra Sanremo e lo spettacolo di Panariello, ha piazzato due interviste altamente virgolettabili – una su un maschile (Max), una su un femminile (Vanity Fair).

Vuoi vedere che l’alunna ingrata alla fine un paio di cose sui meccanismi della comunicazione le ha imparate?

Madonna: l’immacolata traduzione

In questi giorni  di campagna promozionale di Madonna, tra mille dichiarazioni, interviste e finte jihad contro Lady Gaga, si è letto di tutto. Ma oggi esce una notizia che sembra quantomeno strana: Madonna ha insultato (o forse solo lanciato una frecciatina a) Britney Spears. Buffo. Magari è il caso di andare a cercare cos’ha detto la diretta interessata, magari in inglese.

Madonna, intervistata da The Advocate, sostiene che il pubblico gay trovi un modello in Lady Gaga perché non rientra nei canoni convenzionali e ha un passato difficile. Ci sono molte cose contestabili in questa affermazione, ma non entriamo nel merito e limitiamoci ad analizzare le parole da lei pronunciate.

I can see that they connect to her kind of not fitting into the conventional norm. I mean, she’s not Britney Spears. She’s not built like a brick shithouse. She seems to have had a challenging upbringing, and so I can see where she would also have that kind of connection.

Ora, built like a brick shithouse non è inglese da liceo e non è un’espressione particolarmente felice né comune, ma con un po’ di impegno ci si può arrivare. Dicesi built like a brick shithouse una persona grande e grossa, forte e robusta. (Tuttavia, secondo alcuni, vorrebbe anche essere un complimento a una bella ragazza perché un tempo le latrine erano in legno… Per chi volesse approfondire, basterà la definizione su Wiktionary; per i più esigenti, tenete, vi ho fatto uno screenshot dal Dictionary of Catch Phrases della Routledge). Insomma, per estensione, Madonna vuole dire che Britney ha basi solide (urca!), mentre Gaga è più fragile e vulnerabile. E soprattutto, nessuno ha insultato nessuno.

Andiamo a vedere com’è stata riportata la notizia su vari siti italiani.

Vanity Fair sceglie (saggiamente) di non tradurre per intero la citazione e saltare la shithouse.

Cioè, non è Britney Spears. Ha avuto un’adolescenza difficile […]

Quelli di MTV.it sono già più fantasiosi, ma si tengono sul vago e non ci ricamano troppo sopra.

Cioè, non è Britney Spears. Lei non è ‘costruita’.

Spetteguless inizia a porsi qualche domanda sull’espressione idiomatica e preferisce non tradurla, ma offre due opzioni: “bella tettona” e “cesso a mattoni”.

Voglio dire, non è Britney Spears. She’s not built like a brick shithouse (slang uk che può passare sia come complimento – bella tettona – che come clamorosa offesa – cesso a mattoni).

E ora che ci avviciniamo pericolosamente ai gironi dei nanopress, vi avverto, tutto può succedere. Cosmomusic, ripreso poi da Paperblog, riassume liberamente con il titolo “Madonna: ‘Britney Spears è meglio di Lady Gaga'” e adotta una curiosa variante sul tema edilizio.

Sì, voglio dire, non è Britney Spears. Lei non è costruita come il mattone di una casa.

E infine, quelli di I Love Popmusic si sbizzarriscono e ci regalano la perla definitiva.

Voglio dire, lei non è Britney Spears. Lei non è una schifezza (cesso) costruita di mattoni.

La stessa traduzione finisce poi su Musickr che titola direttamente: “Madonna: ‘Britney Spears è un cesso'”.

Tutto questo è solo la punta dell’iceberg, che è in gran parte costituito da commenti e link su Twitter e Facebook. Una frase un po’ ambigua che confonde anche gli anglofoni è stata tradotta in maniera fantasiosa o superficiale, e il risultato è un’altra battaglia in una guerra immaginaria tra popstar che serve solo a portare tanti clic.

“Ai se eu te pego”: hit non anglofone in classifica

In questo preciso istante, la canzone “Ai se eu te pego” di Michel Teló è nella top 10 di iTunes in undici paesi europei. In nove di questi è alla posizione numero uno. Non è, come pensavo prima di guardare le classifiche, una mania tutta italiana: “Ai se eu te pego” è un tormentone internazionale.

