Caroline Polachek, Pang

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In una grotta, c’è una donna che segna il numero di giorni come farebbe un carcerato – non sulle pareti ma su un librone usurato – e inizia a ballare divertita attorno a un calderone e stalagmiti. A un certo punto la sua voce prende forma e diventa una nuvola di vapore verde che l’avvolge. Sembrerebbe un video perduto di Kate Bush degli anni ’80, se non fosse che questa strega canta col linguaggio dei social. Il testo parla infatti di sexting e astinenza e lei, dopo avere rifiutato foto che “peggiorerebbero la situazione”, cede ed esclama: “show me the banana”. “So Hot You’re Hurting My Feelings” è bel un momento di stregoneria pop ed è anche l’apice di un’azzeccata campagna promozionale con cui negli ultimi mesi Caroline Polachek si è ripresentata sulle scene.

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Eurovision Song Contest 2019: la guida alle canzoni

Benvenuti alla consueta guida per districarvi tra i brani dello Eurovision Song Contest, che quest’anno si tiene a Tel Aviv. Le semifinali sono martedì 14 e giovedì 16 maggio e vanno in onda su Rai4, mentre la finale di sabato 18 va in onda su Rai1 commentata da Federico Russo e Flavio Insinna. L’Italia, facendo parte delle big five, si qualifica direttamente alla finale e voterà nella seconda semifinale.

Legenda:
① Prima semifinale
② Seconda semifinale
F    Finalista
🏆 Buone possibilità di vittoria
👏 Proposta di qualità
💃 Allarme LOCURA

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L’opposto di pop

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Nel 2005, MTV UK trasmette un reality che accompagna la cantante Lisa Scott-Lee, componente del gruppo pop britannico Steps, nel tentativo di avviare una carriera da solista. A rendere il programma Totally Scott-Lee un po’ più gustoso, c’è una sfida: per otto settimane le telecamere seguiranno la campagna promozionale di un singolo, e nell’ultima puntata si scoprirà in diretta il suo piazzamento nella classifica di vendita. Se il singolo in questione non entrerà nella top 10 britannica, la cantante si dovrà ritirare dal mondo della musica. La premessa, in tutta la sua crudeltà, funziona per l’emittente, che registra ascolti record, ma non per Lisa Scott-Lee: il singolo “Electric” si piazza alla tredicesima posizione. O forse funziona pure per lei, perché senza il traino di un programma tv avrebbe venduto ancora meno copie (del resto, prestandosi a un’operazione del genere, era già in odore di flop).

L’aspetto più interessante dell’altrimenti trascurabile programma è l’incredulità della star che fino a poco tempo prima vendeva milioni di dischi e ora, pur essendo ancora famosissima in patria e facendo lo stesso genere musicale, deve lottare per qualche migliaio di copie. Media e pubblico vogliono ancora il suo volto sulle copertine e vogliono ancora parlare di lei, ma una parte di loro, stimolata da un’idea di marketing vincente a prescindere dall’esito della sfida, vuole anche il suo licenziamento simbolico sulla pubblica piazza. Quindi, ecco Lisa Scott-Lee nei negozi di dischi a comprare copie del suo stesso cd singolo, a fare il solito tour de force promozionale con tutto l’ottimismo necessario, mentre la nazione gode assistendo a un tramonto in diretta.

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Dal numero 24 di Link, “Flop”

Primavera Sound 2018: giorno 3

La terza e ultima giornata del mio percorso “Lilith Fair” dentro il Primavera Sound inizia col concerto-per-darsi-un-tono di questa edizione. Jane Birkin porta al main stage la sua raccolta di classici di Gainsbourg riarrangiati per orchestra sinfonica – una trovata che conferma il Primavera come una splendida eccezione nel panorama dei festival internazionali. Delle non-doti vocali di Birkin è superfluo parlare visto che ha superato i cinquant’anni di carriera, ed è vero quello che diceva lei stessa ieri in conferenza stampa: la bellezza degli arrangiamenti orchestrali di Nobuyuki Nakajima non ha quasi bisogno di una cantante. Il momento, al tramonto e davanti a un pubblico (quasi) silenzioso, è suggestivo e lei lo sottolinea: “Vedere tutta questa gente, sul mare, a Barcellona, con questi musicisti eccezionali, avrebbe commosso [Serge]”.

