2014: l’anno pop

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26 gennaio: I Daft Punk riempiono i caschi con quattro Grammy. Pharrell è il produttore dell’anno.

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I COMPLOTTI DELLA SIGNORA PIPPA

22 febbraio: Arisa vince il Festival di Sanremo con “Controvento”.
È la domenica prima del 64esimo Festival di Sanremo. Nel pomeriggio di RaiUno c’è il solito sensitivo che anche quest’anno dice di avere il potere di indovinare chi vincerà la manifestazione. Pesca una carta che emanava più energia delle altre e la mette in una busta da riaprire poi a giochi fatti. Arisa vince il Festival di Sanremo; nella busta di Giucas Casella c’era una carta con la faccia di Francesco Renga, quarto classificato.
Renga era il candidato più scontato: è il favorito di ogni edizione a cui partecipa ed è quello che venderà più copie nel 2014. Casella, essendo sensitivo, aveva sicuramente previsto la vittoria di Arisa, ma è pur sempre un sensitivo stipendiato dal servizio pubblico. E la domenica successiva, il servizio pubblico deve stare dalla parte del popolo, che voleva Renga e se ne infischia delle giurie di qualità intellettuali di Fazio. (A Domenica in scordano di dire che, al televoto della quinta serata, Renga sarebbe comunque arrivato secondo, ma è un dettaglio che rovinerebbe la narrazione.) Quando entra Arisa in studio, le mostrano un servizio del TG1 contenente compaesani che festeggiano bevendo spumante al bar e un’intervista a sua madre. Lei decide di non stare al gioco, di non volersi commuovere davanti alla platea ed esce (e dopo un pomeriggio dedicato al tiro al bersaglio su di lei e tutta l’organizzazione del festival, è già tanto che si fosse voluta presentare). È un piccolo gesto, forse dettato più dallo stress che dall’arroganza, ma Mara Venier a Le invasioni barbariche parlerà di “complotti della signora Pippa”.
Ad agosto, una fan di Arisa si lamenta su Facebook chiedendole più disponibilità col pubblico dopo i concerti. Lei risponde che “Rosalba Pippa non è in vendita” e, citando il ritornello della sua collaborazione coi Club Dogo (“siamo fragili se tutti ci toccano”), spiega che il suo dovere finisce con l’ultima canzone in scaletta. Sono frasi e atteggiamenti che ci si aspetterebbe da Sia, l’unica grande artista internazionale che è stata in grado di scegliere come e quando mostrarsi (e trasformando la sua ritrosia in una forma di marketing molto efficace). Ma Arisa non ha il potere di Sia e la sua (meritata) fama come cantante è arrivata solo dopo quella come personaggio mediatico. Tra il primo successo sanremese (“Sincerità”) e il secondo (“La notte”), ci sono anni in cui Arisa ha fatto film, libri e televisione. La musica da sola non funzionava e ha puntato su altro (diventando un ottimo giudice di X Factor, per di più). Ma quando la musica ricomincia a funzionare e ritrova la strada per la top 10, sembra volere lasciare dietro di sé il personaggio mediatico, aspettandosi pure che il pubblico non confonda la riservatezza col divismo.
Riservatezza è non volersi prestare alle lacrime in diretta televisiva; divismo è negarsi ai fan dopo un concerto in un mondo in cui anche Rihanna è costretta a ore di meet and greet.
Gli artisti nati col televoto in un periodo di crisi sono stati addestrati a ritwittare l’impossibile e a non negare mai una selfie, e anche Arisa, con buona pace di Domenica in, è un prodotto del televoto, non delle giurie di qualità. Rosalba Pippa non è in vendita e gestisce la fama nel modo che trova più appropriato, ma dovrà vendere ancora un bel po’ di dischi prima di vedere Lugano.