Pensate cosa deve rappresentare quel pezzo per il discografico medio. Uno passa la vita a cercare l’artista giusto per fargli fare il disco, la copertina, il festival, le interviste, il video e il tour giusti. E l’acconciatura giusta, i vestiti giusti, le gravidanze giuste, i pettegolezzi giusti e tutti i dettagli che l’ascoltatore non noterà mai, ma dietro ai quali ci sono mesi di preparazione. Poi dal nulla arriva uno con un budget poco sopra lo zero (e quelle camicie) e grazie ai balletti di un paio di calciatori schizza alla numero uno in mezzo mondo. “Ai se eu te pego” è il suono di mille discografici che si buttano dal cornicione.

Io sono uno che si rallegra quando un prodotto non anglofono ha successo internazionale ed è una cosa che ripeto ogni volta che c’è una cerimonia di premiazione, ma dando un’occhiata alle classifiche, non sono sempre buone notizie. La tabella mostra le canzoni non in inglese o in italiano che hanno raggiunto la prima posizione in Italia dal 2000 a oggi.

Qualche considerazione:

  • Negli ultimi dodici anni, solo quattordici canzoni non in inglese o in italiano hanno raggiunto la vetta. È un po’ poco, ma…
  • ..eccetto “Le vent nous portera”, sono tutte canzoni che vanno da ok a orrore inspiegabile. Quindi, l’unica canzone veramente bella è stata scritta da una persona condannata per omicidio.
  • (A me piace molto “Alors on danse”, ma so di dire qualcosa di molto impopolare e difenderò questa canzone in un’altra occasione.)
  • Eccetto Jennifer Lopez (che era già famosa da molto prima per canzoni in inglese) e Manu Chao, si tratta solo di one hit wonder. Il caso più eclatante sono le Cinema2, di cui si fa fatica a trovare traccia persino su YouTube.

Casi umani a X Factor: per me è no

Siamo alla seconda puntata delle selezioni di X Factor 5 e quest’anno i provini si tengono davanti al pubblico in palazzetti dello sport e non in uno studio chiuso. Questa sembra essere la prima di tante piccole correzioni che renderebbero il programma italiano più simile all’originale britannico. E non è necessariamente un bene.

X Factor UK, col passare degli anni, ha perfezionato la formula in maniera infallibile. Il format funziona e non si cambia, ma si può sempre ritoccare il contenuto. Accantonata l’idea di trovare le popstar del futuro (dopo il successo iniziale, quasi tutti i concorrenti vengono in genere licenziati dalle etichette coi flop del secondo album), a X Factor interessano gli ascolti televisivi e le attenzioni della stampa. La musica non si vende più, l’intrattenimento leggero e la storia strappalacrime sì. Ed ecco quindi che i fenomeni da baraccone e i casi umani non solo vengono ammessi alle selezioni, ma hanno anche accesso alla gara. Del resto, di ragazzine che sanno imitare Aretha Franklin ce ne sono a centinaia, mentre di donne di mezza età in minigonna che mettono le cosce in faccia a Gary Barlow in primetime un po’ meno; le prime non fanno audience, le seconde sì.

Non c’è da stupirsi se qualcuno paragona la visione del programma alle gite al manicomio nel XVIII secolo. A voler cercare concorrenti sempre più fuori di testa, infatti, X Factor UK (e Britain’s Got Talent e American Idol) hanno più volte pestato il merdone. L’anno scorso, Shirlena Johnson ha lasciato lo show perché mentalmente instabile; quest’anno, Ceri Rees si è presentata per la quarta volta alle selezioni e le sono stati dedicati sette lunghissimi minuti di screentime fino all’inascoltabile esibizione che l’ha rimandata a casa. Il caso della Rees è stato oggetto di un acceso dibattito perché non solo era la sua quarta partecipazione davanti alle telecamere, ma questa volta era stata perfino invitata dalla redazione al grido di “è la tua grande occasione”. Fortunatamente, davanti all’interminabile umiliazione della gattara 54enne, il pubblico ha detto basta.