Se dopo la sua megahit danzereccia aveva pubblicato con un disco tetro e doloroso, col nuovo lavoro (in uscita venerdì) Lykke Li prende ancora una volta una direzione inattesa. Il male di vivere resta, ma l’influenza del chill pop delle classifiche (con addirittura una spruzzata di trap) snatura un po’ lo spirito che la rendeva così speciale. Tant’è vero che i momenti migliori del concerto di oggi restano le tracce di I Never Learn. La cantante svedese si muove inquieta e senza mai sorridere tra drappi con gigantografie dei suoi occhi malinconici che osservano il pubblico. Con titoli come “so sad so sexy” la sua dichiarazione d’intenti è chiara, ma anche “I Follow Rivers” nella versione live perde quel goccio di spensieratezza che la rese un successo. È un concerto che andrebbe visto in un luogo più silenzioso, contenuto e buio.

Lorde quest’anno ha guadagnato una nomination ai Grammy per il premio più prestigioso (Album of the Year), ma è stata l’unica in quella categoria a non avere ricevuto un invito a esibirsi alla cerimonia. Ha reagito twittando: “se non siete sicuri che sono capace di mangiarmi un palco, venite a vedermi di persona”. Il tour in questione è già alla sua terza versione: nella prima, si raccontava la storia di una festa con una teca gigante sul palco piena di ballerini; nella seconda, per i club, Lorde sperimentava con visual e installazioni luminose; nella terza, in corso, lo spettacolo è diventato essenziale. Ci sono ancora coreografie e qualche elemento video, ma le distrazioni sono poche e non servono. La cantautrice è diventata una mega-popstar che ancora non può permettersi gli stadi, ma mangia davvero ogni palco che incontra. I ballerini la fanno volare da un lato all’altro, interagisce col pubblico piazzandosi sotto l’occhio di bue per raccontare della solitudine che ha ispirato “Liability” (l’unica vera ballata in scaletta), abbraccia la folla che non la vuole più mollare. Mostra un po’ d’ingenuità solo quando dice che è contenta di suonare vicino “all’oceano” – e, a proposito di oceano, accenna “Lost” di Frank Ocean alla fine di “The Louvre”. Il gran finale con “Green Light”, in cui chiede a tutti di usare le ultime energie rimaste, è uno dei momenti più euforici ed emozionanti di un live di recente memoria, e quando ci si ricorda che la ragazza a 21 anni è già un’headliner con questo talento, viene da chiedersi di cosa sarà capace in futuro. Gli organizzatori della cerimonia dei Grammy non sanno davvero cosa si perdono.

Si va verso il Pitchfork stage per un’occhiata ad ABRA, giovane artista R&B da Atlanta che si esibisce completamente da sola sulle sue basi registrate (in tutti gli articoli su di lei troverete queste due parole: “bedroom producer“). Nei primi brani, stilosi ma poco incisivi, il contesto sembra fuori misura per una performer forse più abituata ai club. Ma ABRA supera la prova adattandosi in fretta, e il pubblico con lei, partecipando con trasporto. Io, che pensavo di avere usato le ultime energie di cui sopra per Lorde, ne trovo un po’ quando fa partire un campionamento della preistorica (2003) “Never Leave You (Uh Oooh, Uh Oooh)”. Non avrei mai pensato che questo percorso “Lilith Fair” dentro al Primavera sarebbe terminato con Lumidee e non m’impegnerò a trovarci un significato. Di certo posso dire che perdere qualche navigata band maschile non è stata una grande rinuncia, visto che il compenso è stato scoprire qualche nuova artista femminile. E che leggendo le notizie che arrivavano dall’Italia in questi giorni, c’è bisogno come non mai delle energie di spettacoli queer come quello di Fever Ray, rigeneranti come quello di Lorde e utopici come quello di Björk.