LA RIVINCITA DI ADELE DAZEEM

2 marzo: “Let It Go”, da Frozen, vince l’Oscar per Miglior canzone.
C’era una volta il cartone animato per bambini. Intorno a Natale, i genitori avevano l’obbligo morale di accompagnare i figli a vederlo, soffrendo in silenzio. Però alla fine dovevano sempre ammettere che, sì, i disegni erano bellissimi, e pure le musiche. Le colonne sonore Disney degli anni ’90 erano per bambini nella misura in cui le cantavano dei pupazzi, ma dovevano anche offrire un talking point per gli adulti usciti dal cinema. Elton John per Il re leone, Micheal Bolton per Hercules, Phil Collins per Tarzan, Sting per Le follie dell’imperatore: sembrava di scorrere la pila di CD middle-of-the-road dell’essere umano occidentale di mezza età. Nell’era post-Pixar in cui l’animazione è anche per bambini, le colonne sonore “cantabili” avevano perso importanza ed erano diventate suite di musica classica o folk (con contorno di Mumford & Sons per Brave). Quando Disney sceglie di tornare al musical con Frozen, riparte direttamente da Broadway, ma non deve avere avuto particolare fiducia nella voce della protagonista: fuori dalle sale, la canzone portante “Let It Go” non era destinata a funzionare e viene ri-incisa da Demi Lovato, ex bambina prodigio Disney e giudice di X Factor USA reduce da un album di successo. Ma la versione di Lovato è nettamente inferiore: ha un arrangiamento pop/rock leggerino che perde tutta la teatralità dell’originale; la struttura è alterata e, dove c’era una scintillante sezione orchestrale, c’è un middle-eight il cui unico scopo sembra quello di inserire la parola “frozen” nel testo. La “Let It Go” di Lovato arriva al disco di platino, ma quella del film continua a vendere per tutto l’anno fino a collezionarne cinque. Dopo averla ascoltata al cinema, il pubblico non vuole la versione urlata e radio-friendly: tutti preferiscono rivivere la scena madre della fiaba. La potenza del pezzo si manifesta in migliaia di cover, remix e parodie ed è accentuata dalla sua lettura come manifesto d’orgoglio LGBT: nel momento in cui Elsa arriva ad accettare la sua diversità e trasformarla in superpotere, c’è chi vi legge un coming out.
Ma dietro al successo di “Let It Go” c’è soprattutto l’interpretazione di Idina Menzel: per i fan dei musical, una divinità; per il grande pubblico, una comparsa di Glee o una sconosciuta dal nome difficile. Broadway e il mercato discografico sono due mondi che raramente s’incontrano e Menzel è la dimostrazione che nemmeno un Tony può garantire la notorietà: per quella, bisogna concedersi al pop. E Menzel ci provò, prima con la Hollywood Records della Disney e poi col superproduttore Glen Ballard, incidendo dischi insignificanti che si trasformarono in flop e la fecero tornare al palcoscenico.
A marzo, “Let It Go” è nominata agli Oscar come Miglior canzone e vince il premio. Ma nel momento in cui Idina Menzel deve salire sul palco del Dolby Theater, John Travolta la presenta come “Adele Dazeem”. La gaffe dell’attore è allo stesso tempo la cosa peggiore e migliore che potesse succedere: in un’intervista, Menzel fa notare di avere passato la vita a correggere fantasiose alterazioni del suo nome, ma ora il mondo è costretto a sapere quello giusto (anche solo per ridere di Travolta). È l’inizio della sua rivincita: “The (Not So) New It Girl”, come la chiama Billboard, debutta in classifica a 42 anni e trascina la colonna sonora di Frozen al primo posto per 13 settimane (anche nei mesi caldi), battendo il record de Il re leone. Idina Menzel conquista il mainstream senza più concedersi al pop e diventando anzi un caso unico di crossover tra musical e classifiche. Se non era la prima volta che succedeva, era di certo the first time in forever.