È comprensibile che il programma voglia strappare qualche risata, ma nessuno è più così ingenuo da non individuare immediatamente i concorrenti destinati al LOL. Non stiamo parlando di gente come le Yavanna o Nevruz, che possono far sorridere per la loro eccentricità, ma sanno cantare. Se sei strambo e stonatuccio e arrivi davanti ai giudici dopo numerose fasi di selezione, hai abboccato (e abbiamo abboccato anche noi che ti facciamo diventare trending topic, Fiocco di Neve). Se sei stonato a quei livelli e pensi veramente di avere un futuro nella musica, la circonvenzione di incapace è dietro l’angolo.
(E allora la Corrida? Ci vuoi dire che Corrado sfruttava le persone fragili? Un attimo, il sottotitolo della Corrida era “dilettanti allo sbaraglio”: di talento se ne vedeva poco. Era una sagra paesana coi vecchietti che cantavano le canzoni in dialetto e le signore che battevano le pentole e i campanacci nel pubblico. Tra un “Vitti ‘na crozza” suonato con le ascelle dal pensionato e Un Contratto Con La Casa Discografica Più Importante Al Mondo c’è un po’ di differenza.)

Ma se X Factor 5 non sembra ancora aver giocato quella carta, ha già imparato la lezione del format originale sui casi umani. (Facciamo partire Adele come sottofondo.) Le Lallai  “sono sorelle e non si parlano da anni, ma si sono incontrate sul palco di X Factor. Be’, innanzitutto, CHE BELLA COINCIDENZA. E poi, che brutto, non si fa, la famiglia prima di tutto! Ventura e Morgan individuano subito il caso umano e forzano la riconciliazione via duetto: come soliste no, ma in coppia in sì. E nessuno che dica loro: “ma fatevi un po’ i cazzi vostri”. Manca solo il bus di Stranamore guidato da Rossella Brescia vestita da postina per completare il crossover. Venerdì sera, le Lallai si sono quindi presentate come duo e, be’, “l’esibizione è segno di un legame molto forte che dovreste rivedere” (Arisa), “quello che non vi dite da anni, ve lo siete detto con la musica, vi state sfidando con la vocalità!” (Morgan), “anch’io ho una sorella: tutto è risolvibile” (Ventura), “siete troppo brave, fate la pace! ” (delle signore fuori dal palazzetto), “No” (Elio).

Ecco, grazie Elio: NO. Se questa è la piega che gli autori hanno deciso di prendere per questa edizione, si spera siano in tempo per ripensarci. X Factor è uno degli ultimi baluardi di musica in televisione ed è una bella gara da seguire. Il pubblico che attira è diverso da quello di Amici e, se la timeline di Twitter può insegnarci qualcosa, la deriva defilippica non è piaciuta a nessuno. Alla quinta stagione e con una grossa opportunità per cambiare, il programma può scegliere se diventare l’ottimo talent show che a tratti abbiamo già conosciuto o l’ennesima collezione di RVM lacrimogeni. Sapete cosa dovete fare.

Star Academy: per me è no

Ci sono diverse ragioni dietro al successo di X Factor e una di queste è la struttura. È un programma con un format solido, chiaro, che sa mettere in risalto concorrenti e giudici e sa creare la tensione nei momenti giusti.

Ci sono diverse ragioni dietro al fallimento di Operazione Trionfo e una di queste è la struttura. Il suo nuovo reboot Star Academy, per differenziarsi da X Factor, ha accentuato i problemi di un format datato e ormai superato in molti paesi.

Innanzitutto, 16 concorrenti sono troppi. Ce li hanno presentati con brevi profili degni di The Club in cui, giustamente, non sapevano cosa dire. Non è neanche colpa loro: chiunque sembrerebbe ridicolo in una stanza dai colori acidi a spiegare cosa significa per te la musica. Ne escono delle perle incredibili come: “Le canzoni per me sono come le ciliegie, la musica è una ciliegia” (quello che vogliono far passare per eccentrico otaku con l’eye-liner); “Mi piace masterizzare” (quello che vogliono far passare per geek); “Mi piace il mondo gotico” (quella che vogliono far passare per emo). Poi una ha confessato che Biagio Antonacci è il suo cantante preferito ed è scattata la tolleranza zero.
Ad aumentare la confusione, il fatto che – a parte due minorenni sull’orlo del Jessicabrandogate – si tratta solo di ventenni di bell’aspetto. Niente Giops, Yavanna o Farias, che non erano certo le proposte discografiche più allettanti, ma aggiungevano una nota di colore e varietà.