Foto Lykke Li, Lorde: Sergio Albert

Primavera Sound 2018: giorno 2

Il primo appuntamento della giornata è una conferenza stampa unica: Jane Birkin e Charlotte Gainsbourg a confronto. Per la prima volta si esibiscono nello stesso festival: domani la madre esegue dal vivo la sua raccolta di classici riarrangiati con orchestra sinfonica; oggi la figlia presenta il suo terzo album di inediti Rest. Ma la prima domanda le spiazza. Un giornalista chiede loro di parlare del movimento #metoo e quale sia il punto di vista sulla questione da due generazioni diverse. Stupisce il loro stupore, perché dopo tanti mesi due professioniste dell’industria cinematografica e musicale, qualunque sia la loro opinione, dovrebbero avere una risposta pronta. Quella che tirano fuori, dopo molto esitare, è cauta. Gainsbourg pensa che sia una buona cosa nonché una rivoluzione, ma come ogni rivoluzione porti con sé dei danni collaterali: dal punto di vista di una francese, l’America ha reagito in modo esagerato e violento, anche se forse è stato necessario, e i processi non andrebbero fatti via social media. Birkin nota che alcune persone, tra cui un loro conoscente, possono perdere la carriera anche nel caso in cui le accuse di molestie siano infondate. Aggiunge che è una cosa che non le è mai capitata: stava con Serge, quindi nessuno ci provava. L’impressione è che la risposta potrebbe finire in territorio Deneuve se solo qualcuno infierisse e chiedesse alla Gainsbourg qualcosa su Lars Von Trier. Il discorso si sposta invece sul concerto della Birkin, che la figlia ha visto più volte, commuovendosi. Secondo Birkin, la musica del compagno, specialmente se eseguita da un’orchestra, quasi non ha bisogno di parole – una sera in cui non aveva voce è andata avanti con lo spettacolo parlando anziché cantando ed è stato altrettanto suggestivo. Lei sognava di fare i musical, pur non avendo le doti canore adatte, e il compagno la dissuase scrivendole un album.

In serata, il palco Pitchfork ospita l’artista olandese-iraniana Sevdaliza e il suo trip hop ruvido e scuro. Nella sua voce convivono Beth Gibbons e radici persiane; nel suo corpo, fasciato da un body/armatura di pelle nero, convivono la danza e il basket (da ragazza giocava nella nazionale olandese). In un altro periodo storico, le major farebbero a gara per accaparrarsela: nelle ballate dimostra già di sapere interpretare il ruolo di diva R&B contemporanea pronta per i palazzetti, ma è nei momenti in cui interagisce con un ballerino sui brani dai beat più potenti che diventa davvero ipnotica. Ringrazia il pubblico perché può ancora andare avanti da artista indipendente: “È il 2018, e se Trump può essere presidente, io posso essere questo”. Questo è la migliore scoperta musicale dell’edizione.

Decido di trasferirmi al Primavera Bits, la parte sulla spiaggia dove si tengono soprattutto DJ set e in cui le persone sobrie sono un miraggio. Quest’anno la trovo ancora più grande e ancora più psicotropa, e c’è anche un palco per concerti dove si esibisce Jorja Smith. Pensavo di trovarla in uno showcase intimo per influencer e invece ci sono un migliaio di persone per un set vero e proprio di un’ora. È chiaro che dietro l’esordiente ventenne inglese ci sia un bell’investimento se può permettersi tutto ciò prima ancora di avere pubblicato un album (esce la settimana prossima). Il modello sembra essere Amy Winehouse, ma lo stile vocale fa pensare a Sia. Tutti i tasselli sono al loro posto, dalle collaborazioni giuste (Drake, Kendrick Lamar, Stormzy) a una presenza live convincente, ma dopo mezz’ora di Jorja si inizia a sentire la mancanza di una hit che le assicuri il futuro che tanti sperano per lei.