7 mars: Racine carrée de Stromae est le premier album en français à atteindre le sommet des charts italiens.
L’intervista a Stromae


2 maggio: La celebre fotografa Rihanna abbandona (o viene cacciata da) Instagram dopo avere postato uno scatto in topless. Tornerà sei mesi dopo.
Rihanna: good girl gone bad (Studio)

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L’INARRESTABILE BARBA

10 maggio: Conchita Wurst vince il 59esimo Eurovision Song Contest.
Conchita Wurst era in lizza per rappresentare l’Austria allo Eurovision Song Contest già nel 2012, ma si classificò seconda alle selezioni nazionali. Col senno di poi, è andata meglio così: avrebbe portato un brano dance anonimo, probabilmente non avrebbe vinto e la sua partecipazione sarebbe avvenuta in un momento non altrettanto significativo. Per il 2014, l’Austria è il primo paese ad annunciare la sua candidata (scelta d’ufficio) ed è l’ultimo a rendere nota la canzone in gara. La strategia funziona, anche se gran parte del pubblico (quello che s’interessa alla manifestazione solo un paio di giorni all’anno) si troverà davanti alla drag queen barbuta di sorpresa – e rimarrà ipnotizzato.
Tom Neuwirth inventa un personaggio che unisce maschile e femminile con grazia e compostezza. Perfino il nome d’arte, che sulla carta suona terribilmente trash, diventa una scelta sofisticata e sensata (il nome esotico e carnevalesco, il cognome mitteleuropeo e fallico). Durante lo spettacolo, è l’unica concorrente a esibirsi da sola sul palco vuoto, ma è aiutata da un lavoro di regia grandioso che accentua l’epicità del pezzo. “Rise Like a Phoenix” è subito un classico: ce ne si accorge dentro ma soprattutto fuori dall’arena di Copenhagen, quando gli eurofan corrono a cantarlo al karaoke insieme ai successi delle altre edizioni.
Conchita Wurst diventa una questione politica, e più critiche riceve, più è grande la solidarietà nei suoi confronti e la sua importanza simbolica. Si parla di minacce di censura da parte delle televisioni russe e bielorusse, ma si riveleranno, appunto, solo minacce. Al momento del televoto, l’artista stravince anche grazie ai punti assegnati dai paesi dell’est (è terza per il pubblico russo), dimostrando che noi commentatori dell’ovest avevamo parlato a sproposito e dato troppo peso a qualche rumoroso Salvini locale.
Per la prima volta dopo tanti anni, lo Eurovision torna a essere qualcosa di più di qualche serata di grande intrattenimento e/o incidenti stradali. “Siamo una cosa sola e siamo inarrestabili”, dice Conchita quando ritira il premio, e quella prima persona plurale racchiude la migliore idea di Europa che c’è: tollerante e pro-barba.