Il secondo problema – grossissimo e probabilmente irreparabile – è la formula dei medley. Ci sono 16 sconosciuti che cantano pochi secondi a testa di troppe canzoni senza averle preparate. Finisce la serata e non si è capito chi è chi, chi ha potenziale, chi ci potrebbe piacere. In compenso, abbiamo sentito una decina di attacchi sbagliati e tanto tanto controcanto. Inoltre, alle esibizioni mancano il kitsch, l’ironia e la locura che – diciamocelo – hanno fatto la fortuna di X Factor. Insomma, MANCA TOMMASSINI.

E infine, chi giudica non ha motivi per salvare questo o quel cantante – una formula perfetta se fossimo in tribunale, ma quando si tratta di spettacolo, funziona meglio aggiungere alla ricetta gli interessi personali dei giudici. Non c’è tensione, non c’è attesa, non c’è dibattito. Un piccolo screzio tra Mietta e Vanoni non sazierà certo la sete di polemiche dello spettatore.

Oltre a questi problemi strutturali, l’esecuzione è stata ancora più disastrosa. Facchinetti dopo cinque anni ha imparato a condurre un talent, ma qui non ha nulla da condurre: una voce fuoricampo potrebbe tranquillamente prendere il suo posto. Il resto del cast non aiuta: Savino non ha spazio per aggiungere qualche commento vagamente divertente, Roy Paci è Roy Paci, la Cuccarini ride in maniera isterica senza motivo cercando una co-conduzione che non può avere. L’unica speranza è Ornella Vanoni, che ha un indiscusso potenziale Maionchi ancora tutto da sfruttare.

Sai che il tuo programma ha un problema quando l’unica ragione per guardarlo è vedere un’anziana un po’ svampita che non sa usare il telecomando del voto e urla: “ho un calo glicemico” e “mi scappa la pipì”.

Tatangelo, torna qui, è tutto perdonato.

Il suono dell’11 settembre

Per il secondo anniversario dell’11 settembre, MTV Italia e Saatchi & Saatchi crearono una campagna memorabile e riuscitissima fermando la musica per 1 minuto e 11 secondi.

Ovviamente la musica non si fermò con l’11 settembre, per quanto, nei giorni successivi all’attacco, il gigante della radiofonia americana Clear Channel distribuì alle sue 1.200 emittenti una lista di 165 canzoni da non trasmettere. Non è ancora ben chiaro quanto fosse ufficiale questa lista né se costituisse un divieto o solo un consiglio, ma se ne parlò molto. Era un momento in cui chi si occupava d’intrattenimento sentiva la pressione di non poter intrattenere, e in cui ogni altra notizia sembrava frivola e inopportuna. Quella surreale lista di canzoni pop vietate dalle radio diede materiale a chi non scriveva di cronaca, ma voleva/doveva infilare l’11 settembre in un articolo. Un po’ come sto facendo io adesso.

Il memo dei 165 pezzi banditi vale la pena ripassarlo. Includeva testi o titoli in cui si parlava di volo (“Learn to Fly”, Foo Fighters), aeroplani (“Aeroplane”, RHCP), razzi (“Rocket Man”, Elton John), catastrofi e incendi anche se metaforici (“Disco Inferno”, The Trammps) ed eventi sanguinosi del tutto scollegati (“Sunday Bloody Sunday”, U2).

E “Walk Like An Egyptian” delle Bangles.

C’è sempre qualcuno che potrebbe offendersi e chi si offende perché qualcuno ha pensato che qualcun altro sia così stupido da potersi offendere. Con una pressione del genere, gli artisti sono stati molto cauti nei loro omaggi all’11 settembre. Pur trattandosi dell’evento più importante della storia contemporanea, è difficile nominare anche solo una manciata di canzoni sul tema. Escludendo i prevedibili tributi per beneficenza e la retorica di alcuni esempi di country patriottico, sono relativamente in pochi a averne scritto in maniera esplicita. Nessuno vuole essere accusato di sfruttare una tragedia per vendere compact disc.

Tra i rari esempi degni di nota figurano: la struggente ma piuttosto astratta “Harbour” di Moby con Sinéad O’Connor; “Hunting for Witches” dei Bloc Party (sebbene sia arrivata nel 2007 e parli soprattutto degli attachi di Londra e l’atteggiamento dei media); la ritardataria lettera aperta dei Beastie Boys; l’inevitabile omaggio springsteeniano di “The Rising”; “911”, violenta e confusa reazione a caldo registrata il 12 settembre 2001 da Gorillaz e D12.