Perso nei trasferimenti da un lato all’altro del Parc e altri problemi logistici (non sono nemmeno l’unico: i Migos hanno perso l’aereo e saltato il festival), devo rinunciare a rivedere Charlotte Gainsbourg. Ho provato a essere un vero millennial e cercare i video del concerto per farmi un’idea, ma non sono ancora stati caricati. Anche senza averla vista, posso scommettere che il suo set è stato meno energico di quello delle Haim. Le tre sorelle che han fatto un patto (rassegnatevi, è il mio modo preferito per presentarle) sono al loro terzo Primavera e anche loro ci tengono a sottolinearlo. Da uno slot pomeridiano nel 2014 a un concerto a sorpresa a notte fonda nel 2017 a un posto da quasi-headliner su uno dei palchi principali quest’anno, la loro è una storia di successo lineare. Se già nel 2014 erano grandi entertainer, ora tengono il palco con ancora più naturalezza e finalmente aiutate da un impianto scenico all’altezza. Da polistrumentiste, aprono e chiudono alle percussioni tutte e tre insieme, e nel mezzo ci sono assoli di chitarra senza vergogna, trovate di interazione col pubblico (durante “The Wire” chiedono a tutti di salire sulle spalle di qualcuno e il colpo d’occhio è notevole) e una scia di singoli dai ritornelli martellanti che si possono cantare anche senza conoscere. Ma possono ancora migliorarsi: dovrebbero includere nella scaletta la loro cover di Shania Twain.

Foto Haim: Sergio Albert
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Primavera Sound 2018: giorno 1

Dal ’97 al ’99, la cantautrice canadese Sarah McLachlan ha organizzato il Lilith Fair, un festival itinerante in cui si esibivano solo donne. Era un momento in cui la musica mainstream aveva trovato nuove energie grazie a voci come Alanis Morissette e Lauryn Hill; c’era una domanda nel mercato che McLachlan aveva giustamente deciso di sfruttare non solo come artista ma anche come imprenditrice; c’era la necessità e l’occasione di creare un festival in cui si respirasse un’aria diversa, per un pubblico di ragazze e persone queer (e uomini così evoluti da volere ascoltare musica fatta da donne).
Sono passati vent’anni, quel festival non esiste più (salvo un tentativo di remake nel 2010) e ogni estate ci si chiede come mai le artiste femminili sui cartelloni dei grandi festival siano così poche. Che sia questione di domanda o offerta poco importa: vedere il cartellone di Reading & Leeds (per citare l’esempio più estremo) con solo i nomi femminili evidenziati fa impressione e dimostra che da qualche parte nella catena c’è qualcosa da aggiustare. Ci sta provando la PRS Foundation con Keychange, un’iniziativa volta a raggiungere il 50:50 nelle lineup musicali entro il 2022.
Il Primavera Sound non ha ancora aderito, ma guardando le lineup degli ultimi anni, si capisce che gli organizzatori hanno già cominciato a ragionare in questi termini. Andando spesso oltre lo stereotipo delle band-indie-bianche-da-Pitchfork, hanno proposto nomi come Tori Amos, PJ Harvey, Grace Jones e Solange scrivendoli in caratteri molto più grossi di quelli che di solito spettano loro sul cartellone di un festival britannico o statunitense.
Quindi, nell’anno in cui il Primavera ospita Björk e Fever Ray, ha senso provare un a fare un percorso “Lilith Fair” dentro il Primavera stesso (e lasciare i Migos lì dove stanno). Non bisogna per forza aspettare il 2022.


Il primo concerto dell’edizione è italiano: gli Any Other di Adele Nigro suonano nell’area Pro riservata ai professionisti dell’industria e che presto si riempie di altri spettatori attirati dalla voce della cantautrice. La nuova entrata di 42 Records scrive in un inglese così naturale e schietto da darle credibilità internazionale. Non suona come nessuna artista mainstream in questo momento (volendo, la combinazione di indie rock Anni ’90 e testi molto intimi la riconducono a Courtney Barnett), ma nel suo caso potrebbe essere un vantaggio. E oggi l’abbiamo vista guadagnarsi l’attenzione del pubblico casuale nel mezzo di un grande festival: non è poco.