26 maggio: Sam Smith pubblica In the Lonely Hour. Supererà il milione di copie in USA e UK e riceverà sei nomination ai Grammy.
L’intervista a Sam Smith

L’INSULTO ALLO SHOWBIZ

5 giugno: Suor Cristina vince The Voice of Italy.
Il 5 giugno, Suor Cristina vince la seconda edizione di The Voice of Italy, come si era intuito dalla prima puntata. Le danno una piattaforma e lei se la prende, usandola per recitare il “Padre nostro” davanti a quattro milioni di telespettatori. Cosa avrebbe dovuto fare la produzione nel momento in cui la suora che ha salvato il programma chiede di fare una preghiera? Federico Russo non poteva certo censurarla spiegando che c’è già un’ora e un luogo per fare catechismo sul servizio pubblico e si chiama A sua immagine… E in fondo ci sta: portiamo questo meme alle estreme conseguenze, ce lo siamo meritato. Perché anche se Suor Cristina si era presentata alla mano, moderna, spiritosa, ha ben chiara la sua missione e non può non approfittare di una prima serata per portare la parola del Signore.
La parola del Signore diventa poi una cover di “Like a Virgin” (sulla base di “Stay With Me” di Sam Smith). Il mondo intero aveva frainteso il testo per trent’anni, ma lei ha trovato nuove, rivoluzionarie sfumature: “È il tocco di Dio”. Il dibattito attorno a questa scelta, che lei per prima sperava venisse considerata scandalosa, si esaurisce subito. La prima intervista, con L’Avvenire, è tutt’altro che ossequiosa, e il pubblico forse si accorge di avere già speso troppe energie dietro a Scuccia per scioccarsi. L’album, principalmente composto da riletture beige di grandi classici pop, esordisce alla posizione 17 malgrado un’ospitata da Fazio. Senza Che tempo che fa, ovvero l’unico programma italiano in grado di influenzare le classifiche, sarebbe entrata comunque in top 20? Sister Cristina è un flop: non è, come dice Emma, “un insulto allo showbiz”: è un fenomeno virale che non ha mai avuto nulla a che fare con lo showbiz. Se aveva progetti internazionali, non ha avuto il tempo di realizzarli; se ha evangelizzato qualcuno, non l’ha evangelizzato abbastanza da fargli cliccare “acquista” su iTunes.
Finisce a Natale in Vaticano, ma ce la immaginavamo già a Sanremo 2015 (e anche allo Eurovision Song Contest). Eppure, quando a dicembre Conti svela da Giletti il cast del festival, il suo nome non c’è. In compenso, l’annuncio è intervallato da numerosi RVM con Padre Georg.