Decisamente più complesse le riflessioni sull’identità americana in due album agli antipodi: Scarlet’s Walk (2002), l’estenuante viaggio di Tori Amos alla scoperta delle radici del Paese, e American Life (2003), l’album più politico e sottovalutato di Madonna che, abbandonata ogni speranza di poter dire qualcosa di serio senza essere criticata, dovette poi risollevare la promozione del disco con due baci saffici.

E infine, lo strano caso di uno sconosciuto chiamato Ryan Adams, il cui singolo d’esordio diventò uno degli inni per eccellenza in maniera del tutto involontaria. Il video di “New York, New York”, uscito con strano tempismo il giorno degli attacchi, era da intendersi come un omaggio a Friends, riprendendo la skyline della città come nella sigla della serie. I discografici decisero di non ritirarlo e diventò la canzone perfetta per tutti i canali che non sapevano più cosa programmare.

Esattamente dieci anni fa, una cantante inglese bloccata a Washington riceveva una telefonata. Mentre guardava il Pentagono in fiamme dalla finestra di una camera d’albergo, le annunciarono che aveva vinto il premio musicale più prestigioso del Regno Unito per un suo album, Stories from the City, Stories from the Sea. Martedì scorso, quel premio, PJ Harvey l’ha vinto per la seconda volta con Let England Shake, un album di guerra nato in parte dalle testimonianze dei soldati in Iraq e Afghanistan – chiudendo un ciclo. Si può sospettare che, oltre agli indiscussi meriti musicali e il valore politico dell’opera, il Mercury Prize le sia stato nuovamente assegnato per creare una notizia. È una bella storia, in effetti, e se il premio fosse andato ad Adele o Tinie Tempah, non ci sarebbe stata una scusa altrettanto buona per scriverne. Un po’ come sto facendo io adesso.

Il ritratto di New York di Stories from the City, Stories from the Sea è ai limiti della chiaroveggenza. PJ cattura la tensione impalpabile di una città sull’orlo del cambiamento, in cui non ci si può sentire al sicuro; proietta la violenza repressa, la vulnerabilità e la freddezza delle sue relazioni sui grattacieli di Manhattan; vaga incerta tra Chinatown e Little Italy mentre sfrecciano gli elicotteri. È una dichiarazione d’amore scritta in tempi non sospetti che inquadra il futuro della città senza saperlo.

È l’album migliore e più significativo sull’11 settembre, ed è stato inciso un anno prima dell’11 settembre.

“The Edge of Glory”: cos’è andato storto?

Il nuovo video di Lady Gaga è bruttino. È a malapena un video: non c’è un concept, non c’è la solita creatività. Gli unici che possono dirsi contenti di cinque minuti di Gaga che si struscia al parapetto sono quei fan che arte, emozione e ispirazione ovunque. Io invece penso che talvolta sia bene liberare Gaga dal peso politico e simbolico che si trascina dietro e ridimensionare le sue azioni e il suo mestiere. Lady Gaga è una musicista e ha fatto un video bruttino. Capita.

Tuttavia, come dice Popjustice, “non so cosa sia più preoccupante: il fatto che [Gaga] abbia realizzato qualcosa pur sapendo che è una merda o la possibilità che lei pensi sia bello”.

Inizialmente, Joseph Kahn doveva essere il regista di “The Edge of Glory”. Per quanto la sua carriera, a mio parere , includa alti e bassi, era una buona idea assegnare la canzone a un regista vero, un professionista con alle spalle una cinquantina di video mainstream. È infatti da “Telephone” che Gaga si affida a creativi con altre esperienze: due fotografi per “Alejandro” e “Born This Way”, una coreografa per “Judas”. Coinvolgere persone con curricula non del tutto pertinenti può portare idee interessanti, ma non garantisce la qualità del prodotto finito – né tantomeno lo garantisce aggiungere “haus of Gaga” ai credits.

Per ora, tutto quello che sappiamo è che, in un momento imprecisato delle riprese, Kahn ha abbandonato il progetto. Dal leak di alcune immagini di produzione si intuiva la presenza di ambientazioni diverse e forse un concept più complesso. A un certo punto si è parlato di sirene.