Lo spettacolo di Björk inizia con una serie di cartelli: è una situazione di emergenza, ci avverte, e per garantire la sopravvivenza della specie ai disastri ecologici dobbiamo unire natura e tecnologia e ricompattarci in una società matriarcale. Lei è già nel futuro che ha immaginato, ci guida al suono dei suoi flauti e ci invita a ripartire da zero. L’utopia di Björk, nata da da un moto di speranza dopo la dolorosa separazione raccontata in Vulnicura, è un’isola rigogliosa, dove i fiori e gli uccelli terrestri convivono con creature ibride, tra la bellezza accidentale delle mutazioni di Annihilation e l’immaginazione infantile di Adventure Time. Il palco è una giungla, le sette flautiste mascherate i suoi fauni, e Björk la matriarca su un trono vulviforme. Tra laser verdi, avatar animati, fiori gonfiabili e bassi profondissimi, è lo spettacolo più massimalista ed esagerato dell’artista dai tempi del Greatest Hits Tour, e raggiunge un nuovo livello di stranezza perfino per i suoi standard. Come sempre nei suoi live, l’aspetto più interessante è scoprire come verranno reinterpretate le hit storiche attraverso i suoni dell’era in corso: la jungle di “Isobel” incontra finalmente la giungla ma resta quasi invariata, e la rispolverata più significativa in “Human Behaviour” e “The Pleasure Is All Mine” è l’uso dei flauti per sostituire, rispettivamente, i synth e i cori. È forse più interessante notare come queste scelte dal vecchio catalogo seguono un fil rouge tematico più che sonoro, e in secondo luogo l’ostinazione con cui l’artista si rifiuta di fare una scaletta “da festival” e propone quasi solo materiale nuovo. È materiale che per giunta resta troppo astratto per le ambizioni di uno show pirotecnico: le strutture irregolari e spinose di Arca non sono del tutto compatibili con certe esigenze teatrali (nei suoi arrangiamenti come individuare un crescendo, un climax o un’esplosione su cui sincronizzare visual e coreografie?). Ma ancora una volta, chi ha la pazienza e la curiosità di seguire Björk ne uscirà ispirato ed emozionato, e ci dispiace per gli altri.


Il concerto successivo inizia solo cinque minuti dopo, ma dal lato opposto del parco. Arrivo quindi in ritardo per sapere se Fever Ray ha chiesto, come fa di solito, che le donne e le persone più basse si sistemino più vicine al palco. Björk non è l’unica ad avere lavorato alla sua utopia: il palco dell’artista svedese è interamente occupato da donne, così come gran parte del suo staff tecnico. Lei, dopo anni di maschere, si presenta con capelli corti ossigenati e trucco scuro e sbavato attorno a occhi e labbra. Il suo show è l’evoluzione, o meglio, la correzione dell’ultimo, contestatissimo, tour dei suoi The Knife: resta il gusto per il sensuale e il morboso, ma cadono tutti gli aspetti meta che lo rendevano una parodia poco comprensibile. Sul palco e nel pubblico ci si diverte allo stesso modo: sul palco ogni componente della band ha il costume di una supereroina inventata (la bodybuilder, la scienzata anarchica, la guerriera ecologista…) e nel pubblico i goth ballano i ritmi tropicali di canzoni iper-politche. Uno degli show più centrati, pensati e divertenti degli ultimi anni.