18 luglio: La hooligan colombiana Shakira diventa la prima persona a superare i 100 milioni di like su Facebook.


24 luglio: MY ANACONDA DON’T. WANT. NONE UNLESS Nicki Minaj lo mette in copertina, e diventa subito un meme.


29 luglio: Laura Pausini la tiene como todas.

 

 


24 agosto: Miley Cyrus vince Video of the Year per “Wrecking Ball” ai VMAs. Il premio lo ritira un senzatetto che era ricercato dalla polizia.


26 agosto: Kate Bush torna a esibirsi dal vivo per la prima volta dopo 35 anni e non sapete cosa vi siete persi.
La recensione di Before the Dawn

IL MANAGER DELL’INNOCENZA

9 settembre: gli U2 pubblicano Songs of Innocence via Apple.
Nel ’97, Guy Oseary divenne il responsabile A&R della Maverick Records. A un’età in cui ci si considera fortunati ad avere uno stage non pagato (22), lui si occupava delle voci di una generazione (Alanis Morissette) e della jilted generation (Prodigy). E ovviamente di Madonna, co-fondatrice dell’etichetta e sua assistita a partire dal 2005. Nel 2013, è diventato anche manager degli U2.
A ottobre 2014, Billboard lo mette in copertina insieme ad altri otto grandi manager provenienti da altrettante aziende, ora fuse sotto la sua Maverick per creare un nuovo gigante dell’intrattenimento (soprattutto musica, ma anche tecnologia). È una mossa a sorpresa che dovrebbe godere della pubblicità di un’altra mossa a sorpresa appena attuata da Oseary: il download gratuito del primo album di inediti degli U2 dopo cinque anni, inserito automaticamente in tutti i dispositivi Apple. Ma dove il manager, la band e Cupertino vedono innovazione, molti consumatori vedono solo spam. Non c’è nulla di nuovo in un album ascoltabile gratuitamente; inserirlo in tutti gli iPhone del mondo senza consenso è invece una nuova forma di provocazione. È un affronto all’unico valore rimasto nella musica oggi: l’integrità delle nostre librerie e delle nostre playlist, curate nel dettaglio perché dicano qualcosa di noi e improvvisamente compromesse da un’iniziativa di marketing.
81 milioni di utenti su 500 “interagiscono” in qualche modo con l’offerta, 26 milioni scaricano tutte e 11 le tracce. Ufficialmente, è l’album più popolare degli U2 mai realizzato, ma quanto valgono questi numeri se mancano ancora i parametri per misurare una campagna simile? Usando i numeri tradizionali, ovvero quelli delle classifiche nel momento in cui Songs of Innocence viene messo in vendita, la collaborazione con Apple funziona benissimo come campagna pubblicitaria nell’Europa continentale (primo posto in Francia, Italia, Spagna). Tuttavia, l’album manca il primo posto perfino in Irlanda e passa una sola settimana nelle parti basse della top 10 in Stati Uniti e Regno Unito. Forse in quei territori il mercato digitale è più sviluppato e il target ha superato la necessità del CD fisico dopo averlo scaricato gratis. O forse ha superato la necessità degli U2.
A fine novembre, Madonna è vittima di un leak di dimensioni mai viste: prima due canzoni, poi altre 11 e poi ancora 14, a mesi di distanza dall’uscita di un nuovo album ancora senza titolo. Si fa presto a dimenticare i precedenti: anche “Frozen” finì online prima della pubblicazione, e nell’era di American Life, la cantante stessa distribuì svariati mp3 per depistare i pirati (contenevano solo la sua voce che leggeva il messaggio “What the fuck do you think you’re doing?”, e un hacker rispose mettendo fuori uso il suo sito ufficiale con la scritta “This is what the fuck I think I’m doing” e un link al download dell’album vero). Nel 2014 sembra impossibile che la più grande artista pop perda per strada una ventina di canzoni e il primo sospetto è che si tratti di una trovata pubblicitaria. Ma la reazione di Madonna e Oseary è quella di chi ha perso non solo il controllo di qualche file, ma anche il contatto con la realtà. Madonna scrive di avere subito “uno stupro artistico” e “una forma di terrorismo”; Oseary inaugura una (infruttuosa) caccia alle streghe via Twitter e fa mandare lettere dagli avvocati ai siti che postano le canzoni.
Sei tracce (cinque già note grazie al leak dei demo) vengono caricate di fretta su iTunes, acquistabili per chi ordina l’album Rebel Heart. È una sconfitta, ma pur non essendo nemmeno il leak più importante del 2014, è la migliore pubblicità in cui Madonna potesse sperare: numero uno su iTunes in 36 paesi.
Il 2014 è l’anno in cui Oseary ha sabotato i nostri dispositivi e si è lasciato sabotare i suoi, e ha messo in piedi le più grandi campagne promozionali degli ultimi tempi facendone parlare per ragioni estranee alla musica. Nulla è andato secondo i suoi piani, eppure non ha sbagliato nulla.