 

Forse nei prossimi giorni verrà fatta chiarezza e scopriremo com’è nato lo screzio tra i due, ma già che ci siamo, tanto vale lanciare un’ipotesi: con Clarence Clemons in fin di vita, Gaga ha deciso di smontare il baraccone. La canzone è dedicata al nonno defunto di Stefani e, come spiega lei stessa, parla de “l’ultimo momento prima di lasciare la Terra”. Dato che queste potrebbero essere le ultime immagini ufficiali di Clemons, forse Gaga non se l’è sentita di legarlo per sempre a un video con coreografie complesse e parrucche colorate. In quest’ottica, “The Edge of Glory” sarebbe l’unico tributo possibile: una strada deserta, lui e lei, un sassofono.

Pop Typos: rendere utili le proprie manie

Nella mia mailbox non devono esserci mail non lette. Sul mio desktop non possono esserci più di cinque icone essenziali. Nella mia libreria iTunes tutti gli album devono avere la data di pubblicazione, le maiuscole giuste e le copertine. Potete capire quanto mi diverta vedere errori ortografici e tipografici!

La lista che segue comprende errori che mi mandano in bestia, errori che mi lasciano indifferente e misteri insoluti. Magari ci tornerà utile.

*

Beyoncé Put an accento acuto on it.
Björk,
Ólöf Arnalds,
Röyksopp
Maledetti artisti nordici (e metallari) con l’umlaut. Non è comodissimo fare copia e incolla tutte le volte o ricordarsi il codice sulla tastiera (e io sono il primo dei pigri), ma ci regalano molta musica bella: mostriamo loro un po’ di rispetto. Già che ci siamo, la seconda traccia di Homogenic è “Jóga”, come il nome della tizia a cui Björk ha dedicato il pezzo, e non ha nulla a che fare con lo yoga.
Bob Sinclar
Ho scritto *Sinclair per tutta la durata dello Eurovision, ma è Sinclar.
Cyndi Lauper,
Joni Mitchell,
Nicki Minaj,
Patti Smith,
Tori Amos
Signore che rifiutano la y.
Depeche Mode
Quando sarò padrone del mondo, il gruppo e la rivista da cui hanno preso il nome si chiameranno *Dépêche Mode. Per il momento, niente accenti.
Florence + the Machine,
Marina and the Diamonds
Marina and the Diamonds è Marina Diamandis e si parla di lei al singolare. I Florence + the Machine sono Florence Welch e la sua band.
Giardini di Mirò
Joan Miró vuole l’accento acuto, ma i GDM hanno deciso che lo preferivano grave. E vabbè.
Jay-Z Il suo centesimo problema è che nessuno si ricorda mai del trattino.
jj,
k.d. lang,
will.i.am,
The xx
Manco fossero e.e. cummings. “E se devo scrivere il loro nome all’inizio di una frase?” Fa’ un po’ come ti pare, mica possiamo perdere tempo dietro all’eccentricità tipografica di ‘sti quattro.
Jonas Åkerlund,
Klas Åhlund
Pallini.
Lady Gaga
Gaga o GaGa? La cantante, il suo sito ufficiale e iTunes hanno spesso pareri discordanti, quindi consideriamo accettabili entrambe le opzioni fino al contrordine di Miss Germanotta.
M.I.A. ( O //   I   P |_| // T | // |.
Marilyn Manson
Scrivete pure *Marylin: è del tutto normale non sapere il nome di battesimo dell’attrice più famosa della storia. Inoltre: Marilyn Manson è il cantante dei Marilyn Manson.
Max Gazzè
Se l’è chiesto anche TuttoFaMedia qualche tempo fa. Gazzè o Gazzé? Propendo per la prima, ma le copertine dei suoi dischi continuano a depistarci CON L’APOSTROFO.
Missy Elliott
Con tutte le consonanti doppie, a contrario del celebre (ma non altrettanto talentuoso) T. S. Eliot.
R.E.M. Gli R.E.M., G.L.I.
Santigold
Non è più *Santogold dal 2009. Il suo album d’esordio continua a chiamarsi Santogold.
Sigur Rós
Con l’accento acuto sulla o, come Jónsi.
Thom Yorke
Non è *Tom York.
Wilco
Gli Wilco, secondo me. Se la w vi confonde, fate finta che ci sia il dittongo ui: come tutti i maschili plurali che iniziano per vocale, vorrà essere introdotto da gli. Poi magari mi sbaglio.
Prince logo,
!!!,
†‡†, 
GL▲SS †33†H,
oOoOO,
Sunn O)))
Mortacci loro.
Pop Topoi
Se mi avete incontrato nella vita reale, vi ho già corretto. Per tutti gli altri: è tòpoi e non *topòi, grazie.