L’ultimo concerto della serata è quello dei Chvrches, e subito Lauren Mayberry confessa che non si aspettavano di fare il pienone all’una e mezza. Sono passati quattro anni dal loro primo Primavera sul palco Pitchfork, ma l’upgrade al palco principale è stato del tutto meritato. La sicurezza con cui si presentano oggi sembrava impensabile ai loro esordi e dal vivo anche i brani dell’ultimo album (uscito venerdì scorso e accolto senza molto entusiasmo) guadagnano potenza. Si può sottolineare come la loro discografia continui a risultare piuttosto omogenea e nei concerti lo sarà sempre di più (con un catalogo in espansione e molti singoli da suonare, le tracce più oscure e sperimentali non trovano spazio in scaletta), ma per un’ora di synthpop con echi di Depeche Mode e ritornelli da urlare, i Chvrches live sono già una garanzia.


Foto Björk: Ferran Sendra; Fever Ray: Levan TK; Chvrches: Sergio Albert
Rockol

Eurovision Song Contest 2018: la guida alle canzoni

Benvenuti alla consueta guida per districarsi tra le proposte musicali dello Eurovision Song Contest nonché la guida in cui l’anno scorso si leggeva che Gabbani avrebbe vinto. Volevo dire all’Europa che NON MI AVETE FATTO NIENTE.

Riepilogando:

    • Le semifinali si tengono martedì 8 e giovedì 10 maggio e vanno in onda su Rai4;
    • la finale di sabato 12 maggio va in onda su Rai1;
    • l’Italia, facendo parte delle big five, si qualifica direttamente alla finale e vota nella seconda semifinale.

Dentro queste tabelle trovate: i video ufficiali di tutti i brani; una breve recensione; un giudizio da 1 a 5 sulla qualità del pezzo, la quantità di locura prevista e le possibilità di vittoria (calcolate con un complicato algoritmo che unisce le quotazioni dei bookmakers alla mia preveggenza). Accanto al nome della nazione, la semifinale a cui parteciperà, la F se arriverà in finale e una stellina per le canzoni che meritano la vostra attenzione.

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#MetaMoro: come vola via una bolla

di Federico Pucci 

Alla fine Claudio Baglioni è riuscito davvero a mettere la musica al centro del Festival di Sanremo. A tenere banco, infatti, è stata la storia che ha coinvolto “Non mi avete fatto niente”, il brano portato in gara da Ermal Meta e Fabrizio Moro. La sapete già fino alla nausea: nessuno pronuncerà qui la parola con la P, e per riprendere le tappe di questa storia partita da uno scoop di Giulio Pasqui su AltroSpettacolo rimando a un mio thread su Twitter.

La canzone, alla fine, è stata riammessa nella competizione dopo una sospensione durata un giorno. A seguito di un’analisi tecnica – compiuta non si sa esattamente da chi: il comunicato non menziona né la Commissione Musicale che ha assistito Baglioni nello scegliere i brani, né il Comitato di Controllo del Festival – la Rai ha spiegato che il requisito di novità della canzone non veniva meno: “[…] i due brani hanno stesure, durata, testi e melodie diverse – dice la nota – Inoltre nel brano “Non mi avete fatto niente” la somma degli stralci utilizzati non supera i 1’03” secondi su una durata totale del brano stesso di 3’24” e pertanto è inferiore al terzo dell’intero brano”.

Così, nella puntata di ieri i due cantautori sono tornati a esibirsi, di nuovo favoriti in una competizione non facile. La questione, insomma, è chiusa. Però stamani, su Repubblica, il maestro Vince Tempera mi ha fatto pensare di nuovo alla storia. “Gli altri concorrenti cosa dicono? Nessuno ha ancora reagito? Contro una decisione di questo tipo chi ricorre ha ottime probabilità di vincere”, dice, mentre spiega il pericolo di una decisione come quella presa dalla Rai. “Così ogni anno chiunque può presentarsi rifacendo pezzi già editi”.

E allora mi è venuto da ricontrollare quei conti, usando la versione in studio per comodità: davvero la somma degli stralci utilizzati è inferiore a un terzo del brano? E un terzo misura cosa: la durata? Il numero di parole e note riciclate?