10 settembre: Meghan Trainor distrugge le skinny bitches e raggiunge il primo posto negli Stati Uniti con “All About That Bass”.

L’EX SIMBOLO DEL MALE

12 settembre: Valerio Scanu entra nel cast di Tale e quale show
C’è stato un tempo, nemmeno troppo lontano, in cui Scanu era il nemico numero uno. Al Festival di Sanremo 2010, dopo essere stato scartato e ripescato, si ritrovò in finale con un Marco Mengoni fresco di X Factor e un trio di troll patriottici (Pupo, Emanuele Filiberto, il tenore Luca Canonici). Lui, con la faccia serissima, cantava di fare l’amore in tutti i luoghi e in tutti laghi, preso in giro perfino dalla conduttrice Antonella Clerici: “Ma a farlo nei laghi vengono i reumatismi?”. Mengoni era il volto made in Rai che aveva senso premiare e che, malgrado una canzone così così, confermava le capacità già esibite nel talent show; l’offerta di Pupo non c’entrava nulla con la musica, ma sarebbe stata una vittoria divertente. E invece, all’ultimo round di televoto, vinse Scanu, col pubblico in sala che fischiava e l’orchestra che lanciava in aria gli spartiti. Era l’anno successivo al primo posto di Marco Carta e la supremazia di Amici al festival si rivelava quindi un fenomeno tutt’altro che passeggero: ribellarsi a Scanu voleva dire anche ribellarsi a Maria DeFilippi, che aveva prodotto non solo il vincitore, ma anche il delirante paroliere (Pierdavide Carone).
A distanza di cinque anni, che piaccia o no, “Far l’amore in tutti i modi, in tutti i luoghi, in tutti i laghi” è diventato uno dei versi più celebri della musica italiana contemporanea. Bisogna riconoscere a Scanu (e Carone) il merito di avere creato qualcosa di memorabile – non bello, memorabile – e, per una canzone presentata all’Ariston, è ciò che conta di più. Ma dopo “Per tutte le volte che…”, Scanu fatica, come molti ex talent, a restare una priorità per il pubblico e soprattutto per la EMI. Come molti ex talent, vede scemare l’interesse della sua casa discografica, già concentrata sulle nuove leve delle edizioni seguenti; come molti ex talent, passa da una major a un’etichetta indipendente, con la differenza che se la mette in piedi da solo e la chiama col nome della sua commercialista. Con NatyLoveYou, a gennaio 2014 pubblica l’ultimo album di inediti e debutta nella FIMI al secondo posto (dietro Bruce Springsteen) dimostrando di avere ancora una fanbase disposta a comprare dischi. Ma il grande pubblico è un’altra cosa, e il modo migliore per ritrovarlo è garantirsi un posto in prima serata su RaiUno. La partecipazione a un programma come Tale e quale show è ciò che i personaggi dello spettacolo chiamano “rimettersi in gioco” o “una nuova sfida” e che il telespettatore cinico chiama “l’ultima spiaggia”. Di fatto, nessuna carriera era mai stata rinfrescata da Tale e quale show, e la presenza di Scanu nel cast sembrava un altro divertente atto di disperazione. Ma è anche vero che finora nessuno aveva usato quell’opportunità bene quanto lui.
Già dalla seconda settimana, Scanu diventa il protagonista assoluto. Le imitazioni maschili sono pregevoli (e l’unica con cui vincerà una puntata è quella di Stevie Wonder), ma quelle femminili sono definitive. Nel momento in cui diventa, nell’ordine, Anna Oxa, Orietta Berti e Ornella Vanoni, non si può parlare né di trash né di locura perché non è mai soltanto un uomo in parrucca: la serietà e la dedizione con cui Scanu imita le dive nazionalpopolari lo rendono a sua volta una diva nazionalpopolare.
Nel frattempo, il singolo “Parole di cristallo” debutta al secondo posto della FIMI (dietro a un irremovibile Enrique Iglesias) e raggiunge disco d’oro. Il successo del brano dimostra che c’è spazio non solo per lo Scanu entertainer del venerdì sera, ma anche per quello sentimentale e intenso, che nel video si presenta a torso nudo coperto di fango – come se l’avessero appena ripescato dai quei laghi del 2010.
Non si sa se abbia presentato o meno un brano al festival di Conti: se la commissione non l’ha scelto, ha compromesso la fase finale della sua espiazione, lasciandogli l’agenda libera per partecipare a un’Isola dei famosi che rovinerà il lavoro fatto finora. Forse nel 2015 Scanu tornerà a essere il nemico numero uno, ma nel 2014 concedergli un anno di tregua (o addiruttura tifare per lui) è stato stranamente gratificante.


19 settembre: Aphex Twin pubblica il primo album ufficiale dopo 13 anni e ovviamente non contiene titoli pronunciabili.


20 ottobre: Fedez ha un beef su Twitter col cyberbullo Gasparri per difendere una fan (di Fedez, non di Gasparri).