*

OK, me la sono cercata, ma vi prego: non vendicatevi tirando fuori un mio tweet dell’89 in cui ho scritto male “Lynyrd Skynyrd”. Con la coda di paglia che mi ritrovo, è facile che l’abbia già cancellato.

Record Store Day 2011: Nostalgia Anticaglia

Non compro un CD in un negozio indipendente dal 2005. Ho fatto i calcoli. Negli ultimi sei anni, ho comprato musica su supporto fisico solo ai concerti (artisti per i quali qualche copia in più può fare la differenza) o in megastore e catene (per fare regali dell’ultimo minuto). Stavo quasi per pentirmi di questo comportamento, poi ci ho riflettuto e mi sono trovato innocente.

Non ho un bel ricordo dei negozi di dischi. Dove abitavo, ce ne erano due non troppo lontani da casa mia. Erano la tappa obbligatoria di ogni passeggiata, ma proprio non se lo meritavano. Uno dei negozianti non ne sapeva molto e con gli amichetti ci divertivamo a chiedere dischi di band inesistenti. La risposta era sempre: “ci arriva la settimana prossima”. Quando, invece, la band esisteva perché – giuro – l’avevo vista su TMC2, il disco non lo avevano mai e mi toccava ordinarlo. Da quel momento, i negozianti sapevano che mi sarei presentato tutti i santi giorni fino all’arrivo della mia sudata copia, ma credo non gli dispiacesse troppo, dato che potevano estorcermi fino a 42.000 lire. A volte il CD lo vendevano già sbucciato, a volte c’erano talmente tanti adesivi sopra che a stento si vedeva la copertina – e a casa puntualmente cercavo di grattarli via e rimuovere le tracce di colla dalla jewel case.

Ora uno dei due negozi ha chiuso, l’altro è principalmente un videonoleggio, ma può ancora contare sui fan di Biagio Antonacci ed espone un cartonato ingiallito di Céline Dion dal ’98.

Spiacente, non ho mai avuto un negoziante capellone che ti fa scoprire la musica che ti cambia la vita e con cui passi i pomeriggi a chiacchierare di grunge, ma mi rendo conto che per molti il Record Store Day porti alla luce questi ricordi. Istituito nel 2007 da un gruppo di proprietari di negozi americani, e ampiamente supportato da grossi nomi come i Metallica, in pochi anni è diventato un evento internazionale gigantesco. La lista di concertini speciali e singoli in edizione limitata previsti per sabato è lunghissima e gli anni scorsi in alcuni negozi hanno dovuto fare entrare poche persone alla volta per questioni di sicurezza. E si scoprì che non c’è molta differenza tra i fanatici Apple, le fashioniste che si accalcano da H&M per la collezione Lanvin e i branchi di hipster che vogliono mettere le mani su un 45″ di Wavves.

Come se non bastasse, sabato sarà una festa memorabile per coloro che amano dire: “il giradischi ha un suono caldo e corposo”; “qui una volta era tutto vinile” e “l’mp3 è un formato di scarsa qualità: lo so perché le mie orecchie captano gli ultrasuoni”. Poi arriveranno quelli de “L’ODORE DELLA CARTA!” e si accorgeranno di aver sbagliato giornata.

Non fraintendetemi, il RSD è una bella iniziativa, è giusto che esista e che una volta all’anno si commemorino un mestiere e un’abitudine che stanno per scomparire. Opporsi all’evento sarebbe un po’ come dire al WWF di arrendersi sulla questione dei panda perché questa estinzione se la sono andata a cercare. Però, diciamoci la verità, oggi il mondo è un posto migliore per i fruitori di musica (e di libri, film, serie televisive, ecc.) e, davanti a svariati giga su iTunes, nulla può la nostalgia del negozietto.