Cominciamo dal tempo: su un totale 208 secondi, stando molto stretti con il cronometro, i ritornelli (le parti evidentemente riadattate a partire da “Silenzio”) occupano circa 80 secondi, ai quali bisogna aggiungere i 6 secondi finali dove Fabrizio Moro intona le stesse parole e lo stesso inciso melodico che Ambra Calvani cantava in un’altra sezione della canzone: “Sono consapevole che tutto più non torna, la felicità volava come vola via una bolla” (un segmento che raramente è stato preso in considerazione). Siamo insomma sicuramente sopra gli 80 secondi. Ottanta per tre fa duecentoquaranta secondi: la somma degli stralci riutilizzati arriva ben oltre i 63 secondi citati dalla Rai, che non si capisce bene come abbia fatto i conti, probabilmente con lo stesso orologio con il quale annuciarono il Capodanno 2016 con più di un minuto di anticipo!

Ma il regolamento di Sanremo parla anche solo di “parte musicale” o “testo letterario”, in merito all’originalità di una canzone: bene, le liriche di “Non mi avete fatto niente” rispettano la regola del terzo? No. Usando i capoversi del testo per come è riportato dal sito di TV Sorrisi e Canzoni si contano 30 versi su 67 riciclati, cioè poco meno della metà. Ma se non ci fidiamo dei capoversi, c’è sempre il conteggio delle parole: su 381 parole cantate con intensità, 156 sono prese in prestito dalla canzone “Silenzio”. Molte più di un terzo, insomma.

Ok, ma melodia e parole non sono tutto: per caso “Non mi avete fatto niente” ricalca in qualche altro modo la sua canzone genitrice? A mio parere, sì. Basta guardare le dinamiche dell’arrangiamento, cioè l’equilibrio tra i volumi, tra gli strumenti usati o meno, tra le intenzioni, che si misura accostando la prima e la seconda parte delle due canzoni. Entrambe le canzoni partono con strofa + ritornello senza base ritmica e proseguono con strofa + ritornello ritmato, secondo un pattern che tiene il tempo in quarti con la cassa in levare e il rullante in battere (è quello stile che ad alcuni sembra patchanka, ad altri Mumford & Sons). In termini di linee generali dell’arrangiamento musicale, di veramente originale c’è il bridge, con la voce sospesa su poche note di accompagnamento: il bridge dura 11 di 208 secondi.

Certo, anche la melodia delle strofe è un altro elemento completamente originale: pure Meta e Moro, come Calvani e De Pascali, cantano frasi che si protraggono lungo diverse battute, come fossero lunghi pensieri enunciati in un solo respiro, ma l’andamento ritmico di “Non mi avete fatto niente” è scandito in modo peculiare, con successioni di sedicesimi che si fermano e ripartono. Tuttavia, la gabbia armonica in cui si muovono queste note è la stessa, perché in entrambi i casi la progressione di accordi ruota intorno alle tonalità relative (un espediente comunissimo, peraltro, nel pop): nel caso di “Non mi avete fatto niente” si tratta di Mi diesis minore e Sol diesis maggiore; nel caso di “Silenzio” sono Sol minore e Si bemolle maggiore.

Allora, mentre i due cantautori si accingono a uscire trionfatori del Festival (se non nella gara, nel cuore del pubblico: il loro brano è popolarissimo, anche lontano dalla Sala Stampa di Sanremo) ripensiamo alle parole del maestro Tempera. Ha senso lasciare aperti questi spiragli di dubbio e interpretazione arbitraria in un concorso che per tradizione ha come unica regola la “novità” della canzone? Vero, i tempi cambiano, fino al 2013 anche la Recording Academy (quella dei Grammy) non ha voluto riconoscere premi per la miglior canzone dell’anno a brani che contenessero interpolazioni o campionamenti, regola assente solo per la categoria del rap e dell’hip-hop. Ma nessuno ha chiesto a Kanye West di presentarsi all’Ariston, e le regole che valgono per la musica in generale non sempre si applicano alla kermesse, nemmeno quando la musica è “al centro”.