L’ASSASSINA DEL GUILTY PLEASURE

27 ottobre: Taylor Swift pubblica 1989 e abbandona le piattaforme streaming.
È il 27 ottobre e Lena Dunham è ospite del programma di Lauren Laverne su 6Music per presentare il suo libro. Alla fine dell’intervista, le viene chiesto di scegliere una canzone. Vuole passare “Shake It Off” e 6Music (che, ricordiamolo, la cosa più pop che ha in rotazione è St. Vincent) la trasmette per intero. Nel frattempo, Simon Pegg twitta: “Sono un ascoltatore 44enne di 6Music e amo la nuova canzone di Taylor Swift. Ecco, l’ho detto”. Gli arrivano 1.500 retweet, più di 4.000 stelline e una lunga serie di confessioni simili nelle reply. Sono numeri infinitesimali, nell’universo di Taylor Swift, ma comunque sintomatici dello status raggiunto dalla cantante: è uno dei momenti in cui ci si accorge che non ha sfondato solo le barriere geografiche, ma anche quelle demografiche. Nella stessa settimana, Saturday Night Live ci fa uno sketch: la finta pubblicità di un antistaminico, Swiftamine, per curare gli attacchi di panico causati dall’improvvisa consapevolezza di amare Taylor Swift. “È rosa ed effervescente, proprio come Taylor.”
La transizione al pop della cantante non è avvenuta da un giorno all’altro: già nell’album del 2012, Red, di country ce n’era poco, e il singolo di maggiore successo “I Knew You Were Trouble” conteneva addirittura influenze dubstep. Ma cancellare del tutto il country dalla sua produzione dopo esserne diventata la pluri-premiata poster girl? Il fondatore della sua etichetta (nonché scopritore) Scott Borchetta tremava: “Puoi mettere tre canzoni country nell’album? Puoi aggiungere un violino a ‘Shake It Off’?” No, ci mette invece un sassofono, nell’inno contro gli hater, e il brano funziona anche come risposta a chi la vorrebbe diversa. Il suo istinto, aiutato dai produttori Max Martin e Shellback, si rivela un’arma devastante, e l’effetto è così forte da annientare le polemiche iniziali sulla presunta cultural appropriation del video. Il brano ha un messaggio universale e il video va di pari passo: ci sono le ragazze nere che twerkano, i tipi che fanno breakdance attorno a un ghetto blaster, ma anche le ballerine di danza classica e le cheerleader – tutti uniti da This. Sick. Beat.
Con l’arrivo dell’album, Swift rincara la dose. La prima traccia è “Welcome to New York” e le permette di diventare “ambasciatrice globale” ufficiale della città. Lei ora abita a Tribeca, frequenta Lena Dunham e le modelle di Victoria’s Secrets, fa synthpop e ha probabilmente bruciato il banjo. Addio, Nashville.
1989 supera il milione di copie in una settimana, diventando l’unico disco di platino certificato negli Stati Uniti nel 2014 (e il suo terzo album di fila a raggiungere l’obiettivo), ma piace anche ai critici, perché Swift non si è lasciata scappare nemmeno quel target. 1989 si chiude infatti con tre songwriting memos – messaggi lasciati in segreteria ai suoi collaboratori contenenti idee per i testi e gli arrangiamenti delle canzoni. Sono probabilmente finti quanto il diario di Amazing Amy, ma non importa: servono a dimostrare che Swift, pur collaborando coi più grandi nomi nell’industria, resta una cantautrice coinvolta in tutte le fasi di lavorazione. Che, a contrario delle colleghe, non si limita a cantare sulle basi: lei ci mette del suo. Forse lo fanno anche le altre, ma sono state così furbe da mettere nell’album le prove audio del loro coinvolgimento nella scrittura delle canzoni?
E Swift, alle sue canzoni, ci tiene così tanto da non potere sopportare che la gente le ascolti senza pagare. Fa sparire 1989 da tutte le piattaforme streaming 24 ore dopo la pubblicazione, insieme al resto del catalogo. Non vuole partecipare a quello che chiama un “esperimento” ingiusto nei confronti degli artisti – un esperimento che, secondo le stime della sua etichetta, le avrebbe fruttato “solo” due milioni di dollari in un anno, mentre il CEO di Spotify sostiene che ne avrebbe potuti guadagnare almeno sei. La differenza tra le due cifre la dice lunga sulla confusione che ancora regna sui compensi dello streaming e, malgrado la posizione di Swift sia quasi intercambiabile con quella strombazzata da Thom Yorke per tutto il 2013, il dibattito diventa più complesso e la soluzione più lontana. Ma l’assenza di 1989 da Spotify e simili è soprattutto la dimostrazione del potere conquistato dalla cantante nel 2014, l’anno in cui non ha fatto parlare dei suoi fidanzati ma di musica – di come la percepiamo e come la consumiamo, della forza esercitata da un disco pop perfetto che ha battuto record impensabili puntando sulla qualità anziché sugli scandali. L’anno in cui la nozione di guilty pleasure ha smesso di avere senso, ci siamo tutti fatti una dose di Swiftamine e ci è piaciuto un bel po’.

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29 ottobre: Gli Young Fathers vincono il Mercury Prize, battendo la favorita Kate Tempest e derubando FKA twigs.


9 novembre: Azealia Banks pubblica finalmente il suo Chinese Democracy: Broke with Expensive Taste. E poi continua a litigare con tutti come prima.

IL RITORNO DEL GUERRIERO

21 novembre: Marco Mengoni pubblica “Guerriero”.
A marzo, Giusy Ferreri inserisce nel suo ultimo album un brano intitolato “La bevanda ha un retrogusto amaro”. Parla di date rape ed elenca alcune sostanze nel verso “Rohypnol, GHB, ketamina”. Il sito di un suo fan club trascrive il testo interpretando “GHB” con “giacca a V” (e ancora adesso, su molti siti, si trova un fantasioso “roip no, giacca a V che cammina”). È una piccola gaffe che lascia tuttavia capire il grande scarto tra artista e pubblico: Ferreri, con le sue bevande alterate per facilitare gli stupri, parla una lingua diversa da quella dei suoi fan. Non ha ancora la libertà necessaria per concedersi una svolta glam rock con un messaggio sociale (peraltro abbastanza ambiguo) ed essere compresa: per lei, le parole d’amore di Casalino restano il mezzo migliore per proporsi al pubblico.
Marco Mengoni, dopo avere sbancato con le parole d’amore di Casalino, nel 2014 cambia direzione, o meglio, torna al periodo pre-“L’essenziale”. “Guerriero” è il singolo italiano più atteso dell’anno ed è la prova più importante per Mengoni: deve consolidare il suo status e giustificare l’isteria social che accompagna ogni sua mossa (provate a scrivere #Guerriero e avrete le notifiche intasate per giorni). Non sceglie la strada facile, non è un singolo “comodo”: c’è un bridge che non si risolve con un ritornello bensì con una lunga coda strumentale; ci sono un rullante che sembra uscito da “Hyperballad” di Björk ed effetti appena percettibili (come il bit crusher sulla voce alla parola “rialzerò”) che potenziano il senso di urgenza della canzone entrando in contrasto coi versi rassicuranti del testo. È “La cura” dei millennial e il suo impatto è immediato.
Nella Sorrisi top songs, una classifica settimanale che combina airplay, vendite digitali e streaming, “Guerriero” è il primo brano a raggiungere la vetta grazie a tutte e tre le categorie. Se Fedez non è sufficientemente forte in radio, Tiziano Ferro non vende abbastanza e Vasco Rossi è penalizzato dallo streaming, Mengoni mette tutti d’accordo. Ed è incredibile che ci riesca con un brano così poco convenzionale.
In #Prontoacorrere, lui e il produttore Canova avevano fatto un compito impeccabile, presentando l’artista in una veste semplice, nella sua versione più accessibile. Era un disco poco eccitante e che non si prendeva nessuna libertà perché arrivava a un punto della carriera in cui era meglio non rischiare. Ora #Prontoacorrere suona ancora di più come il compromesso di cui Mengoni si è servito per ottenere il suo status attuale: ha raggiunto il punto in cui può fare ciò che vuole, nella certezza che sarà seguito. Il successo di “Guerriero” suggerisce che Mengoni è già uno dei pochissimi connazionali (Jovanotti, Tiziano Ferro) investiti del compito di ampliare gli orizzonti musicali dell’italiano medio: non deve più parlare la lingua di fan e ascoltatori occasionali perché saranno loro a imparare la sua.


4 dicembre: “Bailando” di Enrique Iglesias abbandona la vetta della FIMI singoli dopo TREDICI settimane consecutive.


11 dicembre: Il tribute act catanese di Ed Sheeran Lorenzo Fragola vince X Factor 7. Il suo inedito diventa disco d’oro in una settimana.


13 dicembre: Andrea Faustini si classifica terzo a X Factor UK. Il vincitore (nonché Christmas number one) è coso, lì, Ben Haenow.


20 dicembre: Madonna pubblica sei tracce da Rebel Heart dopo il leak di molti brani inediti.

 


La classifica delle canzoni del 2014

 

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